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LUIGI CANNILLO RECENSISCE “IL MURO DOVE VOLANO GLI UCCELLI” DI MARCO ERCOLANI E LUCETTA FRISA

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Il volo incessante del segno e della parola

“IL MURO DOVE VOLANO GLI UCCELLI”

Di MARCO ERCOLANI E LUCETTA FRISA

Articolo di Luigi Cannillo apparso sul blog Perìgeion

 

I libri scritti a quattro mani hanno il fascino di un’opera complessa – e in parte segreta nelle dinamiche – nel quale si sommano e si moltiplicano sensibilità, percezioni, linguaggi. È il caso di Il muro dove volano gli uccelli di Marco Ercolani e Lucetta Frisa, una raccolta di scritti sull’arte, nella quale vengono percorsi e accostati opere, luogi e tematiche diverse. Lo spunto per il titolo viene offerto dagli uccelli che sfrecciano riflessi sul muro di Palazzo Nicolaci a Noto, davanti agli occhi degli autori, mentre il cielo appare invece vuoto. E, in origine, dalla osservazione di Nicolas De Stäel: «Lo spazio pittorico è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente.» Nella prima parte del libro incontriamo saggi estesi ed articolati, movimenti ampi e ariosi che circolano attorno alle opere, ne restano incantati e vi si insinuano. “Graffiti” riguarda i segni rupestri, che risalgono a più di 32.000 anni fa, nella grotta Chauvet, in Francia. Si ipotizza per la grotta un uso arcaico, sacro, dedicato a un culto iniziatico, oppure l’utilizzo come luogo di reclusione, dove un uomo emarginato e solo sarebbe diventato Artista, “pensando per immagini”. Gli animali incisi o dipinti sulle pareti della grotta, evocando il rispetto e la paura di chi li ha disegnati, rivelano comunque un completo assorbimento dell’artista da parte dell’oggetto ritratto. La stessa visione, lo stesso meccanismo percettivo dell’uomo primitivo si sono poi è trasferiti nei successivi pittori e scrittori, nel “portare alla luce” dell’arte e della letteratura, ancora di più nei materiali preparatori o nei dettagli segreti che nell’opera conclusa.
Il saggio successivo, “Movimenti di penna” considera i primi testi di Henri Michaux, narrazioni in forma di frammento che uniscono in forma visionaria e indefinita aspetti diaristici all’ espressione di formule oracolistiche ed enigmatiche. E’ un universo che prescinde dall’umano, e dietro il quale Michaux si nasconde, utilizzando i testi come “… una sorta di esorcismo per astuzia. La loro ragione d’essere è tenere in scacco le potenze circostanti del mondo ostile”. Con il trascorrere degli anni la scrittura di Michaux diventerà più concitata ed essenziale, in un percorso di reciproci passaggi tra scrittura e pittura, che Roland Barthes definisce “stenografia della mano”, proiettata in una lontananza ignota. In questo percorso sta il passaggio tra i primi due capitoli, dalle incisioni rupestri a un universo liberato dalla necessità delle parole. Entrambi gli universi segnici sono espressione del linguaggio non verbale dei bambini nei loro primi disegni. La vera scrittura di Michaux allora è proprio nel suo universo di segni come proiezione della mano e dell’intero corpo, nelle sue peintures. Così come nella calligrafia cinese – così amata dall’autore – scrittura e pittura sono complementari, e la loro espressione vissuta come pulsione irrefrenabile, vissuta quasi in stato di trance, in un viaggio “compiuto verso gli strati estremi della coscienza”.
Strettamente collegati al precedente sono i capitoli successivi, “Il volto come enigma” e “Domani si comincia sul serio”, su Alberto Giacometti. Punto di partenza è la distinzione tra volto e viso, per la quale il primo è ciò che trapela in modo enigmatico dalla superficie del secondo, un suo doppio perturbante. Nel rapporto tra i due apparenti sinonimi sta la concezione del ritratto nella cultura occidentale, per il quale il volto è inizialmente simbolo spirituale e, invece, dalla fine del ‘600, superficie più mossa e complessa, dalla sequenza degli autoritratti di Rembrandt alla testa di Demone di Vrubel, in un processo di sgretolamento dell’equilibrio idealizzato precedente: i volti negli autoritratti di Artaud e di Schiele, o di Francis Bacon, riflettono piuttosto le devastazioni dell’anima, la sua decadenza, in un viso sempre meno riconoscibile eppure consegnato, proprio attraverso la pittura moderna e contemporanea, alla superficie straziata di un abisso insondabile. Sono frequenti i richiami e i riferimenti intrecciati tra i diversi capitoli, per esempio la citazione di Giacometti che apre il saggio sul viso/volto, e le osservazioni di Michaux, sul rapporto tra sguardo, specchio e carta alla fine del secondo capitolo. In questo intreccio risalta anche, proprio riguardo Giacometti, l’affermazione dello stesso Michaux sulla “deformità” dell’arte: le figure di Giacometti rappresentano l’irrappresentabile, sono piuttosto apparizioni (Bonnefoy) o idoli (Genet). E i suoi volti, crani “animati da sguardi vivi”, in tensione tra vitae morte, rappresentano una tensione verso il volto reale. Ma le figure leggere e stilizzate dello scultore poggiano su un elemento terrestre come stalagmiti residuali, riproponendo il contrasto tra materia e levità. Nel saggio conclusivo della prima sezione, che dà il nome alla raccolta l’accento viene posto sull’esperienza della folgorazione, esemplificata nell’opera di Nicolas de Stäel, suicida nel 1955, che si sente inadeguato all’opera assoluta che vorrebbe realizzare. Allo stesso modo si lascia morire Martin Walser, spinto dal desiderio di venire dimenticato. Il rapporto tra vita e opera si arricchisce anche del desiderio di Gogol e Kafka che le proprie opere vengano bruciate, mentre, al contrario, Artaud lascia volontariamente migliaia di pagine da decifrare. Il rapporto tra atto creativo e scomparsa, più o meno volontaria, rappresentano comunque una forma di eresia rispetto alla vita biologica, che nel caso di de Stäel giunge allo schianto finale, “il volo in cui il corpo si solleva, si innalza […] libero dalla vita e dall’opera.”
Nella seconda parte della raccolta,”Dispercezioni”, viene focalizzata la visione di singole opere, senza intento rappresentativo o oggettivante, bensì attraverso una percezione eccentrica e folgorante, assolutamente libera da convenzioni critiche. Così per per diverse opere, come il Satiro mainomenos di Prassitele, il Crocifisso del Pisano, il Martirio e trasporto del corpo decapitato di San Cristoforo del Mantegna e Ecce homo di Antonello da Messina come nell‘Annunciazione di Lorenzo Lotto o la Sepoltura di Santa Lucia di Caravaggio, come“Ombre del sacro”. Oppure in “Chiaroscuro, maschere” il rapporto tra volto e aria in Van Rijn o la Venezia di Turner, Lo studio di Corot, e ancora paesaggi, autoritratti di grandi Maestri. “Teatri, magie” unisce dipinti e affreschi a fotografie e spettacoli teatrali anche non realizzati, da Giacometti a Kantor. In “Soglie, dissolvenze” entriamo piutosto nel rapporto tra colore e disegno, nei contrasti e nei chiaroscuri, da Van Gogh di Campo di grano con corvi a Monet della Cattedrale di Rouen. Successivamente gli aspetti cromatici sono ripresi in “Intorno al nero” e “Colori e alchimie” da Redon a Licini. Affascinanti le pagine dedicate all’opera come ossessione tra La montaigne Sainte Victoire di Cezanne e Tre studi per una crocifissione di Bacon. La dispercezione trova poi un territorio naturale in “Imminenza, visione”, nel disegno Diluvio di Leonardo o in Sacco e oro di Burri, fino a concludere il percorso di questa immaginaria galleria d’arte con “Specchi, misteri” da Velàzques con Venere e Cupido o un Senza titolo di Tàpies, che riuniscono le suggestioni dei riflessi e dell’assenza, del doppio evocato sia dallo specchio che dal muro. In questa seconda parte emergono i legami sotterranei tra artista e opere, con riferimenti anche storico-biografici, ma soprattutto con un forte interesse per il linguaggio e i suoi molteplici aspetti, quello puramente rappresentativo, quello simbolico, quello anche implicito nel legame dell’autore con l’opera, nell’attrazione e nella sfida nei confronti dell’”artista di sé”.
La preziosità del libro sta proprio nel doppio sguardo sguardo incantato, aperto alla suggestione delle opere, e allo stesso tempo vigile e intuitivo. Il doppio sguardo allora non riguarda bnalmente le due identità che vedono, scrivono la raccolta di saggi e osservazioni, ma un doppio respiro, sul quadro e oltre la cornice, dietro le opere e nelle opere. Che ci rende partecipi di un processo che non è solo descrizione, ma che offre una mappa trasversale negli accostamenti e nelle ricorrenze di tematiche, autori e suggestioni, e nella doppia scansione delle due parti del libro. Alcune delle opere riprodotte, che opportunamente accompagnano i saggi, possono consentire immediatamente un richiamo su quanto detto nella loro evocazione; ma anche là dove l’opera non è riprodotta essa si riconfigura nello sguardo di chi legge. In questo senso il volume si colloca oltre la prosa e la critica d’arte, oltre la poesia dell’immagine, è una sorta di breviario di suggestioni, di opere evocate, ripercorse e come rieseguite dalla parola degli autori e – infine – dei lettori, in una rincorsa tra segno e parola che non riguarda solo lo specifico di molte delle opere di riferimento, ma la stesura stessa del libro.
In questo senso Il muro dove volano gli uccelli non è un comune libro d’arte, è arte esso stesso, nel quale lo sguardo e il segno della scrittura dipingono e scolpiscono essi stessi, dal dittico nel quale sono contenute le due sezioni principali, alle pennellate verbali che vengono stese a presentare e rappresentare le Opere, a volte materia aggregata, altre volte tocchi lievi e volanti, colore steso in grandi campate o affiancato in tonalità accostate. Nelle opere come nel libro che ne parla viene messo in luce una forma di doppio movimento, “tra sonno e coscienza, tra sogno e realtà, tra vertigine e limite”, al centro di ogni atto creativo. E qui segno/scrittura per eccellenza.
Il muro dove volano gli uccelli, di Marco Ercolani e Lucetta Frisa, L’arcolaio, Forlì, 2013
Marco Ercolani nasce a Genova nel 1954. Tra le sue ossessioni il tema dell’apocrifo, il nodo arte/follia, la poesia contemporanea. Narrativa: Col favore delle tenebre, Taccuini di Blok, Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Il mese dopo l’ultimo, Taala, Il demone accanto, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa. Poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore. Saggistica: Il tempo di Perseo, L’opera non perfetta, Nottario. Con Lucetta Frisa cura i “Libri dell’Arca” per le Edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci. Ha vinto il Premio Montano, il Premio Morselli e il Premio internazionale per l’aforisma Torino in sintesi. Sua ultima pubblicazione è Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser, Robin 2014. Sito web: http://www.marcoercolani.it
Lucetta Frisa nasce e vive a Genova. Attrice, poeta, traduttrice. Opere poetiche: Modellandosi voce, La follia dei morti, Notte alta, L’altra, Se fossimo immortali, Ritorno alla spiaggia, L’emozione dell’aria, Sonetti dolenti e balordi. Narrativa: Fiore 2103, Sulle tracce dei cardellini, La torre della luna nera. Ha tradotto opere di H. Michaux, S.J.Perse, A.Borne, B. Noël, P.Quignard, S.Durbec, J.Sacré, C.Esteban. Ha collaborato con i suoi racconti per ragazzi al quotidiano “Avvenire”. Con Marco Ercolani cura i “Libri dell’Arca” per le edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci. Vince nel 2005 il Premio Lerici-Pea per l’inedito e nel 2011 il Premio Astrolabio per l’opera complessiva. Suoi testi sono tradotti in antologie, riviste e libri collettivi. È presente in diversi blog letterari.

