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GIAMPAOLO DE PIETRO RECENSISCE “DISTRATTI VINCEREMO” DI PAULO LEMINSKI. COLLANA L’ALTRA LINGUA DIRETTA DA LORENZO MARI.

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GIAMPAOLO DE PIETRO SU INNI IN VANI

UNA RIFLESSIONE SUL LIBRO DI PAULO LEMINSKI

DISTRATTI VINCEREMO

Questa pagina, ad esempio,

(…) nasce per essere (…)

forse Andromeda, Antartide,

Himalaia, sillaba offesa,

(…) questa pagina, un giorno,

dovrà essere tradotta

in simbolo (…)

Non è così che è la vita?

Ci si deve augurare sempre che una poesia arrivi così. Magari in traduzione, una traduzione così inevitabile, dal poeta brasiliano Paulo Leminski, per mano e lavoro di Massimiliano Damaggio e edizione-ospitalità dall’editrice L’arcolaio di Gianfranco Fabbri.

(…) un testo testo cieco / un’eco anti anti anti antico.

Dentro questo libro dal perfetto colore di copertina verde scuro si trova inevitabilmente anche un metapoetico paesaggio che “descrive” i tratti stessi dell’autore che vive lì tra le parole e le frasi, vi si rivolge e dibatte con esse, nei suoi Scontrarii sì geniali – traversando il poetare di ogni verbo che incontri (ma mai per puro caso, se non il caso stesso che non trae conclusioni se non: Fare poesia, mi sa questo e basta).

Tutto ciò che passeggeramente dura/ (…)

(…) evaporare quando più ci pare (…)

E parentele. Tra insetti e lettere dell’alfabeto.

Ed (…) Ecco la voce, il dio, il verbo,

ecco la luce che s’è accesa in casa

e straripa dalla sala.

Vanno annoverate epifanie, sottili presagi nel tempo stranito (ordinario) e entro lo spazio così respirato (no, non ispirato per partito preso, se non per la natura stessa dell’essere presenti e dunque ispirati da ogni fenomeno intorno) di un Ci vediamo rivolto alla “materia bruta”, fatta di “legno, massa e muscolo, (…) carta, carbone e nube (…) anche voi avete nostalgia (…), voglia di tornare a casa? (…) anche tu, mia cara materia, / ricordi quand’eravamo soltanto un’idea?” (…).

C’è in Leminski (nell’impressione di chi lo legge con tanta passione e nuovo stupore) il surreale sentire/i verbi di Éluard – ma questo non è un paragone, soltanto e ancora una parentela che chi scrive adesso trae sì a ispirazione – e vi imparenterei volentieri Gertrude Stein e altri e altre poeti/e lavoratori/lavoratrici dei livelli multipli del verbo lirico e ondulato di vita/parola de-scritta quasi fin troppo vissuta (?), a tratti intonata tra i denti e le scarpe, con eleganza e un’innata corazza cristallina che fa pure la voce roca di stanca (e vibra silenzio). Il dolore che passa e sconfinando confina tra la pagina e la “fedeltà” inattesa di stare dentro una scrittura, un lavoro serio (un cammino, con tutti i salti e le mancanze, le sorprese e le scanzonature) una poesia così dichiarativa e insieme segreta, da fare venire voglia di intraprendere una strada verso la scoperta della lingua stessa che la ha animata. Con tutto il suo mistero.

GIAMPAOLO DE PIETRO

ISABELLA BIGNOZZI RECENSISCE SULLA RIVISTA ASTERO ROSSO IL LIBRO DI CARLOTTA CICCI: SUL BANCO DEI PESCI. PREFAZIONE DI ALBERTO BERTONI.

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Sul banco dei pesci”, di Carlotta Cicci

L’arcolaio 2022

Collana “I codici del ‘900”, diretta da Gian Franco Fabbri

Prefazione di Alberto Bertoni

Esiste in ogni anima uno scrigno di cose non dette, un universo percettivo ed esistenziale taciuto, per senso di cautela e opportunità, che sottende ciò che mostriamo. Alla poesia il merito, talvolta, di far emergere tali fondali, nel velo della metafora, dell’enigma non interamente disvelato. Carlotta Cicci nella sua opera di esordio Sul banco dei pesci (L’arcolaio 2022, prefazione di Alberto Bertoni) con coraggio scandaglia questo greto scuro, e lo fa con parole che, pur vibrando in superficie di sonorità e sfumature ritmiche, di inquadrature icastiche, di pregiate intensità, rimangono ben radicate a un nucleo di smarrito, mirabile spavento: “Il seme del disprezzo/ dormiva sul giaciglio / accanto alla mia sagoma / vestita vergine a morte / chiusa nei gomiti / senza dio // perseguitata / esposta / interrotta // siete tremendi / voi angeli custodi / una colorata menzogna / nei giorni pietosi / un puro esilio di granito / con voce bassa e dolce”.

