Ci si deve augurare sempre che una poesia arrivi così. Magari in traduzione, una traduzione così inevitabile, dal poeta brasiliano Paulo Leminski, per mano e lavoro di Massimiliano Damaggio e edizione-ospitalità dall’editrice L’arcolaio di Gianfranco Fabbri.
(…) un testo testo cieco / un’eco anti anti anti antico.
Dentro questo libro dal perfetto colore di copertina verde scuro si trova inevitabilmente anche un metapoetico paesaggio che “descrive” i tratti stessi dell’autore che vive lì tra le parole e le frasi, vi si rivolge e dibatte con esse, nei suoi Scontrarii sì geniali – traversando il poetare di ogni verbo che incontri (ma mai per puro caso, se non il caso stesso che non trae conclusioni se non: Fare poesia, mi sa questo e basta).
Tutto ciò che passeggeramente dura/ (…)
(…) evaporare quando più ci pare (…)
E parentele. Tra insetti e lettere dell’alfabeto.
Ed (…) Ecco la voce, il dio, il verbo,
ecco la luce che s’è accesa in casa
e straripa dalla sala.
Vanno annoverate epifanie, sottili presagi nel tempo stranito (ordinario) e entro lo spazio così respirato (no, non ispirato per partito preso, se non per la natura stessa dell’essere presenti e dunque ispirati da ogni fenomeno intorno) di un Ci vediamo rivolto alla “materia bruta”, fatta di “legno, massa e muscolo, (…) carta, carbone e nube (…) anche voi avete nostalgia (…), voglia di tornare a casa? (…) anche tu, mia cara materia, / ricordi quand’eravamo soltanto un’idea?” (…).
C’è in Leminski (nell’impressione di chi lo legge con tanta passione e nuovo stupore) il surreale sentire/i verbi di Éluard – ma questo non è un paragone, soltanto e ancora una parentela che chi scrive adesso trae sì a ispirazione – e vi imparenterei volentieri Gertrude Stein e altri e altre poeti/e lavoratori/lavoratrici dei livelli multipli del verbo lirico e ondulato di vita/parola de-scritta quasi fin troppo vissuta (?), a tratti intonata tra i denti e le scarpe, con eleganza e un’innata corazza cristallina che fa pure la voce roca di stanca (e vibra silenzio). Il dolore che passa e sconfinando confina tra la pagina e la “fedeltà” inattesa di stare dentro una scrittura, un lavoro serio (un cammino, con tutti i salti e le mancanze, le sorprese e le scanzonature) una poesia così dichiarativa e insieme segreta, da fare venire voglia di intraprendere una strada verso la scoperta della lingua stessa che la ha animata. Con tutto il suo mistero.
Collana “I codici del ‘900”, diretta da Gian Franco Fabbri
Prefazione di Alberto Bertoni
Esiste in ogni anima uno scrigno di cose non dette, un universo percettivo ed esistenziale taciuto, per senso di cautela e opportunità, che sottende ciò che mostriamo. Alla poesia il merito, talvolta, di far emergere tali fondali, nel velo della metafora, dell’enigma non interamente disvelato. Carlotta Cicci nella sua opera di esordio Sul banco dei pesci(L’arcolaio 2022, prefazione di Alberto Bertoni) con coraggio scandaglia questo greto scuro, e lo fa con parole che, pur vibrando in superficie di sonorità e sfumature ritmiche, di inquadrature icastiche, di pregiate intensità, rimangono ben radicate a un nucleo di smarrito, mirabile spavento: “Il seme del disprezzo/ dormiva sul giaciglio / accanto alla mia sagoma / vestita vergine a morte / chiusa nei gomiti / senza dio // perseguitata / esposta / interrotta // siete tremendi / voi angeli custodi / una colorata menzogna / nei giorni pietosi / un puro esilio di granito / con voce bassa e dolce”.
Al di là delle accortezze metriche e lessicali, dell’insolenza sintattica del verso, il lavoro di Cicci è encomiabilmente coraggioso, nudo e segnato, irrevocabile. In un’epoca in cui la poesia si fa spesso cartello esausto, a eco di affermazioni allineate nello stantio, nel mimato impegno politico o sociale, teso a scongiurare il vuoto e la noia, o a coltivare proficui opportunismi, c’è ancora, talvolta, un poeta che si gioca tutto, e scarnifica pubblicamente le proprie ossa per mostrarne il bianco: “io sono già accaduta / con tutti i miei sensi / sempre inattesi / dire è una disciplina violenta / mentre il violino suona”.