 

LUIGI CANNILLO

LORENZO BATTAGLIA RECENSISCE “POESIE DOPO LA FESTA” DI ALESSANDRO MANTOVANI

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Recensione – “Poesie dopo la festa” di

Alessandro Mantovani (L’Arcolaio, 2015)
articolo di Lorenzo Battaglia

Nella quarta di copertina del libro, scritta dal poeta e docente dell’Università di Bologna Alberto Bertoni, si definisce Mantovani un poeta che “Se vivessimo in un’altra epoca, sarebbe un poeta epico”. A buon ragione, Bertoni sottolinea in un’altra epoca dal momento che Mantovani spesso e volentieri esprime un registro confessionale, monodico, lontanissimo dal mimetismo esaltato di certi accordi, appunto, epici. Come scrisse M. L. Rosenthal, nella fuorviante poesia confessionale si giunge a “una fusione del privato e del culturalmente simbolico”. Non è semplice riuscirci, cioè concedere al privato autobiografico di divenire il soggetto principale della poesia a caratteri chiusi, compresa di stili e confini, “proibizioni” di diffondere quella voce dell’io più puro e istintivo. Eppure Mantovani a tratti ci riesce, diffondendo quella voce che non è solo “poesia-d’accademia”, mixando con compunzione l’esigenza di rievocare una dimensione immaginativo-simbolica (fatta spesso di allegorie mitiche / “estirpate come erbacce bruciate”) che rallenta e ovatta il tempo in una sorta di contemplazione del poeta fuori verso lo spazio aperto, insieme a slang/argot più contemporanei e forme grammaticali distorte che “celebrano” l’assenza di linguaggi poetici nel presente e che, insieme, per antitesi, sembrano consigliarci di ricondursi a quelli. E così, davvero, nella poesia di Mantovani l’esplosione di creatività non si scatena mai, ma (anzi) ogni emotività da cui si è colti implode in una narrazione ragionata dell’io monologante, solitario, testimone di periodi di sperimentazioni esistenziali, di prove ed errori:

“Anche oggi sono stato reduce / della mia vita. / Mi siedo solo, parca mensa: / zuppa densa, pepe e sale / sulla tavola di legno, / il pane di ieri che mi è bastato, / del vino inacidito, un peperone verde, / avanzo avanzato”.

Sembra proprio che qui, in questa raccolta, il giovane poeta cerchi il punto zero di un artista come diceva Arakawa, “La vera condizione [perché] una qualsiasi avventura della mente [ab-bia inzio]”, per farlo diventare “modello mentale” della sua sperimentazione poetica, dove tutto è una curiosa avversione alla ricerca di strade per evitare le trappole, la sua escursione distruttiva (ma, ovviamente, inevitabile) nel mondo reale:

“All’alba ho salito la collina / pochi volatili a chiedermi silenzio / mentre compatto neve sotto i passi. / […] Eppure sono solo passi incavati, / buchi in cui frugare, ricercare / un senso tra i cri-stalli siberiani”.

Alessandro Mantovani nasce a Genova nel 1991. Studia Filologia Classica all’Alma Mater Studiorum di Bologna ed è cofondantore del mensile indipendente di poesia Fischi di Carta, approvato da Enrico Testa. Collabora con diverse testate giornalistiche e, in passato, ha fatto parte della redazione di La Repubblica di Bologna.

CLAUDIO MORANDINI RECENSISCE “L’INCIAMPO” DI DANIELA PERICONE

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IPERBOLI, ELLISSI
Pagine di Claudio Morandini, e altro
Letture: Daniela Pericone, “L’inciampo”
“Alfine esultiamo / all’opera compiuta / dopo tarli di costante lavorio”.

