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POST DI GIUGNO – LUGLIO 2006

domenica, 16 luglio 2006

INTERVALLO FOTOGRAFICO

  
Vi piacciono gli album fotografici?
Sì?

Allora ve ne propongo uno, micro, ma credo suggestivo; riguarda la serata del 12 luglio scorso, in occasione della lettura maceratese dei testi del sottoscritto e di quelli di Alberto Bertoni. Serata riuscita, con pubblico numeroso e attento. Ringrazio Il Davoli per la sua consueta generosità e abilità organizzativa.
Gianfry

                 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

    

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Legenda. Descrizione foto in ordine discendente: 1. Alberto Bertoni, Gianfranco Fabbri e Filippo Davoli attorniati dai ragazzi della comunità diretta da Filo. 2. Pubblico presente la sera del 12 luglio scorso. 3/4/5. Gianfranco Fabbri rispettivamente assieme a: Nicolino Riva (detto Fragiliode) e Marco Ricci; 6. Alberto Bertoni e Gianfranco Fabbri in lettura; 7. Filippo Davoli, Albero Bertoni e compagna a cena (Rist.Il Pozzo); 8.Quel granfico di Filippo Davoli, il padrone di casa!

 

 

 

 

 

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postato da: nestore22 alle ore 13:19 | link | commenti (22)
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martedì, 11 luglio 2006

FUORI COLLANA

  

Perdonate l’autopromozione, ma la carne è debole e volentieri …cede alle tentazioni. Sul blog di Marco Ricci / http://pollini.splinder.com / si possono leggere i testi che ho presentato a Macerata lo scorso 12 luglio. Ringrazio Marco per questa gentilezza. Gianfranco.

Luciano Benini Sforza è personaggio quanto mai riservato. Vive a Marina di Ravenna ed insegna lettere nei licei del suo capoluogo. Pur essendo presente nell’ambiente letterario ormai da molti anni, egli ha deciso di vivere in modo assai quieto, nella dimensione umanissima del proprio paese marino, vicino sì ai complessi industriali del porto, ma anche alla vastissima pineta, che funge da polmone salvifico. E proprio qui Luciano ha modo di auscultare la natura. Benini Sforza ha soltanto da pochi mesi il PC; a tutt’oggi si muove con i mezzi pubblici perché non possiede né auto né patente. Questo tipo di vita permette al nostro ospite di riflettere molto in profondità sulle cose dell’esistenza. La poesia ne gioisce, come si può comprendere dagli inediti che leggeremo tra poco. In questi testi inediti, presentati in esclusiva per “La costruzione del verso”, è infatti possibile ripercorrere una cifra squisitamente italo-centrica e Novecentesca. Qui l’intimità del dettato s’incunea nell’”esterno del sé” e procede in ampie volute plurisillabiche, dove il dettato pare spezzarsi nel rigo successivo per dare la possibilità al lettore si poter computare gli stessi versi in modo differente. Così facendo, Luciano sembrerebbe avanzare nelle zone dove la poesia forse pare sconfinare nella prosa poetica e viceversa. Di questi inediti è da rileggere con calma quello che porta il titolo “Le parole usate”, in cui l’autore fornisce una sorta di spiegazione “biologica” della malinconia causata dalla perdita dell’oggetto d’amore  -disperso nei fondali del circolo sanguigno, ma poi rivisto inaspettatamente in superficie, per illuminare di nuovo il presente delle trascorse, luminose stagioni- .

**
(Prima della sera). In poche foto

La vita minuscola, lo sfrangiarsi nel tempo,
nello spazio delle forme
                                        ti accende in poche foto
lo stupore. Il tronco di betulla che galleggia,
gli anziani immersi nel fiume
                                                 fino alle ginocchia
per un recupero di legna inaspettata,
                                                          la densità
delle stesse cose diverse agli occhi
                                                         per prospettiva,
per divenire,
                      hanno l’avvento di un ignoto quotidiano.
Fuggito alle ruote
                              che passano facendo cigolare
                                                                               tutto il ponte,
alle bici di madri calate nell’ascolto,
                                                               nella crescita dei figli
come astronauti nel cosmo più lontano.
                                                              Lontano
vanno anche le barzellette e le risa di mature coppie
in vacanza,
                       quando, insieme a stormi silenziosi,
solcavi l’ora prima della sera.
Resta, sai, di tutto questo un segno netto,
che si richiude
                        o si apre con la mano dentro un album.

