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ROSSELLA RENZI RIFLETTE SUL LIBRO CARTEGGIO DI C. TITO E L. DI RUSCIO: “LETTERE DAL MONDO OFFESO”

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03 ottobre 2014 PROTOTIPO DI COPERTINA

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RI-CONOSCERSI NELLA POESIA 

Lettere dal mondo offeso,

Christian Tito e Luigi Di Ruscio

di Rossella Renzi

 

 

Si comincia dalla fine, in questo libro – pubblicato dalla Casa Editrice L’arcolaio di Forlì, nel 2014 – che racconta il dialogo, profondo, umanissimo nato dalla corrispondenza tra due voci poetiche del nostro tempo: Christian Tito, un giovane poeta che vive a Milano e lo scrittore ultraottantenne Luigi Di Ruscio, trasferitosi in Norvegia dal 1957. Si comincia dagli ultimi scambi, dalle ultime battute tra i due, cariche di un sentore di buio che lentamente silenzia ogni cosa e mette a rischio la voce di un grande poeta, di un uomo particolare, che scrive nella sua opera Memorie immaginarie e ultime volontà:

“È così che capisci di andartene, gli sguardi dei tuoi cari si
abbassano, le parole stentano ad essere pronunciate, i figli
ammutoliscono. […] Chiudo tutte le finestre, ripongo nella custo-
dia la macchina da scrivere, ritorno tranquillamente nel niente da
dove sono venuto.
Nei miei versi è la mia resurrezione.”

Tito avrebbe voluto intitolare questo libro La vita segreta dei ratti, una delle ossessioni del suo Maestro, dal momento che il suo sguardo, il suo pensiero, la sua ricerca erano rivolti agli strati più bassi dell’esistenza, verso gli esseri che vivono a margine: Di Ruscio riesce ad affiancare all’orrore, quanto di grande e buono è ancora possibile alla natura umana. Una volontà di resistenza, o meglio di resilienza a tutti i costi, per uno scrittore in grado di usare la parola come conferma dell’esistenza. Perché in questo Don Chisciotte moderno – così lo definisce Christian Tito – «esiste un’adesione così stretta tra vita e scrittura» che nelle sue opere, la sua carne e il suo spirito risultano totalmente scoperti.

Nel libro la poesia trasuda da ogni pagina, da ogni parola, da ogni silenzio, e assolve il compito di aumentare il valore della realtà, in ogni gesto, immagine, situazione… E questo, Luigi, sapeva farlo bene: al termine della lettura, viene spontanea la ricerca furiosa delle opere di Di Ruscio, poiché si ha la sensazione di aver lasciato indietro una parte importante della nostra letteratura contempo-ranea.
Christian Tito scopre Di Ruscio casualmente alla Libreria del mondo offeso di Milano, dove i gestori gli consigliano la lettura di questo notevole poeta, ingiustamente trascurato. Christian lo apprezza moltissimo e cerca subito un contatto con lui: perché è questo ciò che accade quando un libro ci entra dentro, ci segna (o ci in-segna)… Desideriamo incontrare il maestro, per avere le sue parole e per ‘sentirlo’ come persona e non solo attraverso la pagina. Piano piano, fra loro, si intesse un dialogo sempre più fitto e attento a scoprire, con attenzione e una sorta di pudore, le vite reciproche attraverso i versi, i racconti e le fotografie. Di Ruscio non nasse problematiche, anche gravi, legate alla salute, alla solitudine e le sue difficoltà economiche. Non nasconde il suo profondo disagio, la mancata comprensione che il mondo ha avuto verso la sua persona e verso la sua arte. Christian, dotato di grande sensibilità, sa usare le parole giuste per trasmettere a Luigi un raggio di luce e di speranza in quel frangente doloroso (e finale) della sua esistenza. E soprattutto sa raccogliere quella che è l’urgenza di Luigi: fare sopravvivere la sua scrittura, portarla nel mondo per farla vivere, oltre la sua esistenza terrena. Si legge infatti nelle Mitologie di Mary:

“La mia paura della morte riguarda solo la paura che tutto
quello che scrivo vada perduto.”

Dalle lettere emergono frammenti, ricordi, confidenze sulla quotidianità familiare, così che la poesia si viene a collocare in una dimensione domestica e faticosa, dentro le pieghe dei giorni, quando il lavoro speso sulla tastiera, avverte del pericolo vicino.

 

da L’Iddio ridente

Nessuna strada sembra più strada
del vicolo in cui sono nato
in giù per la discesa precipitavo
mentre le madri urlavano
fuggivo da loro
le ultime radici troncate
ero finalmente vivo
e in salvo
con le poesie scritte
presso l’ultimo precipizio.

