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GABRIELE ZANI RECENSISCE “UNA STAGIONE IN NIGERIA” DI STEFANO ZANOLI

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GABRIELE ZANI RECENSISCE “UNA STAGIONE IN NIGERIA” DI STEFANO ZANOLI

Articolo pubblicato sul blog FILOBUS 66

 

Stefano Zanoli, di Cesena, a Cesena insegna Matematica e Scienze in una Scuola Media e, sempre per l’ambito scolastico, ha redatto libri di scienze pubblicati da Le Monnier e A. Mondadori: tutto ciò in ragione degli studi compiuti presso l’Università di Bologna, che gli valsero, nel 1990, una laurea in Geologia.

D’altra natura, non precisamente “per le scuole”, anche se a mio avviso parimenti “utile” e “formativo”, è appena uscito Una stagione in Nigeria, per conto della benemerita casa editrice forlivese L’arcolaio di Gian Franco Fabbri, senza comunque dimenticare che il libro fu prima stampato da una tipografia cesenate nel 2012, dunque in poche copie fuori commercio, evidentemente destinato in primo luogo agli amici. Ed è stata senza dubbio l’insistenza degli amici che ha convinto Stefano a uscire finalmente allo scoperto, ossia con un editore vero, vincendo le ritrosie e il connaturato riserbo che lo contraddistinguono. Ne è del resto una prova tangibile la lettera-prefazione dell’amico scrittore Luigi Riceputi, che compare in entrambe le edizioni, estratta dallo scambio epistolare che a suo tempo accompagnò la stesura dell’opera di Zanoli.

L’edizione “clandestina”, va detto, recava in ultima pagina la dicitura “Cesena, 2000-2005”, appunto il luogo e gli anni della stesura, che però ora nell’edizione “ufficiale” l’autore non ripropone, forse per uno scrupolo che a mio parere risulterebbe ingiustificato, dal momento che tra l’una e l’altra edizione non si scorgono che minimi e minimali ritocchi. Dico ingiustificato perché in questo libro le date hanno indubbiamente un loro peso, trattandosi della testimonianza di un’esperienza (lavorativa, come geologo, ma soprattutto extra lavorativa) realmente vissuta, in Nigeria, a Lagos, in un preciso arco di tempo, quattro mesi del 1996, tra aprile e luglio, quindi vent’anni fa, quando l’autore aveva giusto trent’anni. Inoltre, dalle suddette datazioni, veniamo a sapere che il libro non è stato scritto “in diretta”, bensì a una decina di anni di distanza dagli episodi narrati. E infatti chi avrà il piacere di leggerlo si accorgerà ben presto che non si tratta del tipico libro-sfogo di un esordiente, ma il libro di uno scrittore avvertito e dai molteplici registri espressivi, nonché di un fine lettore, come viene fuori dalle tante citazioni che vi circolano, più o meno esplicite, dagli amatissimi Melville e Conrad, Celine e Sereni. Per non parlare del titolo stesso, che non a caso rimanda all’Inferno del giovane Rimbaud, perché anche la Nigeria, per come la visse il ragazzo Zanoli fu davvero, in ogni senso, un inferno.

Qualche anno fa, allo scoccare della mia terza decade, ebbi l’occasione di dare una svolta importante alla mia vita; lasciare tutto per trasferirmi là dove, seppur vagamente, pensavo di poter trovare tutto e, forse, diventare un uomo adulto a pieno titolo; lasciare l’Europa, mondo immutabile e sicuro, per andare in Africa. Fu così che me ne andai a sbattere il muso in un risvolto ancor più doloroso del normale principio di realtà. Una sberla da rimanerne intontito, paralizzato nell’afasia d’un groviglio informe di parole, dentro una tempesta d’emozioni, impietrito e agitato allo stesso tempo; uno di quei momenti in cui la vita pare abbia preso una piega drammatica “irreversibile”, si sia come cristallizzata in una vibrazione monocorde, nella frequenza di un eterno presente, privo di futuro e orfano di un passato lontano.

[…]

A Lagos, ex-capitale amministrativa della Repubblica federale di Nigeria, la più grande città dell’Africa occidentale, megalopoli-formicaio del nuovo millennio, ci andavo per lavoro, convinto che, del resto, “lavorare” fosse il modo migliore per viaggiare. Viaggiare; e non “visitare”. Sì perché nella mia testa ronzante di quei giorni c’erano soprattutto motivi romantici, non tanto impellenti prosaici bisogni. Ragioni oscure non razionalizzate. Una irrequietezza radicata in anni felici in via di sbiadimento per caso andata a incontrarsi, nella matassa delle cause-effetto della vita, col filo contorto d’una “occasione di lavoro”.

GABRIELE ZANI 

 

UNA BUONA NOTIZIA: TORNA IN ARCOLAIO ANTONIO PIBIRI CON IL SUO NUOVO LIBRO, INTITOLATO, “IL PREZZO DELLA SPOSA”

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Con grande piacere vi annuncio la pubblicazione del secondo libro di Antonio Pibiri, “Il prezzo della sposa“. Il nostro poeta di Alghero si accreditò un buon successo di critica con il primo volume uscito per i nostri tipi; le recensioni piovvero numerose e proprio dagli specialisti della ricerca letteraria, come ad esempio Flavio Ermini e Giacomo Cerrai.