**

Fuga

Ma la fuga è un’arte sottile,
una sparizione alla vista
fra te e il liquido
                           ritmo di ombre,
di bestie
                    via via apprese nel verde.
Intanto resti appeso
come un filo dietro una roccia,
                                                   tenendo
il respiro e il corpo impassibili
all’aria.
              Muovi e sviluppi
                                           solo il pensiero,
ape affondi nel fiore,
nel buio,
                nel selvaggio cuore dei tempi.
                  

**

Le parole usate

Ho gettato lontano come stracci
le parole usate per dirti
un tempo “mio bene”, “mio viaggio”,
“come non posso, amore…”,
                                            ma il sentire
è un cammino fra gole,
un salto del sangue a ritroso,
quel fiume interno
                               che non lascia
spazio
         e affiorando travolge con un nome

**

Tengo le mani sul mio tempo

Ora che ho tagliato il filo che ci univa
e quel che poteva nascere
non è mai nato,
tengo le mani sul mio tempo
come una madre
sul figlio che si muove dentro.

**

Ulisse quinto

Cercava fra le pietre accatastate sopra la Ulisse quinto la mano dell’escavatore ferma nella luce, nella presa tentata. Tirò fuori dalla tasca anche la sua, metallica propaggine di quei giorni. Di quei tempi. “Il dolore”, pensò, “non ha spazi precisi, inclusi: è un sentire vagante, ha radici che partono dalle ore più consuete e arrivano al deserto più grande dell’anima”.

Alzò lo sguardo sulle macchine che stavano perforando la riva opposta del canale, non badò ai ricami in aria fatti dalla sabbia, o alla danza bianca dei gabbiani, appena spostati dal fuoco della prospettiva marina ma lontanissimi. Sentì solo il rumore delle cinghie, dei motori e il loro ritmo finire dentro tutto il corpo.

**

Luciano Benini Sforza, nato a Ravenna nel 1965, ha studiato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e si è laureato nella università statale di quella città.  Ha curato con Nevio Spadoni l’antologia Le radici e il sogno. Poeti dialettali del secondo ‘900 in Romagna (Faenza, Mobydick, 1996). Come poeta, oltre ai versi editi in riviste e in antologie, ha pubblicato le seguenti raccolte: Spazi e colloqui (Pisa, a cura del Gruppo Culturale “Ippolito Rosellini”, 1991), con cui ha vinto il Concorso Nazionale di Poesia  “Galileo Galilei”; Le stanze di Penelope (Castel Maggiore, Book, 1995; Premio “S. Domenichino”); Viaggio senza scompartimento (Faenza, Mobydick, 1998); Padri a nord-ovest (Villa Verucchio, Pazzini, 2004), opera per la quale gli è stato assegnato il Premio “Vallesenio”.

 

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postato da: nestore22 alle ore 13:26 | link | commenti (35)
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venerdì, 07 luglio 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.22

  

Nicola Riva ha soltanto ventisei anni, ma è nell’ambiente dell’ “esercizio poetico” già da qualche anno. Che io sappia (ma posso benissimo sbagliare) è l’unico giovane a praticare con determinazione un tipo di poesia semi-chiusa, costituita cioè da lunghe alluvioni d’endecasillabi e di settenari. La perizia di questo ragazzo lombardo si è “alimentata” di voraci letture di classici antichi e moderni, dando forse predilezione agli  autori romantici. Nella tessitura del dettato egli mostra veri e propri atti di bravura; si possono così godere trame di rimalmezzo, di rime (anche baciate) e di sommessi, quanto sofisticati, énjambements che rendono il testo felicemente ambiguo. In Riva tutto è dichiarato, a differenza di molti suoi coetanei che amano imbarcarsi in tessiture talvolta involute e ridondanti. Egli parla d’amore e di sentimenti diretti, e sotto questo profilo il nostro ospite predilige la struttura formale a quella retorica. Infatti, ad accorgimenti finissimi sulla metrica e la sintassi del verso, egli fa mancare un altrettanto densa presenza di metafore e altre figure retoriche. Rimane la curiosità di sapere quale sarà l’evoluzione stilistica e tematica dei suoi prossimi trent’anni: il giro di vite che lo condurrà nella maturità nobile della gioventù.