Quella di Daniela Pericone è poesia che si interroga spesso sulla natura (sulla fisiologia, per così dire) della poesia stessa: e lo fa con corposità ossessiva di immagini, con energia e insistenza, con ansia di ribadire e di distinguere, di ribattere in un discorso sempre aperto (“Tuttavia” è la prima parola che si incontra nei suoi versi de “L’inciampo”, pubblicato da L’Arcolaio nel 2015).

Interrogarsi sulla poesia spinge a travestimenti e ammiccamenti montaliani: “Non chiedermi nulla, nulla / ho da dire, né altro m’attende se non / con poco sguardo…” etc. O “Quanta ostinazione a inseguire / la parola che schiuda tutto il senso / probabile impossibile…” O, nel solco di certe precarie epifanie: “A volte – certo, solo a volte / capita un momento in cui tutti i particolari / combaciano con precisione di luce”. Per non dire del titolo della terza sezione, “Di varchi e di bufere”, così lampante nei suoi riferimenti da suggerire, chissà, un lieve retrogusto ironico.
Il gioco della scrittura però, nonostante l’eleganza di questi scetticismi, comporta fatica e sangue: “Soltanto lettere / d’inchiostro senza briglie / sanguino sul foglio”.
Le parole assumono una vita che le rende indipendenti dalla volontà di chi le vor-rebbe usare: sono parole-scala, parole-ordine, parole-passo per avanzare nel mon-do, parole-suono che partono alla ricerca del senso delle cose, e che nel loro sfuggire al controllo incespicano, rischiano di andare “allo sbando”, o di “ragliare in una cantilena / senza motivo senza cervello”; come insetti o molluschi, le parole forzano la volontà di chi vorrebbe insorgere “al solo sentirle strisciare / sgusciare dalle mie labbra / da sotto la lingua non mai dalla testa”.
E ancora, in un altro luogo: “Ogni volta che scrivo / dal mio occhio blu / è uno scroscio di labbra / un ritorno di pioggia nelle vene”. E non resta che inseguirle, quelle parole, “riavvolgere… le più invasate”, anche a rischio di “combattere corpo a corpo” per ricondurle indietro, o dentro, e “impastarle”, “ammansirle” finalmente “tramutate in grani rilucenti”.
Il corpo sembra originarle senza requie come secrezioni, con tale dovizia che accanto al bisogno di parola se ne vede sorgere un altro, di “silenzio” (parola evocata più volte), un “silenzio” da “fondali”, da “abisso”. Non è un caso che Elio Grasso, sulla quarta di copertina, parli del lucido racconto di una “speleologia dell’io”.

                                                                                                                                      CLAUDIO MORANDINI

SEBASTIANO AGLIECO RECENSISCE “PER DISPERATA OSTINAZIONE” DI ROBERTO MARINO MASINI”

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Roberto Marino Masini, PER DISPERATA OSTINAZIONE, L’Arcolaio 2014
articolo di Sebastiano Aglieco apparso su Compitu re vivi

Ci sono grumi riconoscibili nella poesia italiana contemporanea – una volta si sarebbero chiamate scuole -. Non fanno più riferimento a manifesti, schematizzazioni e proclami, quanto a un certo modo di sentire, di avvertire.
Si tratta di consonanze, assai più efficaci della presunzione al cambiamento delle scuole; perché, capaci di cogliere più la sconfitta che il trionfo, la resa piuttosto che l’attacco.

Post scriptum…
Lo so,
domani toccherò la cikttà
troverò ciottoli e balconi dimenticati.
Vorrei fermarmi
tra uil rosmarino ed il mare,
vivere di nostalgia
promesse attese
voci spente.
Rinchiuso in un essere normale,
passeggiare nel nulla diverso.

p. 59

Siamo, dunque, nel territorio dell’abbassamento formale, del dato della vita che vive. Non è un caso che queste poesie riconoscano ambiti di appartenenza ma storicamente è chiaro che si potrebbe fare il nome di Saba, per quella dichiarazione di poetica con cui occorre fare sempre i conti quando si scrive e che va sotto la ben nota dicitura di “poesia onesta”.
Altri debiti sono sicuramente da ascrivere ai crepuscolari, attraverso, poi, la spinta storica
di un libro come “Umana Gloria”, ma tantissimi nomi, più o meno in ombra, si potrebbero evocare, anche con divergenze spesso notevoli, fino alla pratica di una geometrizzazione quasi asettica.
In questo libro lo spleen è perfettamente dichiarato, ed è proprio la malinconia, interpretabile non solo come risvolto di pulsioni autobiografiche, ma anche storiche e territoriali.
Sono poesie indissolubilmente legate a un paesaggio, “Grigio treno verso Trieste”… microcontesti famigliari e amicali – tantissime le dediche in questo libro – persino di inclusione nel tessuto delle parole, e per umana partecipazione, degli umili e dei diseredati.
Del resto, di questa decisione di muoversi nei contesti limitrofi della vita, quindi della parola, ce lo dicono tracce concretissime: l’utilizzo nella versificazione, di spazi lunghi tra un verso all’altro; la povertà delle immagini e degli oggetti, persino nel riconoscimento dell’estrema povertà del gesto di fare poesia, simile al graffiare la pietra, l’argilla.
Si può dunque isolare, dalle parole di questo libro, una poetica che mi sembra sempre più necessaria in tempi di cani sciolti e volpi imbroglione.

Perso come le parole che scrivo
lasciate lì a decantare,
nella speranza che qualcuno legga o ascolti
ma in silenzio per carità,
senza disturbare nessuno non si sa mai,
un lampo di dignità potrebbe far male a molti.

p. 66

Che cosa ci possiamo ancora aspettare, in fondo, dalla poesia, se non una scelta di campo (nostra); che è poi scelta di come vogliamo vivere, di quali parole vogliamo preservare?
Un requiem come inizio…
fare nuvole e sole,
giallo intenso pesante forse
ma un andare per una fine.
Alleluja.

p. 69

Insomma: un requiem come iniziazione.

                                                                                                 Sebastiano Aglieco

LORENZO SPURIO RECENSISCE “LA VOCAZIONE DELLA BALENA”, L’ULTIMO LIBRO DI CLAUDIO PAGELLI.

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DAL BLOG LETTERATURA E CULTURA

Recensione di Lorenzo Spurio

 