Al di là delle accortezze metriche e lessicali, dell’insolenza sintattica del verso, il lavoro di Cicci è encomiabilmente coraggioso, nudo e segnato, irrevocabile. In un’epoca in cui la poesia si fa spesso cartello esausto, a eco di affermazioni allineate nello stantio, nel mimato impegno politico o sociale, teso a scongiurare il vuoto e la noia, o a coltivare proficui opportunismi, c’è ancora, talvolta, un poeta che si gioca tutto, e scarnifica pubblicamente le proprie ossa per mostrarne il bianco: “io sono già accaduta / con tutti i miei sensi / sempre inattesi / dire è una disciplina violenta / mentre il violino suona”.

Sul banco dei pesci è un diario nero e barocco, crudo, esiziale. Un salmo di solitudine, spoglio di approdi, di redenzioni e certezze, un cammino scalzo e sanguinante sulla roccia del vivere.

Cicci, dismesso il corpo, l’identità rigida del giorno, messo da parte ogni tepore formale e concettuale, è qui anima che vacilla in scarna perdutezza, e che di continuo si ritrova in lealtà scura, di lupa fragile, nel bisogno rinnegato, di fronte al proprio impietoso riflesso. Una poesia, quella di Cicci, che si fa carico del rivelare fino in fondo: la parola sorge come un’alba di basalto, nel chiarore muto e immobile delle cose; la terra del dire qui è affrancata da paura e pudore, e conduce al verso un vissuto intero: “I pensieri inarcati / gli alfieri sacrificati / le scuse stanche / le comode menzogne / i sentieri disperati / gli incubi intrecciati / i destini avvelenati / i ciarlatani raffinati […] è tutto impigliato / nell’opera del mio scarto / dove sono primizia accecata / col petto in fiamme / in questa ombra / allagata dal tutto / che geme e ride / tra i rumori fuori”; uno sconsiderato rivelarsi, che si mantiene “bestia cauta” solo nelle intenzioni, ma poi schiude e si dona, fino a farsi annuncio universale di quel tragico splendore che bagna l’esistenza di ogni creatura che possa ancora dirsi viva.

ISABELLA BIGNOZZI

*

Benedico la sua sorte

mentre il fiume scorre

e sale luna nuova

Roma verticale e inamovibile

mi nomina Madre

un accento

è nata

non c’è altro da sapere

come un cigolio

mentre il sole feriva

gli uccelli tardivi

a me fraterni

fremente

dilaniata

felice

quanta umanità

ho messo al mondo

*

È una sera gelida

cammino sui bordi

di una città sorda

che non ha mai visto

un uomo vergine

tra pilastri di ferro

e plastica ovunque

nel tempo

di una luna prudente

come un insetto sensuale

richiudo il sigillo

io non credo

*

Perdo la fame

ho denti immobili

animali ai piedi mi parlano

voglio coprire gli occhi agli angeli

assolvermi dalla mia pena mortale

svegliarmi in un tempo indifferente

sarà la solitudine

nella casa dei ciechi

morirò con il mio amore puro

conficcato nella lingua

seduta e incorrotta

nel manicomio degli idioti

*

Cammino in una gabbia

che non attende nulla

un enorme ventre

senza acqua

senza bianco

il ferro mi annienta

non c’è cerimonia

non c’è

potere

non c’è beatitudine

non ci sono i ladri

e i giovani

nessun segreto

sembra il letargo dei custodi

è tardi anche per i mostri

*

Aspetto una lingua

in questa larga tomba

il ragno è sordo

ringhia un’aria immutabile

veglia la mia inquietudine

blatera come un’anziana

senza coscienza

inopportuna

mi sono approssimata

cercando indizi di luce

una lucciola

una lucciola soltanto

*

Sono la temperatura dell’alba

la zampata

il lago nero

il gemito nettissimo

della tenerezza rubata

urto senza pudore

tra le speranze e gli specchi

rimango miele della mia guerra

parallele le sorti perdurano

condannate alla ruggine

nella mia imprudenza

nei miei occhi indecenti

implacabile il tempo si spegne

da qualche parte è caduto il mio viso

scomparso tra i percorsi delle mani

forse sul banco dei pesci

tra qualcosa che ricordi l’argento

*

Le voci registrate

il suono delle campane

la domenica nei labirinti in fiore

in quei giardini spalancati

tiravo su le pieghe dei vestiti

correvo sulle punte

allontanandomi dal tuo grido

*

le ferite vivono di solitudine

da altezze straordinarie

Mi viene a trovare

vuole allegria

spinge sui margini

insidia la distanza

ho l’acqua nei polmoni

mi implorano di respirare

rimangono soltanto le biglie

sul letto di dolore

li deluderò sempre

pentirsi non basta

perdonare non basta

resta la luce che trema

la mia pelle in silenzio

un libero sparire

*

Uccelli morti

resuscitano di continuo

dietro le mie spalle

cadono le mani

tra le cose chiare

e le cose scure

uno scontro di grazia

guardo il verde

cosi non affondo

in un odore

che protegge

che ricorda

tutte le cose

*

Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.

Tutte le immagini sono di Carlotta Cicci