**
Eccomi ancora qui come ogni notte
a chiedermi se prima o poi qualcosa
potrà cambiare la mia vita offesa

esanime, distesa sui suoi resti
disfatti, in questi giorni inutili che sono
tutti i miei anni. L’anima riposa
paziente nell’attesa…
                                    E disillusa,
al suo destino arresa.

Roadless tramp

(Sulla strada per Emmaus)
Rassegnato incedo senza scorta
nella regione, morta
di sole e sale. Arreso nel mio sangue
fermo per il terrore
di perdermi o sbagliare direzione;
percorro una tra le infinite strade
di sabbia, rovi e vento.
E non è detto che non abbia fede,
ma anch’io mi pongo il dubbio del tormento

***
Non viene lo Straniero,
nessun compagno mi sarà vicino
per svelarmi il mistero, e accompagnarmi
sulla strada per Emmaus. Son solo
lungo il deserto di salgemma e sale,
con la stanchezza nelle gambe, in testa
polvere e confusione. È la tua sfida:
mi lasci incerto e senza Guida, in questa
arsa bruciata abbandonata strada
tra festa e funerale.

Di notte al tuo portone
Tutta la notte batto contro il legno
del tuo portone, finché inizia a scorrermi
il sangue dalle mani e dalla fronte.
Le spine della Mia passione, aculei
della tua crudeltà, nel mio furore
strappano brani nella carne folle
e senza amore della mia corteccia
rugosa; tu non apri, non rispondi
ai miei richiami, sordo contro il grido
di questo irremissibile dolore
che a te mi spinge. Scordo,
voglio scordare di essermi fidato,
nella mia cecità, del tuo conforto,

Signore Dio Adonay,
tanto pietoso da ignorare il pianto
di un figlio morto – in Croce, o sotto al Trono
implorante un aiuto che non offri,
il dono per chi soffre,
che chiede, e prega, e non ottiene mai!

Plenilunio sul fiume
Sedevamo abbracciati sulla riva
del fiume, in una mite
notte di plenilunio e brume estiva;
io ti baciavo le ginocchia nude
buone di sudore e umidità
scordando d’esser rude
come chi soffre (forse troppo argento
sull’acqua, o sul tuo collo; troppo vento
fiorito, tra le fronde!)
Con voce dolce d’onde, all’improvviso
dicesti Stai perdendomi – e scomparve
dal volto tuo il sorriso.
…Avrei voluto dirti che ti perdo
da sempre, ma non so con che magia
mi hai reso muto quando la tua bocca
sfiorò in tremori liquidi la mia.

Ti sto perdendo e non ti ho mai avuto;
ma ti posseggo adesso:
l’ho ripetuto spesso, eppure mai
con tanta angoscia in petto
che non ammetto io, e tu non sai!

Arabeschi
Siepi di palme filtrano stellati
raggi di sole tiepidi, distesi
nei mesi dell’esilio sulle sponde
d’un altro Nilo; tra le fronde calme
la luce è ala e lama, un filo teso
a caso nella polvere d’un Tempo
sospeso eternamente. Intrappolati
tra le rovine sparse, come spire
lucenti d’un serpente tra i pilastri
di templi aperti agli astri, iridescenti
vapori mi riportano ricordi
di un mondo che ho perduto, sono il segno
d’un regno di splendori.
                                        Ma i colori
da me sono svaniti, e sopra i muri
qui i raggi sono radi e impalliditi,
ripetono soltanto chiaroscuri.

Nouveau speen

Amara solitudine che abbruni
le sillabe e le riempi di mestizia,
dell’atra nostalgia
che ci conduce a un’agonia smarrita,
sorella nella vita
ornata di sconforto e di lusinghe
per l’esistenza umana,
attesa vana della stasi eterna,
se nell’oscurità ricerco il vuoto,
il moto delle stelle, e della luna
le fasi che m’annunziano il domani,
non mi dimenticare; se tu fuggi,
mio solo sentimento, le mie mani
saranno cieche, e vuota la mia mente.

Tristezza dell’assenza
di chi sapeva togliermi la morte
dagli occhi, mi riporti nel dolore
di sempre non più solo, mi consoli
con le lusinghe false e mi circondi
sciogliendomi nel dolo. E pur ti imploro
di starmi accanto, adesso che nessuno
mi esime dal dolore, e di coprire
la nuda lontananza che ci stacca.