Tito entra nella scrittura di colui che riconosce come Maestro, scoprendone una forza epica accanto a una profondissima ironia. Ne valorizza i lapsus, le sgrammaticature, le invenzioni linguistiche, a volte ironiche, a volte tragiche… Lui, che sembrava poter scrivere in preda a furiosi rapimenti cre-ativi, in realtà era un attento scultore, che lavorava finemente sui dettagli. La stessa vita di Di Ruscio è stata epica, considerando la misera della sua infanzia, la guerra, il trasferimento in Norvegia e i numerosi lavori che si trovò a svolgere tra Italia ed estero, e il pessimo rapporto con i suoi connazionali («con gli italiani che occasionalmente incontro sono trattato da pezza da piedi. Invece con i norvegesi spesso incontro cordialità».)

Le lettere dal mondo offeso scivolano veloci, come i mesi e gli anni, tra i versi bellissimi dei due, che si confrontano sulle loro creazioni, sulle citazioni copiose e necessarie che Tito fa della poesia e de della prosa di Di Ruscio, tra scorci di quotidianità, stima reciproca e una fiducia che cresce ad ogni nuova mail ricevuta. I vissuti, seppure così diversi, lontani geograficamente e storicamente (Di Ruscio, classe 1933, originario di Fermo, trasferito in Norvegia a 27 anni; Tito classe 1979, pugliese, trasferito a Milano) individuano radici comuni che non possono che saldare e intensificare questo rapporto di lettere che diventa inevitabilmente rapporto umano: la fabbrica, i gatti, la famiglia, la poesia, la figura del padre e del figlio.

Tutto assume una dimensione familiare ma preziosa, molto rara… perché vicina all’abisso. Ed è qui che occorre curare la parola: come racconto di sé, bisogno, necessità di dire e di ascoltare, di donare e di accogliere, di esserci… Parola che illumina quell’essere insieme, ciò che diventa il manifesto poetico e umano di Luigi Di Ruscio: «le nostre diversità contano meno di tutto quello che abbiamo in comune». Infine parola capace di resuscitare, una volta oltrepassato il varco. Il magma di emo-zioni, pensieri, riflessioni che sprigiona dalle lettere dal mondo offeso rende questo libro necessario: dimostra cosa sia in grado di fare ancora la poesia, quella vera, scritta sull’orlo del precipizio, quando ci restituisce un frammento lucido e appassionato di profonda umanità.

“Scriviamolo sui muri, la resistenza è ancora possibile, l’urgenza delle parole si frapponga fra noi e il resto. La sconfitta non è definitiva, la speranza è tutta nella nostra capacità di rLuigi Di Ruscio, Memorie immaginarie e ultime volontà

“Potete anche non leggere la poesia tanto dalla poesia sarete certamente letti.”
Christian Tito, Lettere dal mondo offeso

*

Luigi Di Ruscio nasce a Fermo nel 1930. Emigra dalla sua città natale nel 1957, dopo l’esordio poetico nel 1953 con Non possiamo abituarci a morire, presentato da Franco Fortini. Si stabilisce a Oslo, in Norvegia, dove per trentasette anni è operaio metallurgico. In Norvegia sposa Mary Sandberg con la quale mette al mondo quattro figli. Ha pubblicato: Le streghe s’arrotano le dentiere, con la prefazione di Salvatore Quasimodo (Marotta, 1966); Apprendistati (Bagaloni, 1978); Istruzioni per l’uso della repressione, con presentazione di Giancarlo

Christian Tito è nato a Taranto e lavora a Milano come farmacista. Chitarra e voce della band Xyma attiva dal ’96 al 2001 è autore dei testi che cominciano progressivamente ad avvicinarlo alla poesia. Qualche anno dopo pubblica: Dell’essere umani (Manni, 2005) e Tutti questi ossicini nel piatto (Zona, Lavagna 2010), il carteggio con Luigi Di Ruscio, Lettere dal mondo offeso (L’arcolaio, Forlì 2014). Regista dal 2006 di numerosi cortometraggi, alcuni dei quali presenti in vari festival nazionali e internazionali: in particolare nel corto I Lavoratori Vanno Ascoltati si avvale della propria poesia edi quella di Luigi Di Ruscio per narrare le fatiche degli uomini segnati da una vita passata in fabbrica, lavoro incentrato su Taranto e sulla famigerata Ilva.

 

ROSSELLA RENZI

 

 

LUCA CENACCHI PARLA DEL NOSTRO LUCA LANFREDI, CONDIVISO CON LA COSTRUZ. DEL VERSO E FARA BLOG.

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                                             iltempochesiforma tre

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                                              Il tempo che si forma ; Luca Lanfredi

                                                     Articolo scritto da Luca Cenacchi.