Sul banco dei pesci è un diario nero e barocco, crudo, esiziale. Un salmo di solitudine, spoglio di approdi, di redenzioni e certezze, un cammino scalzo e sanguinante sulla roccia del vivere.
Cicci, dismesso il corpo, l’identità rigida del giorno, messo da parte ogni tepore formale e concettuale, è qui anima che vacilla in scarna perdutezza, e che di continuo si ritrova in lealtà scura, di lupa fragile, nel bisogno rinnegato, di fronte al proprio impietoso riflesso. Una poesia, quella di Cicci, che si fa carico del rivelare fino in fondo: la parola sorge come un’alba di basalto, nel chiarore muto e immobile delle cose; la terra del dire qui è affrancata da paura e pudore, e conduce al verso un vissuto intero: “I pensieri inarcati / gli alfieri sacrificati / le scuse stanche / le comode menzogne / i sentieri disperati / gli incubi intrecciati / i destini avvelenati / i ciarlatani raffinati […] è tutto impigliato / nell’opera del mio scarto / dove sono primizia accecata / col petto in fiamme / in questa ombra / allagata dal tutto / che geme e ride / tra i rumori fuori”; uno sconsiderato rivelarsi, che si mantiene “bestia cauta” solo nelle intenzioni, ma poi schiude e si dona, fino a farsi annuncio universale di quel tragico splendore che bagna l’esistenza di ogni creatura che possa ancora dirsi viva.
ISABELLA BIGNOZZI
*
Benedico la sua sorte
mentre il fiume scorre
e sale luna nuova
Roma verticale e inamovibile
mi nomina Madre
un accento
è nata
non c’è altro da sapere
come un cigolio
mentre il sole feriva
gli uccelli tardivi
a me fraterni
fremente
dilaniata
felice
quanta umanità
ho messo al mondo
*
È una sera gelida
cammino sui bordi
di una città sorda
che non ha mai visto
un uomo vergine
tra pilastri di ferro
e plastica ovunque
nel tempo
di una luna prudente
come un insetto sensuale
richiudo il sigillo
io non credo
*
Perdo la fame
ho denti immobili
animali ai piedi mi parlano
voglio coprire gli occhi agli angeli
assolvermi dalla mia pena mortale
svegliarmi in un tempo indifferente
sarà la solitudine
nella casa dei ciechi
morirò con il mio amore puro
conficcato nella lingua
seduta e incorrotta
nel manicomio degli idioti
*
Cammino in una gabbia
che non attende nulla
un enorme ventre
senza acqua
senza bianco
il ferro mi annienta
non c’è cerimonia
non c’è
potere
non c’è beatitudine
non ci sono i ladri
e i giovani
nessun segreto
sembra il letargo dei custodi
è tardi anche per i mostri
*
Aspetto una lingua
in questa larga tomba
il ragno è sordo
ringhia un’aria immutabile
veglia la mia inquietudine
blatera come un’anziana
senza coscienza
inopportuna
mi sono approssimata
cercando indizi di luce
una lucciola
una lucciola soltanto
*
Sono la temperatura dell’alba
la zampata
il lago nero
il gemito nettissimo
della tenerezza rubata
urto senza pudore
tra le speranze e gli specchi
rimango miele della mia guerra
parallele le sorti perdurano
condannate alla ruggine
nella mia imprudenza
nei miei occhi indecenti
implacabile il tempo si spegne
da qualche parte è caduto il mio viso
scomparso tra i percorsi delle mani
forse sul banco dei pesci
tra qualcosa che ricordi l’argento
*
Le voci registrate
il suono delle campane
la domenica nei labirinti in fiore
in quei giardini spalancati
tiravo su le pieghe dei vestiti
correvo sulle punte
allontanandomi dal tuo grido
*
le ferite vivono di solitudine
da altezze straordinarie
Mi viene a trovare
vuole allegria
spinge sui margini
insidia la distanza
ho l’acqua nei polmoni
mi implorano di respirare
rimangono soltanto le biglie
sul letto di dolore
li deluderò sempre
pentirsi non basta
perdonare non basta
resta la luce che trema
la mia pelle in silenzio
un libero sparire
*
Uccelli morti
resuscitano di continuo
dietro le mie spalle
cadono le mani
tra le cose chiare
e le cose scure
uno scontro di grazia
guardo il verde
cosi non affondo
in un odore
che protegge
che ricorda
tutte le cose
*
Carlotta Cicci videomaker, illustratrice, fotografa, nata a Roma nel 1984, vive a Bologna. Ha curato e realizzato numerosi progetti video e documentari (www.disforme.net). Sul banco dei pesci è la sua opera prima in poesia.