Oh, se bastasse l’acqua
del Lete a dar riposo al mio ricordo,
vi fosse nell’inganno del futuro
la forza di patire, o sol l’oblio
che annebbia ciò che è stato. Non mi duole
se mi hai plasmato inutile, mio Dio,
se con l’addio hai spezzato la mia vita:
la vera sofferenza è che la sorte
all’uomo rende vana anche la morte.

Nicola Riva, Nato nel 1980 a Trezzo sull’Adda (MI), comincia a interessarsi alla poesia fin dall’età di dodici anni, indirizzandosi immediatamente verso l’opera di R. Tagore, del romanticismo inglese e tedesco, e dell’ermetismo. Dal 1997 inizia a tenere lezioni e conferenze sulla poetica contemporanea europea. Dopo aver conseguito il diploma di maturità classica entra in contatto con la rivista “Ciminiera”, diretta da F. Davoli, della quale è attualmente redattore, pubblicando alcuni articoli e traduzioni da Coleridge. Si presenta al pubblico nel 2003, a Macerata, durante un incontro di lettura assieme a S. Bre e G. Del Sarto. Alla fine dello stesso anno esce il suo primo volume di versi “QUI, DOVE?” per la collana “I poeti di Ciminiera” (ed. GED), recensito favorevolmente da A. Cappi su “La voce di Mantova”. Alcune sue poesie vengono lette nel programma radiofonico “Rai Radio Zapping”. Da due anni tiene regolarmente corsi di approfondimento per gli studenti di licei classici.

 

 

 

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postato da: nestore22 alle ore 13:41 | link | commenti (20)
categorie: poesia

lunedì, 03 luglio 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.21

  

L’ospite nuovo è un intellettuale di razza; laureato in lettere moderne con una tesi su Italo Calvino, ha poi risposto con entusiasmo alla propria vocazione sacerdotale, che tuttora svolge in una parrocchia romana. I testi presentati a “La costruzione del verso” risentono in qualche modo della lucidità dello studioso. Ebbene, avete compreso tutti che il poeta che starà qui con noi per quattro giorni risponde al nome di Fabrizio Centofanti. Certo, proprio il brillante conduttore del blog “La poesia e lo spirito”. Il nostro amico attua un progetto “strutturale” per dirci il suo punto di vista sull’uomo e il proprio ambiente. Il dettato, infatti, si rivela irto di suggestivi meccanismi che forniscono ai testi numerose emissioni di versi molto spesso classici (endecasillabi, quinari e settenari) rivestiti però di consonanti gutturali e carsiche. Si possono rilevare autentiche eruzioni vulcaniche, in tal senso. L’intenzione di Centofanti credo sia solo per metà involontaria; nei “ritorni” di sillabazioni e di morfemi si nota una frequenza che fa pensare a un calcolo positivo di stendere sul foglio uno stile non banale e non freddo. Il nostro poeta si caratterizza a suon di riflessioni che “rifilano” il tema proposto. Egli ausculta il profondo dell’inconscio con mezzi non poi così lontani da certe vibrazioni “lombarde”, che ricordano talvolta Raboni (qui lo dico ed è cosa soltanto mia) e anche qualche vaga eco da gruppo ’63. Fabrizio comunque è molto avvertito sul piano formale, e sceglie subito, allo scopo di ammorbire il reticolo strutturale, una tessitura fatta di rime molto forti, molto particolari: rime ed assonanze che hanno il compito di avvolgere il canto, altrimenti un po’ algido e iper-lucido. L’asse elicoidale risulterà quindi utile e piacevolmente addolcente per dirci qualcosa di suggestivo sulla vita di noi tutti.

**

Arte poetica

lo scantinato e il muro l’esistenza
d’un’altra sede
un seggio d’oca piuma di poeta
l’indice fisso contro l’alfabeto
in cerca d’ogni lettera
che pronunciasse morte o resistenza
rifiuto d’ombra misera coscienza
di volere o d’agire

un dio dei fiori sorto a primavera
dal nulla sillabò vocali in corso
ancora intonse curve sulla carta
di fiamma breve forse:
perché nel freddo infranse
il vizio antico il cuore di violenza
d’empia sorella morte
la sua giornata piena d’ogni senza

nome per nome vittime del tempo
i fiori finti stendono colori
su cimiteri d’acqua
il resto è fuori
ma è l’umor nero l’orlo che si sfibra
l’urlo del vero che riemerge a stento
Voce in moto contrario

**

è triste volere dirimere – di cedola in cedola
il canto infinito dell’oltre
dell’oltre quei vetri, se il cielo svanisce
se è un fatto di luci, soltanto
di denti canini,
umidi come la calce. un ottone
risuona di un inno in oscura rivolta

e ormai si rinnova
il vuoto, il salvato
un orlo d’ignota bottiglia, tarlato.

se gira soltanto
è un’ombra che fredda contagia
l’amato discanto.

tutto finisce: la scusa di ciò che respira
è il dolore del ventre, le risa, l’altrove.