E’ difficile cercare di commentare il libro di Luca Lanfredi: Il Tempo che si forma, Arcolaio 2015. L’essenza del poetare dell’autore, come suggerisce l’editore stesso, può essere solo intuita abbandonandosi alle sue ombre.
Lanfredi ha uno stile pulito che fa leva su un lessico frugale per presentare l’immediatezza di un istante in cui, talvolta, i limiti della realtà vengono “sfocati”, come dice il prefatore, da un orizzonte interiore, il quale poi prende il sopravvento. Questa tuttavia, non è la sola declinazione che gli istanti lanfrediani assumono. Altre volte, proprio da questa dimensione intima, finiscono per riemergere dalla memoria dettagli significativi della realtà che si scorciano, da una parte, in una veloce pennellata “elencativa” (L’Impazienza) dall’altra strutturano autonomamente il componimento (L’ottavo mese dell’anno). Oltre questo sento la necessità di rimarcare che, in alcuni componimenti,  tra la dimensione reale e quella emotiva c’è uno iato: una separazione manifesta non solo dalla divisione strofica, ma anche dal cambio repentino del discorso che improvvisamente si chiude in se stesso, nel senso che si astrae dalla descrizione ( l’accento).

(l’Accento)

Si è come gli alberi infilati,
questo si. Sotto, l’asfalto
Che diradica e indosso
le cortecce da sbalzare.

Dicevamo di noi, un tempo,
con quell’accento allegro
Che colora e solo la realtà
può fare lingua.

Proprio in questo componimento si nota una certa tendenza “sapienziale” e assertiva nella prima strofa ed è come se l’autore stesse dialogando, attraverso il ricordo, per rimarcare quella credo si possa chiamare una rivelazione. Infatti lungo tutto il libro l’io lirico scompare e riappare nella trama dei dialoghi, di rievocazioni, rivelazioni e asserzioni che costituiscono costanti di un “flusso narrativo intermittente”il quale se da una parte lascia la sensazione che non si sia mai esplicato tutto dall’altra sembra sempre riprendere da un punto di partenza non ben definito.
Questa incostanza, detta narrativa solo per intendersi, tende a disfare la dimensione temporale per come la conosciamo, al fine di pervenire a una dimensione intima, frutto di quella che ritengo sia una selezione di oggetti, gesti e corpi all’interno delle luci e delle ombre di ricordi o momenti significativi, che poi vengono dilatati lungo tutta la durata del componimento in quel che talvolta pare un eterno presente, nonostante le precisazioni temporali dell’autore. Perché alla fine quando Lanfredi ricorda, in realtà rimurgina sempre in funzione non tanto del presente, ma di una immediatezza:  per questo il lettore – almeno io- ha sempre l’impressione che la specificazione temporale rimanga nei confini della parola e quindi, all’interno del testo, abbia un valore puramente nominale. Questo entrare uscire da sé impone sempre un “momento” interiore che distrugge la normale esposizione/ concatenazione delle azioni danneggiando irrimediabilmente la percezione del tessuto temporale. Forse è proprio questo, alla fine, il tempo che si forma: ovvero quella dimensione indefinita e interiore dell’immediatezza, ma non inconscia, in cui si addensa la poesia; Altersì: il momento del concepimento dell’azione per, forse, sfuggire, a quel “slabbrato sentimento dell’istante” che obbliga a “parlare in sottrazione” e in cui si dispiega inevitabilmente il nulla. Un certo sentimento che riattualizza , se si vuole, certi echi keatsiani, cui Lanfredi dimostra di non essere estraneo. Quella, per dirla con le parole dell’autore, “eterna indecisione” in cui si inscrivono “la porta leggermente schiusa”,” il penultimo confine dell’autunno”etc…
Alla fine ritornare insistentemente su eventi già compiuti, oggetti o gesti cos’è se non altro il tentativo di estendere i confini della loro esistenza?
Detto questo è necessario attestare la caratteristica esistenziale che percorre il libro e ha il suo picco più puro ne “Lo spazio geografico”: sezione sospesa tra le tinte lugubri della coscienza del vuoto, del nulla e della morte; frazione in cui l’autore non nasconde una certa positività trincerata dietro la significatività di vari particolari: “ e, poi attento al sorgere/ dell’ora, il quotidiano gesto/ che stupisce”.Gesti attraverso i quali si tenta sempre di testare i limiti della condizione in cui ci si trova assieme al mondo. In queste pagine si assoda l’importanza di questo elemento significativo, fatto poesia, il quale sembra avere valenza assoluta per l’autore rispetto alle parole/segni, attraverso una rievocazione estremamente suggestiva “ il segno del vino che bevemmo/ rosso le labbra/ci attramonta”

(la presenza)

inoltre l’esplosione questa notte, rancorosa,
dell’una e venticinque che mi ha aperto
gli occhi, ma accanto già la pace
del tuo traverso ridere
sognando.

E attorno al giorno la risicata gioia
del panneggiare rosso degli incroci
e il minimo cortile, ingigantito da
un azzurro- sole.