Molto è possibile domandarsi sul titolo del nuovo libro di Claudio Pagelli che in copertina enigmaticamente e con uno sprizzo ironico recita La vocazione della balena. Quale potrebbe effettivamente essere la vocazione ossia la predisposizione del più grande cetaceo? Ma, soprattutto, quale è il percorso interpretativo che è richiesto al lettore di intraprendere? La balena, quale animale, si caratterizza per la gran mole del suo corpo, ma anche per una certa maestosità della forma nonché, per i detti motivi, per la consacrazione di una immagine di forza, dominio e, dunque, è concepibile come un essere che è da temere.
La stravaganza del titolo è ancor più amplificata se si prende in considerazione l’immagine di copertina che non sembra minimamente addirsi né legarsi, appunto, al titolo del libro. In essa notiamo, in un effetto chiaroscurale tipico del bianco e nero, uno scorcio di una città ritratta nel dinamismo di un tranvia in movimento, sembrerebbe di notte dato che il faro centrale promana una luce che intuiamo accecante e che nella bicromia dei toni è reso con un bianco sfolgorante. È, dunque, l’immagine di una frenesia abitudinale, quella della città con i suoi transiti, passaggi, movimenti di sorta, incroci di vie di comunicazione, percorsi e tragitti. Niente a che vedere con la balena o, comunque, con uno scenario in qualche modo naturalistico.
Contenutisticamente il libro è formato da alcune micro-sillogi che hanno una significazione autentica e un’autonomia in sé di completezza: si apre il percorso poetico di Pagelli con la modesta compagine di liriche che fanno parte dell’aggruppamento “L’inferno di Chisciotte” per passare poi al secondo nucleo tematico (a mio avviso il più importante) denominato “Bestiario d’ufficio”; seguono poi altre partizioni interessanti del volume che vanno sotto i titoli tutt’altro che archetipi di “Caffè in sette quarti”, “Burattini” e, a chiudere, con grande impazienza del persuaso lettore, “La balena bovisa”.
La poetica del Nostro si caratterizza per un postmoderno coinvolgimento nelle immagini, una vitalità empirica e roboante del mondo, ma anche una velata organicità di fondo nutrita da senso critico, chiaroveggenza, senso di compartecipazione assai intimo con l’altro, forza caratteriale vorticosa e lucidità espressiva oltremodo evocativa. Non è un caso che il Nostro ricorra a Guido Oldani che, non solo ha prefato il testo, ma è citato pure in esergo in una delle tre citazioni d’apertura. L’eclettismo di Oldani, convinto assertore di una tendenza artistica definibile nei termini del realismo terminale, sembra in qualche maniera aver permeato con originalità ed esuberanza la penna di Pagelli, la sua cifra letteraria e soprattutto la tendenza lirica di costruzione dei componimenti.
Costrutti semantici di rilevante pregnanza (lo intuiamo dalla ricorrenza con la quale si presentano durante la lettura delle varie poesie) sono quelle che fanno riferimento alle immagini-simbolo del tatuaggio (la lirica d’apertura è proprio così intitolata, nell’inflessione plurale del termine) e all’imprevedibilità degli accostamenti tanto da derivarne spesso forme ossimoriche nonché elementi enigmatici o talmente assurdi da sfiorare il paradosso. Si tratta comunque e sempre di espressioni assai particolareggiate che il Pagelli utilizza per la descrizione minuziosa di una data realtà oggettiva trasfigurando il concreto (il visibile, l’esperibile) in una superfetazione ambigua nonché curiosa in chiave lirica, così come le cuffie del logorante lavoro di call-center che diventano in chiave di similitudine assai ricercata delle “meduse leggere” (15).

Importante e rivelatrice la presenza di elementi e figurazioni che richiamano il campo teatrale; nella poesia “il taccuino” il Nostro non manca di osservare una società abbruttita e caricaturale con “maschere tutte uguali” (16) dove sono la reiterazione e l’inautenticità degli atteggiamenti a dominare (si parla della “seta della finzione”, 16). Costrutti assai particolari che chiamano il lettore a riflettere su questi avvicinamenti sfuggenti e a tratti amari di sostantivi che il Nostro impiega sembrerebbe con un monito di rivalsa alla assuefazione di un mondo tanto banale. L’impressione è quella di una velata critica sociale, sebbene Pagelli eviti sempre di puntare il dito in maniera chiara verso determinate categorie della società o situazioni in particolare. Se da una parte l’intento del Nostro è raggiunto sulle basi di una poesia che effettivamente ha il potere di suggestionare, al contempo ci chiediamo quale realmente sia l’obiettivo del poeta nel dipingere il mondo di fuori a tinte fosche, facendone risaltare mancanze, incongruità e ambivalenze stridenti.
Ci sono avvisaglie di un disagio giovanile che il Pagelli sembra in qualche maniera voler evocare, soprattutto nella lirica “il farmaco” ma anche in “terzo piano” dove l’explicit del testo poetico sembrerebbe stavolta abbastanza palese nella sua finalità comunicativa quando asserisce, in una maniera che sembra essere l’epilogo di una vera e propria indagine, che “l’equilibrio è di carta” (19) ad intendere dunque che la vita dell’uomo non è altro che un grande foglio di carta. Essa va scritta, è vero, ma Pagelli ci ricorda che la carta, un po’ come la seta di un’altra lirica, è un materiale corruttibile, che vive in uno stato transitorio di calma e conservazione ma che, sottoposto a carichi, intemperie emozionali e imprevedibilità di sorta, è soggetto di continuo alla lacerazione e all’annullamento.
La silloge “Bestiario d’ufficio” chiarifica da subito l’intento, direi polemico ma assai efficace e ben proposto, del Nostro: quello di descrivere, come nella più antica tradizione greca delle Favole, le componenti sociali, i vari tipi di uomo per le loro attitudini e propensioni, a degli animali. Ne viene fuori un bestiario assai curioso che non ha nulla a che vedere con quelli del periodo medievale, sebbene le poesie del Nostro siano talmente chiare e ben delineate nella resa delle immagini da figurarci mentre leggiamo la resa iconica, il prospetto grafico, di ciò di cui parla.
Assistiamo così a una carrellata di uomini-animali che tanto ci richiama alla mente le bestie orwelliane ma anche gli animali in lotta tra loro nelle celebri Favole sciasciane. In questi componimenti Pagelli poeta sembra risaltare meglio che in ciascuna parte del libro in versi lucidi e fulgenti che ci parlano con una leggerezza che nasconde titubanza, della
“urticante indifferenza delle cose” (26), di una condizione di vera e propria spoliazione come avviene nella lirica “la coccinella” e della seduzione che va spesso a braccetto con l’avvenenza nella poesia dedicata alla pantera. Se il ragno bianco diviene espressione di una manipolazione studiata, di un pragmatismo logico improntato alla resa personale, è anche testamento di un’ipocrisia sociale che andrebbe depennata anche a beneficio di quei tanti polli che spesso vengono “sbranat[i] tutt[i], anche l’osso” (30) in una famelica scala alimentare dove il debole è anche il più sfortunato.
Nei “Caffè in sette quarti” è curiosa la costruzione dell’immagine temporale (sette quarti ossia un’ora ed un quarto) tanto che la minuscola plaquette non è che un tentativo di desacralizzazione della frenesia e del tempus fugit (in “quartina n.1” si legge all’apertura “tutto in fretta”, 35). Con questa chiave del tempo che corre si sposa l’amalgamante fluidità del verso del Nostro dove il linguaggio sembra farsi leggermente più condensato ed elegante, i versi si asciugano e divengono molto più sintetici proprio per sposarsi con quell’esigenza di dire quel che va detto nel minor spazio-tempo possibile. Particolare attenzione meritano la “quartina n. 3” e la “quartina n. 6”. Nella prima difficile non notare l’adozione di un sistema ritmico di tipo baciato che permette di recuperare una musicalità, seppur ridondante, forse leggermente appiattita in altri componimenti. Con l’immagine della Madonna di gesso Pagelli non ha nessun desiderio di immettersi in un canale religioso, né di affrontare speculazioni teologiche o liturgiche, piuttosto è l’immagine-impulso che motiva alcuni veloci ragionamenti. Dall’universale si passa, dunque, presto al sessuale, cioè dal celeste al meramente scatologico. Anche la religione, quale attaccamento personale e attività dell’uomo, nella società contemporanea finisce per dover sottostare al trantran velocistico di una mondo dove l’ipercinesi e l’iperattività impediscono la conquista e la conservazione di una situazione di tranquillità. La specificazione del materiale di cui è fatta la madonna, il gesso, è elemento in sé innocuo e vacuo ma al contempo rivelatore e dissacratorio a testimoniare la farraginosità e incompiutezza di ciò che esso rappresenta. Se l’autore avesse parlato di una madonna di bronzo l’immagine che ne avremmo ricevuto sarebbe stata quella di rigidità e forza, se avesse parlato di una madonna d’oro ne avremmo colto lo sfarzo e il lusso, ma il fatto che sia di gesso, costruita con materiali poveri, e particolarmente esposta agli attriti dall’ambiente ne fa una rappresentazione minimizzata, svilita, impoverita e in qualche modo anche depauperata dell’aura celeste. Ecco perché essa più che la rappresentazione di ciò che è si manifesta per il materiale di cui è fatta: non è altro che una suppellettile fragile posta da qualche parte, nolente abitatrice delle vicende degli altri, voyeur della frenesia sociale come pure di un impudico atto sessuale che può avvenire, come il raccoglimento in preghiera, sotto i suoi casti occhi.