Per meglio comprendere l’evoluzione di Pibiri è bene leggere adesso il suo punto di vista, – breve esaustivo e convincente – sul progetto che oggi vado proponendovi.

Buona lettura!

“Il titolo vuole essere ambiguo, polisenso. C’è dentro l’Anima del Cantico dei Cantici e la difficoltà, parafrasando la Kristeva, di farsi, di generare una propria anima,
ma anche la minaccia continua dell’Essenziale da parte di un Mondo quasi interamente mercificato…”

***

Le poesie:

 

Un ventaglio di esitazioni.

I viali mandorlati, il portico.

Sangue rinvenuto tra le carte

o s’intuisce un fiore

di breve erudizione.

Giacometti spiegato da mio figlio.

L’Eternità a una data ora del giorno.

Febbre in viso. Il cigno colpito a morte

sulla spalliera di glicini.

Un negozio di ferramenta salpa

si allontana tra foglie d’acqua.

La luce con discrezione nel tempio calvinista.

Il cervellotico decapitarsi appena.

Torre di cavalli blu, sette palazzi celesti.

Le mansarde degli scrittori

sui giardini di Lussemburgo.

Ceneri: il bardo nel cimitero del Vermont.

Malgrado non sia teca il mondo fanne inventario,

per nenia, fumaio, poema…

 

**

Il mio corpo accelerato.

Sterilità di api operaie.

– Perché punti la tua scrittura?

Lì i nomi non entrano!

– Dove?

– Nella casa in fiamme e

poco più in là del

capanno per gli attrezzi,

nel frutteto d’oro…

**

Lei signor Copernico

capovolge le grammatiche,

perverte i termini del discorso.

 

Mi scrive di un sole mai sorto

e mai tramontato, un omino

che con ferocia artiglia a sé la terra.

 

Corre corre e  s’affretta dove sa

riapparirà in curva il giorno, poi fa tardi

rapito da insegne e nightclub.

 

Passeggero o passante Luxifer cade,

si rialza. La luce dipinta

sulla breve distanza.

**

Il ponte di legno è crollato

per mutarsi in barca,

un raggio d’acqua

in fiume.

È crollata anche la casa,

voleva scendere

più rapida delle scale

giù a piano terra,

ai cancelli – uscire

dalla promessa di piccole crudeltà.

Per questo è crollata.

**

Si accosta a noi una barca

il suo carico di neve

per l’inverno.

 

È bene. Le acque annottano.

È un bene

come tutto rema e fa spazio

tra voci di testa, romice,

vilucchi.

 

Sembra aspiri a una semiotica.

Non rimane.

 

Solo l’amore

sa

                       leggere.

 

 

 

 

 

 

GIANFRANCO MIRO GORI RECENSISCE “LA MATITA E IL MARE” DI LUCIANO BENINI SFORZA.

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Luciano Benini Sforza, La matita e il mare

Interventi di Gualtiero De Santi e Emanuele Palli

L’Arcolaio, Forlì, 2016, pp.118, Euro 12

 

Recensione di Gianfranco Miro Gori

Apparsa su LA PIE’

 

 

“Affiorano dall’acqua o dal nulla”. Così Luciano Benini Sforza in Intorno , “epigrafe” posta alla sua raccolta di poesie, La matita e il mare, svela la genesi dei suoi “punti fermi”. Emanuele Palli, a sua volta, nella postfazione afferma di percepire “un’atmosfera presocratica in cui sono gli elementi primordiali i protagonisti delle pagine” che recano i versi di Benini Sforza. Il quale, sempre in Intorno, aggiunge più oltre: “Non sono Prometeo o un cacciatore antico in una grotta, sono un insegnante con gli occhiali e ricordi o idee sulla fronte , come tanti”. Come a rimettere, anche con un tocco autoironico, la vicenda sulle proprie gambe e ricondurla a una dimensione per quanto possibile feriale. Eppure la scaturigine marina e la lettura del libro non possono non rinviarci ai poemi sulla natura degli antichi filosofi e in particolare a colui che ritrovò l’archè nell’acqua,

 

Talete di Mileto, ben noto a tutti coloro i quali hanno aperto almeno un manuale di filosofia. C’è poi il riferimento al nulla che, nella tradizione occidentale, rimanda ai sofisti, la cui fama è controversa grazie al loro principale nemico Platone, e in particolare a Gorgia e al suo celebre Intorno al non ente o intorno alla natura ove in brutale sintesi si afferma: nulla è, anche se fosse non sarebbe conoscibile, anche se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile.

Nella prefazione Gualtiero De Santi ci spiega che “’matita’ e ‘mare’ compongono un’endiadi”. Non solo: “La familiarità con il ‘mare’, con la sua luce (veicolo della confidenza con le persone , del rapporto con gli altri, con l’altro), crea tra l’autore e la propria materia un rapporto di analogia profonda, che ha finito per scavarne e ovviamente arricchirne la personalità poetica”.