Ne “la pronuncia del nome” sembra che l’assenza si configuri come assenza degli altri, quegli sguardi trincerati dietro ai corpi e si  addensa quindi la necessità di vedere cosa rimane dopo l’apparenza: “ la sete, che rimane tra le dita/ quando l’aria ne asciuga/ l’apparenza”. Per la necessità di stabilizzarsi allora:“ si compilano le liste, sai, per una necessità profonda: / scrostare i ritratti che stiamo interpretando/ doppiare il movimento inseguito dai cronisti”. Ciò che si trova dopo la nebbia ci si aggrappa saldamente, come a quel luogo che pare irreale di (in extremis) dove si afferma definitivamente il primato dell’esistere sopra la parola: “ Forse, come nel posto dove tutto/ esiste senza una parola, dove il tempo/ scola senza una nuova sosta./ Di quello starsene seduti dentro il/ giorno: il margine riarso della strada chiusa,/ la mano tesa col segno d’infinito.”
Ma “l’eterna indecisione” fuga solo la domanda senza risponderla adeguatamente. Allora alla fine di tutto cosa rimane? Quello che rimane è l’istante significativo, come si è già detto, composto da oggetti, corpi, gesti e perché no, anche luci e ombre. Questo non è tanto l’esistere, ma l’esistenza depurata dalla contigenza: il particolare significativo, che si sbozza sullo sfondo di un colpo d’occhio, come le esistenze, ma facciamolo dire all’autore:

(e un biglietto della lotteria)

E ancora(lo sai?), ho bisogno dei tetti
che da quassù si vedono e di quel cielo povvido
che serrano così, come l’andare roncato dei tuoi fianchi,
come le gru e le antenne che si sbozzano
sullo sfondo di questo colpo d’occhio.
ci sarà, la fortuna – dimmi?
(Dimmi) : ne avremo?

Luca Lanfredi è nato nel 1964. Abita e lavora a Brescia. La sua prima raccolta, A mezza luce (Clepsydra Edizioni), è stata edita in formato e-book nel maggio 2009.
Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata  selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti – Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati  presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La mia sfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore, Fara Poesia e ora anche L’Arcolaio. Nel 2016 è stato giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto Poeti alla finestra presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter

 

L’OSPITE. OGGI E’ DI SCENA FULVIO SEGATO, AUTORE FARA. SCHEDA DI LUCA CENACCHI

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                            L’OSPITE