La “quartina n. 6” parla della “fame feroce negli occhi” (40) che non è quella di qualche povero bambino affamato che vive in qualche recondito ambito del mondo, ma quella dell’uomo contemporaneo asservito alle spossanti logiche del consumo e della lotta per l’apparenza. Nella promozione che si anela, come pure nell’assunzione che si vive come utopia paludosa, ci si comporta con un atteggiamento falsamente agonistico con il prossimo dettato invece da profonda invidia, malcelata comprensione, inosservanza e spietata freddezza. L’interesse dell’oggi è spostato così non tanto nella conservazione e nella inaugurazione di rapporti sociali concreti, ma nell’accaparramento del bene (più o meno di lusso) funzionale alla creazione di una immagine di dominio nonché alla impavida rincorsa a un celebrativismo ridicolo quale è appunto “comprarsi quelle scarpe coi tacchi…” (40). I bisogni personali del singolo, ciò che economicamente potremmo definire come i beni primari, vengono spesso sedotti ed annichiliti, scavalcati, dall’ambizione, dalla lotta tra pari, dall’egocentrismo e dalla sprizzante velleità che fa del consumo e della mercificazione di tutto i capisaldi della dottrina amorale di cui respiriamo i vapori.
Approssimandoci alla plaquette successiva, “Burattini”, sembra allora possibile completare quel sistema di collegamenti e rimandi inaugurato con la silloge “Bestiario d’ufficio”, rintracciando sulla carta in maniera assai chiara i parallelismi tra animali viziati e persone perse nelle proprie ambizioni. Non è un caso che esse non siano più, in pratica, delle vere e proprie persone ossia fatte di carne ed ossa, ma piuttosto di legno, tanto da essere burattini, esseri inanimati che vivono solamente per mezzo dei movimenti indotti da qualcuno. La società, allora, sembra chiosare Pagelli, sembra avere nella nostra attualità proprio questa deformante e allarmante verità: quella di trasformare l’uomo in burattino, in un alieno privo di quella compagine ricca e nutrita di rapporti umani, emozionalità divampanti, carica empatica, comprensione di sé e del mondo, consapevolezza lucida volta a perseguire un atteggiamento attivo e conscio piuttosto che passivo e subalterno.
Tra le poesie presenti in questa raccolta lodevoli sono “l’attore”, doppiezza di ruoli in un unico corpo, colui che sa ridere in pubblico mentre piange internamente o colui che millanta, infastidisce, provoca, assurge a realtà altre, falsifica, si mimetizza o addirittura, come è lui in presa diretta ad asserire, “posso pure insultarti/ dire quello che penso e il suo rovescio” (46). Al sarcasmo costitutivo dell’attore che è un mentitore sagace segue la raffigurazione icastica e puntuale della “manager” della quale il Nostro dà alcune informazioni necessarie ad inquadrare la sua figura. Egli ci parla della sua “lingua svelta” (47) ma anche della sua disponibilità in termini sessuali che, in chiusa, la rendono “una cagna” (47). Il Nostro non manca di ravvisare come pure a certi livelli persista un sistema mafioso e marcio dove anche i rapporti occupazionali e lavorativi sono gravati dal ributtante sistema della mercificazione e del baratto sessuale, dell’intimidazione e del ricatto. La poesia “L’allenatore” fornisce l’ennesimo inganno e cattiveria che possono intaccare le giovani generazioni che, intimorite in qualche modo dal loro coach che pretende sempre il meglio nelle loro prestazioni, non è in grado di vedere i suoi ragazzi come persone che hanno bisogno di ascolto e vicinanza, magari pure amicizia, piuttosto che un mentore vanitoso e intransigente, prepotentemente sadico al punto di manifestare una chiaroveggenza schifosa se non seguono le sue direttive.
Ci approssimiamo, così, alla chiusa del volume, all’ultima plaquette, quella intitolata “La balena bovisa” che in qualche modo riallaccia i tanti fili lanciati dal Nostro nel corso del lavoro a tessere con sapienza e artificio un lavoro che è sicuramente ben congegnato, attentamente elaborato nell’adozione di una prosa pungentemente visiva, icastica ed istrionica al contempo, pregnante di realtà dure e cementata sulla sconfessione delle storture che cancrenizzano la società.
Nella poesia “il singhiozzo” Pagelli affronta in maniera alquanto atipica il tema del silenzio sostenendo che esso è assai più educato dell’indifferenza e di ogni altro rapporto umano che maschera un’assenza di qualche tipo. Meglio tacere che dire stupidità o tentare di dire il vero sprofondando, invece, nel pozzo senza scampo dall’ipocrisia. L’inquinamento acustico, allora, non è una vera contaminazione dell’aria dovuta alle onde sonore di macchinari e altri aggeggi umani, ma è piuttosto dovuta alla confusione di dialoghi, alla commistione di odi e rancori, all’imbarbarimento delle coscienze che ammorbano l’ecosistema facendolo precipitare in un antro tossico e dunque mal vivibile.
Anche il piccione che cerca un po’ di clemenza, la gratuita donazione di qualche insignificante briciola nella poesia “campus durando” finisce per farne le spese. L’inappropriata e scurrile bestemmia di una ragazza per un accadimento privo di rilevanza è talmente assordante da trasformare questa scena postmodernamente arcadica (il parco della città) in una gravosa discesa agli inferi (sotto la piazza). La tranquillità è spezzata e per sempre, l’oltraggio è stato commesso e la natura ne subisce le conseguenze. La morale (ma non è una vera morale perché Pagelli non intende insegnare niente, piuttosto far riflettere) è che ci si arrabbia troppo facilmente e per tutto e che le reazioni sono sempre spropositate, ci si infiamma e si agisce con impulso ed avventatamente senza percepire mentalmente che le azioni a un dato episodio accaduto possono essere ulteriormente peggiorative per lo stesso nonché per la nostra salute. Viene da chiedersi allora, nella poesia appena richiamata, il vero animale è il piccione che geneticamente e con l’atavica fame che lo caratterizza è portato a beccare attorno ai nostri piedi alla disperata ricerca di qualcosa da mettere nel gozzo o è proprio la ragazza che dell’animale ha in effetti assorbito le sembianze con le quali convenzionalmente distinguiamo tra bestialità ed umanità? Pagelli mi pare di capire che pone questo quesito ed altri, in parti simili, su altrettante questioni di vitale importanza e di fresca attualità.
La dentatura pericolosissima della balena della Bovisa che chiude la raccolta tra inquietudini, ripensamenti e perplessità non è altro che la maestosa scalinata della stazione Centrale di Milano. Entrare nella frenesia di un punto nevralgico quale è la stazione milanese è allora sinonimo di immettersi in una foga comunicativa dove è la cacofonia a dominare, la calca fastidiosa, lo struscio spersonalizzante, l’annebbiamento della vista, l’inasprimento della malinconia del luogo che si lascia. Tra qualche signora che ha appena terminato di fare shopping in costosi negozi del centro, in un angolo dorme un barbone, nel disprezzo e l’incuranza dei più. La stazione è allora l’ampio stomaco di questa balena stanca e imbizzarrita, delusa e ammorbata che al suo interno ha appena trangugiato maldicenze, viltà, ipocrisie e i vizi in cui l’uomo, impareggiabile, è maestro. A livello psicanalitico il sogno di essere stato mangiato da una balena e di vivere nel suo ventre (mito di Giona, storia di Pinocchio) corrisponderebbe all’esigenza inconscia di prendersi un periodo di pausa, una sorta di ritiro momentaneo dal mondo, necessario per metter un freno al corso degli eventi, elaborare meglio un accadimento (come un lutto), prendere le distanze temporalmente dal mondo di fuori per approfondire il proprio microcosmo. Alla stasi fa seguito una rinascita e quindi l’isolamento negli antri dello stomaco del cetaceo è positivo perché a una finta morte (il trangugiamento) corrisponde poi la rinascita (la fuoriuscita dal suo ventre) come persona maggiormente assennata e pacificata. Il riferimento collodiano salta visibilmente alla mente (una delle sezioni del libro, oltretutto, e come già detto, è intitolata “Burattini”) ma alla disperazione per la scomparsa del genitore come avviene in Pinocchio, Pagelli ha adoperato con pertinenza una riattribuzione di significato: la profonda pancia della balena è la società nella quale viviamo, conca di mancanze e disattenzioni, voracità e rincorse sfegatate al potere, bramosie vergognose, ricatti indicibili. Tutti, a vario livello, ne siamo in qualche modo assuefatti “nel solito carnevale” (25) nel quale viviamo. Resta ben inteso a questo punto che “la vocazione della balena” non è altro che una metafora prelibata e ricca dell’esigenza stringente di non lasciarci fagocitare dalla macchina stritola-coscienze della contemporaneità accelerata.
LORENZO SPURIO
Jesi, 11-12-2015