**

Etica poetica

non scriverò di cose della vita
lo so
la vita parla già da sola
ha un suo ritmo che cade naturale
come il battito come il ticchettio
d’un pendolo
neppure scriverò
d’immagini o ricordi del passato
che giacciono sepolti in cimiteri
ignoti
neanche un fiore
morente in un inverno
lo so
non scriverò di sensi e sensazioni
di pensieri passanti di versanti
di pallide emozioni raffinate
penombre che d’incanto rarefanno

scriverò di parole senza corpo
di linguaggi perduti d’un’erotica
assenza d’ogni frase
lo so
inibita dalla logica
Racconto di Natale

**
Racconto di Natale

i magazzini vedono la notte
da un’ottica diversa
sono le merci occhiute della spesa
a sorvegliare i sogni delle madri
del very hot dell’hard discount di casa

s’alzano voci d’algidi profeti
profeti a perdifiato nelle grotte
babbi natale rossi rampicanti
su muri d’ombra d’altri fallimenti

(l’ultima volta parve una visione)
nel bagno caldo nuda tra la schiuma
fu come entrare dentro l’emozione
di spot di bot di tot di desideri
beneodoranti d’alta biancheria
intima intima

ma un aggettivo inutile
a scuoterla dal sogno alla missione
di sorvegliare merci sorveglianti
da un altro punto l’ottica del mondo
la liberò dall’ordine
e i passi svelti urtarono la strada

**

Cronaca

di quel mercato appena rimaneva/
la pioggia densa scura come il sangue/
dopo le prove/
tutto è consumato/
da questo lato/
l’albero si poggia/
sopra i ritratti fatti familiari/
dalla memoria breve dal ritorno/
trascolorante stante nell’inferno/
di sole-luna l’ombra che si scava/

la porta sbatte scattano le mani/
del cielo basso e l’angelo di pane/
nemmeno s’alza/
balza già perduto/
tra le rovine intrise di catrame

Nomen omen

facile dire l’oltre nominare/
sentire gocce contro la tua pelle/
e dichiarare: è pioggia/
oppure fare finta di partire/
e dire: è fuga/

che non esista un ultimo ricordo/
e che la terra autonoma decida/
il nome e il fatto e il fato di quell’acqua/
e il rovinare sordo delle scarpe/
lo stesso schianto turgido del bacio/
che nella sera nutre il destinato/
nome l’esoso nume del rapporto/
il tuo calore il corpo che si placa/
l’acqua e la pioggia l’umida incavata/
risuona appena l’unico barlume

**

Fabrizio Centofanti (Napoli, 1958) è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato diversi saggi e nel  2005 “Le parole della felicita” –  (Laurus Robuffo, Roma).
E’ infine gestore del blog “La poesia e lo spirito”, spazio virtuale che si interessa di poesia, di filosofia e letteratura in generale.

 

 

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postato da: nestore22 alle ore 00:17 | link | commenti (51)
categorie: poesia

mercoledì, 28 giugno 2006

BACHECHE DEI POETI GIOVANI E/O ESORDIENTI N.20

  

Con Cristina Babino si ritorna nelle Marche, anche se l’ospite vive attualmente a Bristol. Di questa affascinante regione italiana si riprendono qui i connotati di un verso pulito (talvolta perfino troppo) di sicura presa sintattica e comunque votato ad una chiarezza che spesso e volentieri si allontana dal discorso iper/retorico. La Babino mi ha fatto pervenire dei testi a moderato peso specifico, privi di sbavature e densi invece di velati toni “smart”, a connotazione geografico-casalinga. Non di rado spunta fuori un’ironia che riprende, in modo simpaticamente maldestro, certe atmosfere da noti romanzi o motti celebri, senza preoccuparsi più di tanto dell’esito che sortiranno nel lettore. Secondo la mia impressione, quello di Cristina è un esercizio che conduce a risultati compiuti, i quali, sorretti anche da una tematica minimale e riflessiva, rendono esatta la visione del mondo che dal micro conduce verso un disilluso “macro” discorso, inerente alla vita dei nostri giorni comuni.