Fulvio SegatoLa consuetudine dei frantumi

La consuetudine dei frantumi di Fulvio Segato è la raccolta poetica emersa vincitrice dal concorso faraexcelsior 2013, indetto dalla casa editrice Fara Editore.
Segato, con questo libro, ha riscontrato una moltitudine di consensi in campo nazionale(premio speciale casentino 2016, premio Massa nonché attenzione critica etc…)
Sulla scorta di Giuseppe Carracchia,dunque, vorrei anche io partire da una suggestione anche se esterna, questa volta da Montale: “ qui dove affonda un morto/ viluppo di memorie,/ orto non era, ma reliquiario.”
Ciò che spicca è il confronto doloroso, a tratti tragico, di due realtà: una quotidianità aurorale intima all’autore annidata fra i profumi, odori che la “riportano a galla”, la quale si incastra e stipa nella negatività presente con cui, inevitabilmente, stride “ e le ruote nere avevano fili di paglia/ incastrati, portati da chissà dove,/ – da una terra tenera, da un tempo che/ questa lunga strada esaurisce e cancella.”
Questo confronto, o meglio, questa sovrapposizione, è la scena poetica in cui si diramano le ombre, cifra della maturità di questa raccolta, che increspano e perturbano l’apparente quiete della rievocazione.
Segato non può esorcizzare il presente abbandonandosi a una malinconia confortante e testimonia più di altri(Amadei) lo straniamento dell’individuo. Il poeta è costretto, dunque, a confrontarsi (e confrontare) con quel suo passato particolare annidato negli odori, nel vento(ma non solo) inscritto un presente in cui talvolta fatica a riconoscersi ed attecchire.
Si addensa così un dialogo narrativo da cui emerge un circolo tematico, sentimentale, esistenziale[1] che si frantuma e rinnova costantemente nel variare di flash di quotidiana visività, i quali rappresentano un paesaggio interiore ed esteriore, presentando così, in questo libro, la sarchiatura del territorio poetico fatta dal tempo.
Questo immaginario diventa, tra le altre cose, sottile scena di una certa miseria umana, la cui denuncia rimane sempre dolorosamente soffusa, ma non per questo meno penetrante “ e saluti la gente che non c’è, e ti fermi un momento/ a parlarci, a chiedere- come va?/ Basta questo pasto di sempre,/ quello che cambia è l’ordine/ delle sedie attorno al tavolo e accorgersi/ che si ha sempre meno fame.
La suggestione di Montale soccorre, ora, piuttosto bene il nostro discorso. Quando Segato effonde le sue tonalità più sinistre, rivela quel particolare reliquiario ai bordi dei quali egli intona la requie delle relazioni umane. Un canto anche testimone del tempo, del suo trascorrere e dei suoi effetti, delle varie declinazioni che esso può imprimere alle cose: “ Ogni spostamento è tragico/ ogni trasloco cancella, depone/ in altre parti, in scatole grosse/ o piccole, le etichette poi si mischiano,/ i libri in cucina, i vasi negli armadi/ vicino alle giacche sulle grucce,/ con le palline di naftalina / nelle tasche assieme a piccoli/ pezzi di carta con scritture pallide/ di come eravamo.” Una delle quali è raccontata bene ne la poesia Le campane :“non puoi parlare mentre mastichi/ ma lo senti il suono delle campane,/ le campane che suonano anche per il fiume/ anche per i pesci che c’erano in quel fiume,/ anche per i vestiti malamente piegati/ lasciati sulla riva, incastrata fra i rovi,/ come fossero bandiere le canottiere bianche/ le sottane rosse, le scarpe, i sandali,/ suona la campana mentre mangi, la tua bocca/ non può dire, lo fa la campana, ci spiega la storia/ la storia che andavamo al fiume a bagnarci e/ vedevamo i pesci nell’acqua come specchio, ora/è la campana lo specchio, ci vediamo dentro/ il suo bronzo, se facciamo attenzione, ci vediamo,/ vediamo tutta la città e il fiume/ e dentro il cucchiaio li vediamo/ e l’inverno senza gelo vediamo/ e vediamo il gelo dell’inverno/ senza la neve. “. Segato ci sa mostrare come il tempo pervenga anche a un graduale erosione della memoria “ il tempo fa le sue cose, toglie la vanga,/ arrotonda i sassi, smussa il senso d’abbandono,/ scolora le foto e inganna la memoria e le rondini/ volano sempre più in alto della domenica” finchè n non giunge la fine “ la tovaglia ben piegata/ senza crespe né onde/ distendila/ dritta come dovrebbe essere/ una vita che passa e poi,/ arrivata al bordo, finisce.”
La dimensione temporale  viene accettato e rappresentato nella sua inevitabilità anche dolorosa e gli spettri, anche essi familiari, che traspaiono nelle crepe a testimonianza di un passato morto, ma da salvaguardare, su cui incombe la vera minaccia annichilente “ quel profumo di terra buona che, ricordi,/ ha la terra quando piove un poco,/ quando si alza quel vapore che arriva/ alle caviglie e ti sembra di camminare/ nel nulla, nel niente dove passano e vivono/ gli spettri, le persone che non ci sono/ le donne che sono andate e anche i ragazzi,/ andati in una parte sconosciuta del cosmo,/ e questi uomini la stanno chiudendo, questa crepa,/ e ridono quando lo fanno, e la chiuderanno”. Questo Annichilimento è rappresentato anche in una innaturale e meccanica routine cui l’individuo è sottoposto, vittima della sua imperatività che lo strumentalizza, contribuendo, assieme alle altre forze, non solo a straniare l’individuo da se stesso, ma anche dagli altri: “ non sapresti riconoscerti se ti vedessi,/ adesso, in piedi, un poco curvo, in quell’angolo/ sotto quella finestra.”
Segato tuttavia non ci fornisce una pellicola che rispecchi la mobilità di una geografia transpermanente, ma da essa ne prende le distanze(Accomodati vicino a me) per poterla fermare, frammentarla in flash i quali vogliono essere e sono familiari, consueti e che caratterizzano la sua poesia, la cui cifra visiva, “immobilizzata” dal racconto, non è disgregata dal ritmo costantemente inarcato.
La consuetudine dei frantumi è, dunque, quella sarchiatura a tratti comune del tempo in cui il poeta, in ultima analisi, si riconosce e identifica ritrovando e riscoprendo costantemente la sua radice, anche se a volte dolorosamente.

La consuetudine dei frantumi Fara Editore 2016
Anche disponibile in E-book

Fulvio Segato è nato nel 1959 a Trieste, città dove lavora in una scuola pubblica. Negli anni ottanta ha pubblicato due raccolte Io, Narciso e I Canti della Fenice. Nel 2013 pubblica Vocativi in eco (Edizioni Helicon) primo premio Casentino con nota di Silvio Ramat e La consuetudine dei frantumi (Fara Editore) primo premio Faraexecelsior. In narrativa nel 2014 Cadono i cormorani e altri racconti viene  premiato e pubblicato con l’Editrice Progetto Cultura. E’ stato finalista e vincitore in vari concorsi letterari nazionali: Gozzano a Terzo d’Alessandria, Città di Massa, Giuseppe Malattia della vallata a Barcis, Laurentum a Roma, Casentino a Poppi, Borgognoni a Pistoia e più volte il Leone di Muggia. Pubblica Sta mia difesa (Samuele Editore 2016). Suoi testi in dialetto triestino sono stati pubblicati nel numero 18 della rivista di cultura poetica Smerilliana di Enrico d’Angelo. E’ presente e recensito nell’Almanacco di poesia della Puntoacapo editrice. Alcuni suoi testi sono pubblicati sulla rivista Poeti Contemporanei diretta da Elio Pecora. E’ presente in riviste letterarie su alcuni siti web.