UN NUOVO AUTORE ENTRA IN CASA ARCOLAIO. E’ BARBARA HERZOG CON IL SUO NUOVO LIBRO “SE NON NEL SILENZIO”

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 DI BARBARA HERZOG PRESENTIAMO QUI ALCUNI TESTI, DOPO AVERE RIPRESO LA BELLA PREFAZIONE DI FRANCESCA SERRAGNOLI. LA SCRITTURA DELLA NOSTRA NUOVA AMICA E’ ANALITICA, A TRATTI DURA – ANCHE ASPRA -, MA ANCHE ICASTICA E LARGAMENTE CONDIVISIBILE NEI CONTENUTI E NELLA POETICA!

BENVENUTA TRA NOI, CARA E BRAVA POETESSA!

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Riportiamo adesso la prefazione della brava Francesca Serragnoli, che ringraziamo per la preziosa collaborazione!

“C’è una chiarezza nel mondo, senza confini, chiamata sofferenza. Vicina o lontana che sia, ne siamo impastati nel corpo e nello spirito dalle origini del mondo. Franco Loi in una sua poesia, cito a memoria, scriveva: “ogni volta che mangio, qualcuno muore”. Immagino si riferisse alle notizie del telegiornale. Ecco, questo libro non sono le news di prima pagina raccontate con gli occhi della poesia. Non è un libro furbo che ha trovato un argomento “commerciale” (l’esagerazione non politicamente corretta è per capirsi). Certo, il primo commento, buttato lì, è quello che il dolore che il libro tocca (con mano) è quello che percorre un fiume sotterraneo, parallelo: i migranti, i futuri rifugiati, i derelitti. Noi lo vediamo alla televisione e, come gli operatori, ci mettiamo i guanti di gomma. Ma non è questo, ripetiamo, il commentino che può torturare la mente e la pancia. Lo scontro principale è su “cos’è umano” e la chiave di lettura, credo, sia “non si assomigliano/ se non nel silenzio”. I clienti sono i volti, dovrebbero esserlo sempre, e i volti indicano una strada indimenticabile, insostituibile, unica. Siamo umani perché soffriamo? Siamo simili nella sofferenza quindi siamo umani? Barbara ha avuto la forza di non isolare il dolore come ultimo pungiglione (sotto teca) che definisce quello che è una persona. Il pungiglione sono i volti, con i loro orizzonti vasti come quelli dei grandi paesaggi collinari che ci circondano. Non si tratta di contenere la sfilata di profughi che entrano nelle nostre città, di contare, di classificare, qui c’è una grande similitudine che sorregge tutte le nostre poesie: la migrazione in questo mondo, senza confini, dolorosa, turbata, il grande viaggio della vita spinto dal desiderio di stare meglio, cioè della felicità. Si potrebbe dire che noi occidentali vendiamo felicità a buon prezzo, ma quando si tratta di vita o di morte, la felicità che uno cerca non è solo il benessere, ma una specie di salvezza dal male. Lo stare meglio può coincidere con la liberazione dal male, ma credo che per queste piaghe non bastino cerotti, soldi e case a riempire i vuoti. Allora cosa rimargina le ferite? Un amico mi ricordava in una mail una frase di Leon Bloy: “soffrire passa, ma avere sofferto non passa mai”. Occorre una consolazione immensa, profonda come è fondo il dolore. Barbara intravede qualcosa di più del carcere dei fatti accaduti, del curriculum tremendo. Una signora, compagna di stanza di mia madre in ospedale, parlando delle pesche, diceva che suo marito decideva che erano da raccogliere quando “i ha fat è vulton”. Non si riesce a tradurre e io non voglio nemmeno capire di meno di questa frase che per me ha a che vedere con il volto, il sole, l’attesa fiduciosa, la bellezza, la pazienza. Si potrebbe dire che una pesca non è un uomo. Verissimo. Ma siamo tutti appesi a un ramo che non è il nostro. E vulton è desiderabile e basta. “Non si somigliano/ se non nel silenzio”, dicevamo, la chiave di lettura di questi testi. La somiglianza è quello che permette di guardarci in faccia e riconoscerci, senza che un colpo di macete ci divida. Non parleremo certo del modo di aiutare queste persone, ma del perché. In Amarcord, ad un certo punto, nella scena della grande nebbia, il nonno esce di casa e si perde. Sente poi arrivare una carrozza e grida “Ferma! C’è un uomo qui!”. Ogni volta che in ospedale, per la strada, in un ufficio, in una sala d’aspetto si ravvisa questa somiglianza, non dico che ci sia salvezza o garanzia di non essere colpiti con un pugno, ma ci si allarga come laghi, ci si senti in fondo in buone mani, la pasta di cui siamo fatti è buona. E in quella bontà siamo fatti nuovi, vestiti come con il vestito della domenica. “C’è un uomo qui!” basta e avanza. Non c’è nulla che ci sfami e disseti come un gesto umano che è quasi divino. Questo è lo specchio che ci fa belli, il belvedere. La poesia, anche quella civile, contro le guerre, non salva (la vita), Barbara lo sa. Ma allora a che serve un libro di poesie? È un volto come gli altri, sperduto, che dai barconi ci guarda e lava i disperati come lavasse se stesso. È retorica poetica questa? Retorica sulla poesia? Sicuramente lo è, ma occorreva compensare la mancanza di retorica di queste poesie.”

Francesca Serragnoli

Alcuni testi:

 

Voglio sapere. Addentrarmi.
Nuotare nel dolore.
Sprofondare negli occhi iniettati di sangue rappreso da un anno.
Svuotati. Dalla fiducia nell’anima umana.
Cos’è umano.
Parlare con la voce afona che non ha più nulla da esprimere.
Ascoltare il tremendo silenzio.
Non c’è fine. Continuerò malamente ad incollare frantumi.
Continueranno a frantumare.
Voglio essere invasa dal tonfo sordo che batte ribatte
nella testa china per comprendere.
Comprendere è il primo passo verso la guarigione?
Dal gelo nelle vene dei torturatori.