**
Paddington Station

Il fruttivendolo accampato nella metro
tra la scala mobile e l’uscita
è un verso rubato a Ferlinghetti.

Un’indiana in sari viola
compra raspberries al sacchetto
e intanto allatta tre bambini
aggrappati alla sottana
tenda abbassata
bacio sul collo del piede.

Mi appoggio a quel che resta
di un lampione vittoriano

valigie a rotelle
tracciano lunghezze di binario
orizzonti frettolosi
paralleli al pavimento.

Mastico il tempo
trascorso vuoto
che rimane

e una barra ai cereali
comprata insieme
ai quotidiani.

Tra due ore avrò di nuovo fame.

**

Sala d’aspetto

Faccio un sogno
di maestri e margherite

nel punto del giorno
che volge al contrario
l’attesa è un’arte
applicata al didietro.

Invento nomi e storie
per le facce che ho di fronte
– e quante volte ha pianto
la donna  che sta a fianco–
le mani stanche in grembo
sulla borsa a poco prezzo
le vene varicose.

M’aggiusto sulla sedia
rimango e giuro
che non resto.

Misuro con prudenza
l’estetica approssimata
di quadri rassegnati
alle pareti.

Distraggo lentamente
una noia d’anticamera
un’asfissia composta
di colpi di tosse
e aria consumata

assorta nell’anatomia
comparata di un scarpa
e del suo paio.

Il riposo

Ai padri una domenica
da autolavaggio

ai figli il funerale
di una lucertola

che non vuole fiori
né opere di bene
ma urla feroci
di ragazzini rincorse
sudate di pallone
nei cortili acciottolati
e sfranti tra i palazzi.

**
       (Alla città di Fermo, da lontano)

Fermo, un poco mosso

Fermo è perimetro
orto recinto d’animale

è terra sistina
provincia intinta di papi

è figlia di un do minore

quello dei musicisti
dritti nei conservatori

quello di petto bulgaro
tenore che s’accorda
con la  moglie violinista.

Fermo è il convento
che non ti puoi affacciare
la coda indifferente
che si reca al santuario
madonna che sanguina di spade.

Fermo è il convitto 
dell’istituto industriale

e ferme le auto in sosta
che bloccano le strade.

**
Lauto Ritratto

A tutte le città che mi hanno visto
riservo il medesimo rituale
di rabbia e commozione
spallate all’intonaco dei muri
ruggine di tubature
incastrata nelle unghie
le automobili in corsa
le scavalco come si guada un fiume
passanti incontrati
in qualche altrove
ma chi mi riconosce
se chiede d’accendere
e non s’accorge che
sto prendendo il volo
e quasi fuoco.

**

Cristina Babino è nata ad Ancona nel 1976. Ha pubblicato la raccolta di poesie “L’abitudine del cielo” (Blu di Prussia, Piacenza, 2003) e suoi testi sono inclusi in varie antologie, tra cui “L’opera continua” (Giulio Perrone Editore, Roma, 2005). Laureata alla sezione Arte del DAMS di Bologna, affianca alla produzione letteraria l’attività critica e giornalistica: ha pubblicato una lunga serie di articoli e recensioni su riviste (è stata tra l’altro redattrice del mensile di cultura“Buon Gusto”) e magazine on line. Alcuni suoi testi poetici tradotti in inglese sono in fase di pubblicazione su “Coffee House Poetry” e su altre riviste di poesia contemporanea britanniche.
E’ vincitrice di numerosi premi letterari nazionali, tra cui il Premio Rabelais (edizioni 2004 e 2005) ed è stata segnalata da Maurizio Cucchi nella rubrica “Scuola di Poesia” su “Specchio” de “La Stampa”. E’ membro della giuria del Premio Internazionale “Poesia in Strada” di Colmurano (Mc) e dell’Associazione “Licenze Poetiche” di Macerata. Attualmente vive a Bristol.

 

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postato da: nestore22 alle ore 22:53 | link | commenti (38)
categorie: poesia

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