Luca Cenacchi è nato a Forlì nel 1990. Nel 2011 la poesia Laocoonte – ovvero di se stesso è stata selezionata per essere pubblicata nell’antologia del Premio letterario Ottavio Nipoti – Ferrera Erbognone. Ha contribuito a fondare e sviluppare il forum letterario i Gladiatori della penna. I suoi testi sono stati presentati nella serata Arcadie Invisibili all’interno del progetto La Bottega della Parola organizzata dalla Associazione culturale Poliedrica di Forlì. Nel 2016 il blog letterario Kerberos ha scritto un articolo critico di alcune sue poesie inedite Valore-contenuto e valore-bellezza: il senso del sacro attraverso la trasfigurazione dell’immagine e la neutralità del messaggio. Nel mese di Aprile dello stesso anno tre sue poesie(La Perla , Anoressica e Francesca) sono state selezionate per essere inserite nella antologia La mia sfida al male pubblicata a seguito della terza edizione del concorso letterario Come Farfalle Diventeremo Immensità , in memoria di Katia Zattoni e Guido Passini, indetto da Fara Editore. Aspirante critico letterario è ansioso di contribuire al dibattito sulla poesia contemporanea attraverso la rubrica critica Gli Specchi Critici realizzata in collaborazione con il blog Kerberosbookstore,  Fara Poesia e ora anche L’Arcolaio. Nel 2016 è stato giudice presso il concorso Faraexcelsoir 2016. Ha partecipato alla rassegna poetica di Pianetto “Poeti alla finestra” presentando una serie di poesie inedite. Per ulteriori informazioni sul progetto: glispecchicritici@gmail.com, facebook, twitter

 

[1] L’odore, Il corpo, i luoghi, il tempo – Intervista di Giovanni Fierro

ESCE OGGI “SOLCHI – La parabola si compie nei risvegli) della siciliana MARIA ALLO.COLLANA FUORICOLLANA, DIRETTA DA FABIO MICHIELI.

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solchi

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Un nuovo poeta entra a far parte del catalogo de L’Arcolaio; si tratta di Maria Allo, autrice nata in provincia di Messina ma residente a Riposto, presso Catania. La raccolta che ora propone al suo pubblico s’intitola “Solchi – La parabola si compie nei risvegli” e porta in sé la bella prefazione della nostra cara Anna Maria Curci. Maria è stata inserita nella collana diretta da Fabio Michieli: “FuoriCollana”

Benvenuta tra noi, Maria!

L’inizio della prefazione di Anna Maria Curci:

Allegoria della tensione: Solchi. La parabola si compie nei risvegli di Maria Allo

 

«La parabola si compie nei risvegli»: questa frase, tratta da un verso e che costituisce la seconda parte del titolo della raccolta di Maria Allo, consolida, man mano che si scorrono i componimenti qui rag­gruppati, il suo ruolo di punto di riferimento costante, lanterna alla lettura e, insieme, di mistero che non può e non vuole essere ridotto a una formula di spiegazione, per quanto acuta, per quanto illumi­nante, per quanto prossima allo stato delle cose la spiegazione possa essere. Le manifestazioni del ter­mine parabola si articolano e si mescolano: narrazione esemplare e allegoria, curva e andamento ellittico si gettano, non di rado precipitano, tendono al compimento in quei risvegli anch’essi polisemantici. Si destano i sensi, si desta la coscienza, la rivelazione si cela e si mostra, risale in superficie, colta in un contrasto, in una effusione, in una esplosione di colore e materia.

La tensione è narrata, afferrata, attraversata; è una tensione che alimenta lo scorrere del tempo e che nu­tre la condizione umana, che scuote la natura, con tremende deformazioni o improvvise trasfigurazioni all’occhio attonito delle creature. Vale la pena soffermarsi, dunque, su ciascuno di questi elementi che innervano la voce poetica di Maria Allo.

(…)

 

***

Alcuni testi

 

“I Rosi” era mio padre

Questo di lui ricordo

Si ergeva solenne

[Attenta figghitta

l’acqua d’aranciara non si bivi] gridava

Durante l’inverno il temporale

Ingrossava quei torrenti

L’acqua scrosciava giù dai calanchi

E quando il grande pino fu abbattuto

Rimasi a guardare

La bocca aperta e il naso per aria

Senza fiatare.