**

Mio figlio aveva tre anni. L’avevo nascosto con la famiglia di mia madre. Ma mi avevano seguito. È stato un attimo. Un colpo di pistola in fronte, e il mio bimbo non c’era più.
Hanno avuto la grazia di non usare il machete. Come invece usavo fare io. Quando facevo parte dei vigilantes del governo. Eravamo un’istituzione ufficiale. Con tanto di mandato. Di trovare, giudicare e giustiziare. Nessun rallentamento giudiziale. Nessuna intromissione della polizia. Veloce ed efficace.
Bisognava tenere le strade pulite e il vicinato sicuro. Ci pensavamo noi.
Era un buon lavoro. Per un buon cristiano come me. Io sono cristiano pentecostale. Avrei dovuto prendere il posto di mio padre alla sua morte. Era il capo spirituale. Gli hanno tolto il cuore e me l’hanno appoggiato in mano. Era la consegna. Ma io non sono mica come loro. Quello era il lavoro di mio padre. Sarebbe toccato a me, gli altri fratelli non andavano bene. Il primogenito sono io. Con le femmine ancora tutte da sposare. Io sono un buon cristiano, come mia madre. E facevo un buon lavoro.
Aiutavo il governo. Liberavo il vicinato dai criminali.
Ma poi il governo ha sciolto il nostro gruppo.
E tante persone erano risentite contro di noi.
Hanno sfondato un bar con quattro macchine perché sapevano che io e i miei amici eravamo dentro. Ho visto due amici morire. Davanti a me. Quella volta sono riuscito a scappare. Sono scappato oltre il confine del paese.
Ma là c’erano comunità di gente del mio paese. E sapevano del mio lavoro. Non c’era tregua. Mi hanno assalito di nuovo, con bastoni e tirapugni e machete. Ho le ferite che lo provano.
C’era sangue dappertutto. Ma sono riuscito a scappare ancora. In un altro paese ancora.
Poi mi sono imbarcato per venire qui.
Chiedo a questo Stato protezione, perché a casa mia non posso tornare.

**

Ho sbattuto il Corano per terra. Così hanno detto.
Da anni pagavano sì e no la metà dello stipendio concordato. Mio figlio si era ammalato. Ho chiesto per la prima volta i soldi che mi spettavano. La signora si è arrabbiata tanto. Ho continuato a pulire la casa. Mi è arrivata addosso con una scarpa in mano, picchiando mentre lanciava improperi. Urlava minacce che mi hanno spinta a scappare.
Mentre ero dallo zio sono arrivati a casa mia in cinque a chiedere di me. Soprattutto con i miei figli, perché le grida di dolore attirano la mamma. Ma io non c’ero. E loro non hanno detto niente.

Riusciamo ad andare a messa a casa di qualcuno di noi una volta al mese. Senza dare nell’occhio. Vivo in un paese a quattro ore di macchina dalla città più vicina. Non c’è la polizia. Quella c’è in città. Ed è mussulmana. Anche la famiglia per cui lavoro è mussulmana. Le appartiene il paese e i terreni da esso coltivati.
Hanno detto che ho sbattuto il Corano per terra.

Mio zio mi ha portata di notte nel cofano della macchina in città, da un altro parente. Ma loro hanno chiesto di me.
Mi hanno messa su un treno verso una grande città. Un uomo mi ha fatta salire su un camion. Abbiamo viaggiato per cinque settimane. Non so se abbiamo attraversato altri paesi oltre il mio. Scendevo al buio per i miei bisogni, e bevevo e mangiavo quando mi davano qualcosa. Non facevo domande.
Sapevo soltanto che mio marito aveva il braccio rotto. Forse i miei figli no.

Non so leggere né scrivere. Ma un giorno, sbirciando tra le assi, capivo che i segni scritti sui cartelli erano diversi. Mi hanno spostata dal camion ad una nave. È stata una lunghissima notte, prima di salire di nuovo sulla terra.

I miei figli hanno sette e nove anni. So che sono scappati. Ma non ho un telefono. O qualcuno a cui chiedere.
Ho freddo. So che faccio cattivo odore. Il viaggio è stato lungo.
Una tazza di tè caldo con tanto zucchero?
Tikka, volentieri.

**

Concime per i pesci
nell’atto di tenere giù
le teste
scrostare mani
aggrappate
già la frase sulle labbra
un barcone
un milione
vivo o morto

non è che le notizie
non tornino
il mulino
è crollato
da quel po’

ma a scegliere
tra morte e morte
scegli comunque
quella più lenta

                                                                                                                                        

LA BELLA PREFAZIONE DI MASSIMO GEZZI AL LIBRO DI ESORDIO DI DAMIANO SINFONICO, “STORIE”, RIPRESA SUL SITO POESIA DI LUIGIA SORRENTINO, RAI NEWS 24

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Sorgente: LA BELLA PREFAZIONE DI MASSIMO GEZZI AL LIBRO DI ESORDIO DI DAMIANO SINFONICO, “STORIE”, RIPRESA SUL SITO POESIA DI LUIGIA SORRENTINO, RAI NEWS 24

LA BELLA PREFAZIONE DI MASSIMO GEZZI AL LIBRO DI ESORDIO DI DAMIANO SINFONICO, “STORIE”, RIPRESA SUL SITO POESIA DI LUIGIA SORRENTINO, RAI NEWS 24

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Dal blog Poesia, di Luigia Sorrentino pubblicato in RAI news 24
Damiano Sinfonico, Storie