Diviso in tre sezioni, La matita e il mare, ci accompagna in un

viaggio tra, con e accanto all’acqua marina denso di suggestione e di emozio-ne.

Mi piace concludere coi seguenti versi da Oltre le ciglia: “Ero aria, vento, / un legno spiaggiato a riva, / una passante colpita / come una foglia di biancospino / o un petalo soffiato da una burrasca sopra il mare”.

 

Gianfranco Miro Gori

 

GIAN RUGGERO MANZONI CI REGALA DUE EFFICACI RIFLESSIONI SUI LIBRI DI CAROLINA CARLONE E MATTEO ZATTONI. I TITOLI SONO, RISPETTIVAMENTE: “VARIAZIONI NEL CLIMA” E “DEVIATI”.

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DEVIATI di Matteo Zattoni, Edizioni L’arcolaio.

Riflessione di Gian Ruggero Manzoni

Zattoni, quale poeta, è giovane autore ormai noto a livello nazionale. Con “Deviati” egli si cimenta quale narratore di racconti. Il suo è un libro contrassegnato da tinte forti tramite il quale si affrontano tematiche dure e reali, con piglio sicuro e pulito. Le storie raccontate parlano della “devianza” nella sua ampia casistica: anoressia, bullismo, crisi di identità, nevrosi, fino alla folle deriva di un dichiarato piacere di uccidere. Il lessico usato è incisivo al punto che, a momenti, può sembrare quasi cinico, in particolare quando affronta i “demoni” della contemporaneità. Scrive il sempre bravo Stefano Guglielmin nella sua prefazione: […] nel restituirci le disarmonie del moderno, lo scrittore Zattoni risponde rimpolpando la gamma delle tonalità linguistiche e tematiche lasciate ai margini dalla sua poesia. […] Ad accomunare tutti i personaggi è il loro vivere emotivamente precario entro un orizzonte sociale selettivo, poco disposto a sostenere i più fragili o i meno conformisti. “Deviati” è anche la storia di chi appunto va alla deriva, dopo aver deviato, per scelta o disperazione, dal solco dell’omologazione; forse nell’ultimo racconto s’intravede una ripartenza all’insegna di una libertà nuova, pur cominciata dal letto di un moribondo, nel segno dunque della perdita. Non a caso, credo, quel racconto chiude il libro, libro inaugurato da alcuni versi di Vittorio Sereni tratti da “Quei bambini che giocano”, distinti da parole come distorsione, devianza, emorragia, corruzione, ossia da quegli strumenti disumani che muovono i nostri destini sociali e sui quali Zattoni ci mette in guardia, rivelandosi autore fortemente civile laddove sembrava, nei versi, dominare in lui la dimensione privata, per quanto toccata dagli ossidi della civilizzazione.

Gian Ruggero Manzoni

 

Gian Ruggero Manzoni recensisce “Variazioni nel clima” di Carolina Carlone.

Articolo tratto dall’account FB dell’autore dell’articolo.

 

 

Così, di solito, viene presentata quest’ultima raccolta di Carolina: “Salirò su un’incudine // mi farò ferro e martello / per forgiare / ancora una parola // che suoni d’umano”. Già questi versi indicano il timbro che sostiene la raccolta … una raccolta poetica di impegno e di morale che Carolina Carlone ci consegna nelle sempre eleganti pubblicazioni de L’arcolaio, casa editrice dell’amico Gianfranco Fabbri; una raccolta arricchita dagli interventi di Luciano Benini Sforza, di Mariangela Gritta Grainer e di Nevio Casadio, con, in copertina, un’opera del sempre bravo Roberto Pagnani. La Carlone, con questo libro, denuncia, con grande forza espressiva, la disumanizzazione in atto nella cosiddetta civiltà del consumo, materialista e idolatra, che già Pier Paolo Pasolini aveva bollato come pervasa da un falso progresso. Anche la natura, nella sua raccolta, richiede ad alta voce un bisogno di vita ed esige quel rispetto e amore che si deve a tutto ciò che ci circonda. Del resto un poeta, se vuole fare del suo meglio nel denunciare i mali del tempo che vive, non può che «ribellare» le proprie parole. Il risultato è ciò che viene definita: poesia civile. L’Italia ha avuto, nel dopoguerra, una poesia civile di notevole valore, come ci ricorda anche l’antologia “I nostri poeti”, a cura di Stefano Guerriero (Edizioni dell’Asino). In questo Paese il silenzio è la più spietata e frequente forma di “assassinio”, quindi chi si pone e dice, con senso e senno, non può che essere ammirato, qualunque sia la sua estrazione politica. Per questo si parla del libro della Carlone come avente caratteri letterari forti nei quali si colgono un gusto indiscutibile, una conoscenza profonda della materia e la spiazzante dimostrazione di come la poesia sappia raccontare, con chiarezza e pathos, la vera storia etica e sociale di tutti noi.

 

Gian Ruggero Manzoni