Aveva mani gigantesche il grande pino

Nodi di vene gonfie e l’occhio buono

Come un vecchio frate.

[Rimani fin quando mi sveglierò]

Accade d’inverno

Quando dietro le vibrazioni del vento

Sento con la voce burbera e calda

La mano di mio nonno

Bagliori bianchi attraversano il cielo

Gelide le trasparenze dell’etna si perdono

In lontananza

Ma non si vede il mare

O forse semplicemente

La parte più profonda del mare

 

***

Fai di te un segno senza ambiguità

Scandisci il tempo che ti resta

Come riparo e lascia scivolare le radici dissonanti

Del tuo alfabeto

A sfiorarti senza nome è uno stralcio errante

Un fruscio di acqua nella brezza

Ma non c’è sintassi che traduca

La notte ha il sapore di more silvestri

Nel colore di un pensiero che muore

Così metto a fuoco il silenzio bianco

Per lasciarti essere alba furiosa

Le parole sono destinate a finire

Con il suono della voce

La luce e il buio delle nostre esistenze

Dovremmo mentre è ancora giorno

Strappare dai nostri volti trasparenti

La maschera dell’ombra che s’allunga

Su queste carte dai versi mai finiti

Dovremmo anche cadendo

Distillare l’essenza

Della luce dentro il cerchio

 

 ***


È questo vuoto a farsi corona

Filo di sole albero muto

Imbrigliato nel solco di un giorno

Chiami luce lo schianto di nebbia

Ma a crollare è la terra senza fondamenta

Dimmi può la parola antica e nuova

Darci consistenza

I nostri giorni adesso dentro il tempo

Fanno di noi deserto e vuoto

[Trincea di anime ferite]

Abisso di luce dentro un abbandono

Trasversalmente

Con la coda dell’occhio

Futuro passato presente

In un altro mutamento

 

***

Franta stamane l’alba [come grani di melograno]

Trabocca da inverno smemorato

Ogni scheggia del giorno è nebbia stinta

Ogni eco del cielo è solitudine di mare

Il senso di ogni andare

Sarà forse questo silenzio solidale

Allarga le braccia

Fino a sciogliere in canto

Il frastuono assordante

Delle nostre esistenze

“Basta il silenzio a farne un altro mondo

 

***

Un altra fetta di prefazione

 

Quando concede a se stessa la prima persona singolare, la voce poetica chiama a sé altre voci, eviden­ziate dal carattere corsivo; sono la voce, in dialetto siciliano, del padre, innanzitutto: «[Attenta figghitta  / l’acqua d’aranciara non si bivi]», la voce dell’altra metà dell’io, quella dubbiosa, oppure risoluta nel rivolgere un invito: «[Tu associa i miei scritti alla tua pace]» o, ancora, messaggera di lapidarie constatazioni: «A un tratto crolla la terra senza fondamenta».

Accanto al contrappunto, alle interlocuzioni, sono anche le variazioni stilistiche ad animare la scrittura e, di conseguenza, la lettura. L’attacco del terzo componimento della raccolta, che richiama i salmi bi­blici («Sembra vincere l’odio in questo mondo. / Vedete con quanta ferocia e astuzia / Esulta nel disse­tare la sua sete») si affianca pertanto, in uno scorrere mai interrotto da segni di interpunzione, al tono evocativo («Questo di lui ricordo»), a quello visionario («Un cerchio di Tempo piange nudo su un sas­so») e alla vera e propria invocazione («Così ti invoco / Ti invoco e ti chiamo anima»), mantenendo sempre viva la tensione anche nel modulare canti e asserzioni.

È l’alba, rifugio e promessa di rivelazione, che può essere «franta», non la tensione, che può essere atte­nuata, ma resta irriducibile. Irriducibile resta pure il mistero. Su questo principio, come affermato in apertura, non è dato esprimere dubbi. Solo l’ossimoro di un canto sgorgato dal tacere condiviso lascia scorgere un barlume di speranza, attraverso un futuro che, più che previsione, è ipotesi anelata: «Il sen­so di ogni andare / Sarà forse questo silenzio solidale / Allarga le braccia / Fino a sciogliere in canto / Il frastuono assordante / Delle nostre esistenze».

 

 

Anna Maria Curci

 

 

 

CLERY CELESTE RECENSISCE “LA SAGGEZZA DEI CORPI” DI MARTINA CAMPI

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Recensione a “La saggezza dei corpi” di Martina Campi, L’arcolaio editore 2015

 

Aprire il libro di Martina è esattamente come aprire una porta: si afferra la maniglia, si fa un bel respiro, la porta è quella di un reparto in ospedale, allora si fanno due respiri pieni, si guarda attraverso la finestrella di vetro, si spinge forte. Lo scatto delle imposte e subito dopo la luce dei corridoi, i colori pastello e l’odore di disinfettante. Il libro è scandito in sette giorni, perché sette sono i giorni di un ricovero “standard”, perché nel numero sette tutti loro oltre il vetro, i medici e i parenti affannati, credono di trovare l’origine, il nucleo del disequilibrio. Lo fanno, quotidianamente, con una trivellazione sottile di aghi e bianco ovunque, dalle pareti alle lenzuola. Martina ce lo dice, anzi ce lo ripete spesso che già al giorno II° “il cuore è bianco, il cervello/ bianco, bianco il soffitto e nelle mani,/ tra le gambe, sui piedi/ bianco che dilaga bianco”. Il ritmo dei versi di Martina segue a livello millimetrico tutto l’universo sensoriale del corpo nel suo viaggio, dal primo giorno in cui la versificazione è stretta, acuti i versi e i respiri brevi fino al secondo giorno dove già la parola è apertura, dove da una dimensione in cui corpo e mente sono affanno in mezzo al vortice del mondo, si passa alla regola  del finito e del compreso, dove tutto è contenuto nella certezza di mura bianche, le stanze e i corridoi, lo stesso numero di lenzuola e posate per tutti. Con la sicurezza del luogo ci si può permettere qualche lusso come “ho smarrito gli occhi stamattina, sai/ e forse sono rimasti per disattenzione/ tra le grinze del lenzuolo ed il bianco/ perché c’era molto molto caldo, stamattina”. Martina attraverso i suoi testi ci fa riappropriare anche del nostro corpo, improvvisamente ci chiediamo dove ci siano rimasti gli occhi, se li portiamo ancora interi negli scavi cranici, se anche a noi capita che “un giorno qui e ci siamo/ già stranieri/ alle ore nostre appese/ sfaldate calde perse”. Il libro di Martina è un libro di guarigione, sua e nostra, dove possiamo davvero compiere un passo dopo l’altro nei suoi versi, dove “le grida notturne sono voci/ nella paura, sgraziate, nomi/ invocati nomi dalle certezze aguzze/ del passato, giorni dell’amore che sostiene”. Esiste però un dissidio, una divisione di forze che si manifesta dopo che l’effetto della novità di un luogo nuovo si è tradotto già in abitudine, bastano tre giorni e compare così la nostalgia delle emozioni certe, delle persone care “come le cose, o le case, cui sappiamo/  essere appartenuti (e tutte le foglie insieme)”. I versi cominciano a scindersi tra un dentro bianco “con l’aria condizionata che s’impone” e un fuori “fuori è fresco, ora/ la lepre s’accuccia tra i vasi”, ed è questa tensione che smuove la vita e la fa fluire nel sangue, sotto le vestaglie uguali. Perché infatti “quando parliamo/ (o le sento sussurrare)/ so che siamo ancora vive/ che non ci siamo mosse da qui”, e da una fase di riconoscimento del proprio corpo scomposto in singoli arti si arriva al riconoscimento tra esseri umani, vivi e pulsanti oltre al bianco che invade tutto. È la potenza della comunità, riconoscersi simili, mentre chi ci fa visita diviene altro da noi perché “le scarpe li tradiscono/ da sotto, mentre parlano tra loro”. Mentre i giorni passano tra queste pareti immobili il nucleo magmatico che sentiamo dentro, potete chiamarlo anima o io profondo, chiede la salvezza, la resistenza per la vita e la luce: “tracciare scie di lenzuola/ sul pavimento/ come zattere che (ci) salvano/ il mattino”. Ogni giorno è ritrovarsi gli organi al loro posto, chiedere alla compagna di stanza di toccarci per sapere se siamo vivi davvero, se ci siamo salvati, se “c’è anche il perdono, vero che c’è?”, perché non ci si può fermare quando “qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina” e non senti il confine; allora ridere è la porta per l’uscita, “scampate di brutto alle glaciazioni” tutto è possibile, anche “è normale avere paura”. Siamo alla fine di questo libro e di questo percorso, ci si prepara all’apertura delle porte, all’aria nuova e “in certi momenti si pensa/ solo al ritorno e quello che c’è/ sono vacillamenti/ sono muscoli che si allenano al bene”. Ma aprire la porta dell’uscita è anche chiudere dietro le persone e le cose, “e so che dovrò andare anch’io/ per diverse stanze, corridoi”. Poi di nuovo la spinta, questa volta al contrario, si torna alla luce ”solo/la luce/ gli alberi coi rami” e ancora “troppo il sole/ in una volta” .

Leggere il libro di Martina è stato, per me poi che lavoro in ospedale, come spostarmi dall’altra parte del vetro, dalla parte di chi non sa quali sono le prassi, quali gli aghi da scegliere, quanti i pasti condivisi. Scivolare nell’argine umano, senza l’obbligo del muro e del distacco, dove tutto si mischia.

 

 

Clery Celeste