Prefazione di Massimo Gezzi

Sì, sono tutte così le Storie che state per leggere: tutte composte con lo stesso metro della prima, bella poesia sulla terribile telefonata che arriva mentre si pensa a tutt’altro (a Costanza d’Altavilla, in questo caso, e alle miniature medievali che ne illustrano la vicenda). Sono tutti versi-frase, o quasi, quelli che Damiano Sinfonico ha pazientemente cesellato per arrivare all’importante risultato costituito da questo suo libro d’esordio.
Il verso-frase non ha una storia fortunata, nella tradizione italiana: vi ricorre molto Fortini (ereditandolo anche da Brecht), a cui è impossibile non pensare; lo usano Giudici e qualche altro. Soprattutto, non lo usano frequentemente i coetanei di Sinfonico (classe 1987), di solito più orientati o a un flusso poetico sintatticamente elaborato, oppure a forme ibride, spurie, in cui poesia e prosa si confondono e si sovrappongono.
Diciamo allora questo, innanzi tutto: Sinfonico ha scritto un libro di poesia senza vergogna e senza ammiccamenti (almeno formali) alla prosa, e tuttavia questo normalissimo libro di poesia mi sembra originale e convincente quanto pochissimi altri libri d’esordio apparsi negli ultimi anni. Pronuncio questo giudizio guardando a varie caratteristiche della raccolta, prima fra tutte la struttura accuratamente studiata: le Storie di Sinfonico sono disposte in quattro sezioni che per titolo hanno un aggettivo posto tra parentesi: (prime), (aperte), (innocenti), (ultime). Se è evidente che (prime) e (ultime) si rispondono tra loro, per riconoscere una seconda simmetria strutturale bisogna leggere i testi: e si scoprirà che la sezione delle (prime) e quella delle (innocenti) iniziano entrambe con un testo in cui chi dice io riceve una telefonata, mentre (aperte) e (ultime) sono inaugurate da un sogno e un risveglio.
Una telefonata, un risveglio: gesti immediati, momentanei, persino banali, che però a volte si fanno portatori di un senso, incidendo una differenza nel ripetersi dei giorni e delle abitudini. Le poesie di Sinfonico, in fondo, giocano tutte su questa tensione o opposizione sotterranea che interessa tutte le dimensioni del testo: la regola autoimposta del verso-frase, per esempio, potrebbe far pensare a poesie granitiche, sentenziose, persino rigide, e invece queste Storie risultano davvero tali: narrazioni, racconti la cui fluidità sa valicare il punto fermo di fine verso e transitare nei versi successivi, tanto che il lettore non avverte troppe differenze di ritmo e prosodia tra la sezione delle (aperte), prive di punti e di maiuscole, e le altre storie. Ma c’è tensione anche in ciò che Sinfonico ci racconta: momenti, lampi di condivisione spezzati poi da un’interruzione, un’assenza (vedi L’ultima colazione, in place des Vosges…, o Il ponte, oggi è riservato al traffico automobilistico…); oppure desideri proiettati in un futuro che non sa ancora incarnarsi in un presente o in un luogo reali (Una volta ho regalato a un’amica una busta…; Ho sognato un ponte tibetano…); o ancora scene di vita quotidiana in cui gli opposti e le differenze vengono revocati in dubbio, come nella aperta in cui ci si ritrova, dopo una notte passata in bianco, fianco a fianco ma «lontani come due bordi di un cucchiaio», in fondo non troppo diversi dai manichini inanimati allineati dietro una vetrina e raccontati da un altro testo; o come nella lapidaria poesia in cui qualcuno, in ospedale, muore circondato dalle risa, inavvertitamente atroci, di chi fa visita a un altro degente.
Così il libro di Sinfonico, come tutti i libri di poesia più interessanti, lascia in chi lo legge l’impressione di una complessità irriducibile, di un’inquietudine feconda che anima tanto la forma quanto il contenuto, e che i luminosi «anni futuri» antivisti dall’ultimo testo – ci si può scomettere – sapranno ancora mettere a frutto: non resta che leggere queste pagine, dunque, e «aspettare insieme il domani».
_____
ESTRATTI
DA “Storie” di Damiano Sinfonico, L’arcolaio, (Forlì 2015) EURO, 10,00
(innocenti)
Mi telefona nei momenti sbagliati.
Sempre, chiunque.
Appare il numero sul display, e mi secca.
Lascio correre gli squilli, me ne infischio.
Richiamerà più tardi, nel pomeriggio, o alla sera.
Chiamerà quando ci sarà qualcuno in casa.
La casa diventa una conchiglia.
Squilla, squilla, come fosse disabitata.
Io mi avvolgo nelle sue pareti bianche, e resto in ascolto.
Mi fascia il drin drin continuo, mi circonda come un’aureola.
A volte ho la tentazione di staccare la corrente.
***
Ci tocca questa trafila di vetrine, di manichini spogliati.
Hanno strisce di plastica al posto degli occhi.
Allungano la mano, con borse e foulard sgargianti.
Il loro busto non conosce grasso e vecchiaia.
Dal magazzino scendono e salgono come fiocchi di neve.
Sorridono, scintillano, oscillano, bevendo la luce del mattino.
***
Si è scherzato un’ora intera.
Le risa si propagavano nel corridoio.
Una corrente magnetica.
Altre risa rispondevano dalle stanze intorno.
Si moltiplicavano lungo il reparto.
Poi è entrato l’infermiere, arcigno.
Ci ha rimproverati.
Come potevamo disturbare una tale quiete?
L’orario di visita stava scadendo.
Eravamo agli ultimi minuti.
Abbiamo riso ancora.
Qualcuno stava morendo.
Si presentano due poeti in libreria.
Hanno l’aria tranquilla.
Parlano di dolore, impudicamente.
Il cielo è grigio, si sta bene fuori.
Lascerò questa grotta sanguinante.
Il brillio di una postuma adolescenza. Qualcuno stava morendo.
***
***
alla P.
Che stupida!
Sì sì proprio stupida!
Così mi dicevo.
Ma poi la tua insipienza si trasformava.
E usciva la farfalla della perspicacia.
Damiano Sinfonico (Genova, 1987) ha conseguito un dottorato in letteratura italiana e attualmente insegna italiano presso l’Università di Granada. Collabora con “Poesia” e con il blog “La Balena Bianca”, e è redattore di “Nuova Corrente”. Storie (prefazione di Massimo Gezzi, L’arcolaio, Forlì 2015) è il suo primo libro di poesie.
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– See more at: http://poesia.blog.rainews.it/2015/12/14/damiano-sinfonico-storie/#more-48549

ALESSANDRO QUATTRONI RIFLETTE SU “L’INCIAMPO” DI DANIELA PERICONE

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link 23 daniala romagnoliFOTO DANIELA PERICONE - 1Daniela Pericone, L’inciampo

(L’arcolaio, Forlì, 2015)

articolo di ALESSANDRO QUATTRONE apparso sul sito CARTEGGI LETTERARI
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La poesia di Daniela Pericone, in questo come nei libri precedenti, nasce da una necessità incontenibile – oltre che da una potente volontà – di tradurre in parola vigorosa e combattiva il disagio generato da una realtà infida. “Scrivo per colmo d’errore”: perché non si può davvero vivere in questo mondo incongruo, ostile all’autenticità, un mondo tanto sfuggente, tanto refrattario all’essere da far credere di trovarsi per errore ad abitarlo. E allora? Non rimane che rassegnarsi a soccombere? No, tutt’altro: ci si può adoperare per rendere perfetto l’imperfetto. Ma operazioni di questo genere le può compiere solo la parola poetica, prodigioso strumento di compensazione e di difesa, sì, ma anche di attacco, di esplosione del compresso, di dispiegamento di una forza che pareva incenerita, e invece era un fuoco segreto.
“L’inciampo” è infatti – dall’inizio alla fine – la denuncia di una mancanza, ma allo stesso tempo l’affermazione di un’energia. Perché il mondo è attraente, certo, ma la sua bellezza è nascosta, prigioniera nella cella sotterranea di un castello che occorre espugnare per poterla riconoscere e liberare. La strada per arrivarci è disseminata di trappole (tagliole) invisibili e di ostacoli naturali che rendono il percorso già di per sé insidioso. La corsa, per quanto determinata, è a rischio continuo di caduta, di inciampo, perciò conviene usare prudenza e stratagemmi, distribuire bene le forze, evitare lo spreco e la resa per sfinimento. La bellezza è lì che aspetta, ma non bisogna sbagliare tattica per eccesso di desiderio.
Troviamo nel libro parole appuntite e taglienti come coltelli, come spade, ma chi le usa è un cavaliere che combatte per amore. Per amore di una realtà sottratta al desiderio da un nemico metafisico, un invisibile principe malvagio che impedisce il contatto. Morii per la bellezza, scriveva Emily Dickinson. La Pericone per la bellezza intende combattere eroicamente. Non ingannino perciò le parole sferzanti e a volte brutali dei testi. Non sono le armi di un personaggio cinico: dietro di esse c’è un’anima piena di tenerezza, ma frenata nell’espressione e nello slancio. Il libro è cosparso di un tale struggimento per la bellezza sottratta allo sguardo e all’abbraccio, che l’autrice – come tutti gli innamorati davanti alle difficoltà – si appassiona fino all’ostinazione. Se inciampa, si rialza. Se sanguina per lo “scatto muto della tagliola”, riesce a liberarsi e a proseguire il suo cammino; stringe i denti e si fa forza anche quando riconosce la propria debolezza, anche mentre continua a perdere sangue.
“Inutilmente la vita mi rincorre
la gara è breve ma la fatica è doppia
a ogni tappa è mia la vittoria
il passo sempre di uno sbaglio avanti”.
L’io è inseguito dalla vita. Vive nell’errore, o meglio nell’errare. Anche questa è una forma di esistenza: avvertimento della vita incalzante ma non incombente, della vita desiderosa di invadere l’io, che forse la teme perché troppo la ama, e orgogliosamente fugge in avanti, negandosi al contatto per timore di non farcela.
Ma il timore viene sempre superato. Lo dichiara l’incipit del libro, che comincia con una parola secca, isolata, sotto il segno della resistenza agonistica: “Tuttavia / rimango qui, qui (…)”. Il “tuttavia” iniziale dà la chiave di lettura di tutta l’opera. L’autrice più volte segnalerà un disagio, un’insoddisfazione, un senso di incompiutezza (“ho disegnato cerchi / senza chiuderli mai”), ma sempre per ricominciare, inarresa, il suo personale assedio alla vita che, anche se il momento è rimandato per provvisoria debolezza, prima o poi dovrà essere conquistata.
“Oggi mi manco
mi sveglio in cammino
in un giorno qualunque (…)
oggi rimando
non sferro l’attacco
col braccio sospeso in un’aria
di gesso mi manco
tra il colpo e l’abbaglio.”
Versi che fanno pensare a Pessoa o ancora alla Dickinson. C’è la sensazione che qualcosa sfugga, e quel qualcosa è il proprio io. “Mi manco” ha più di un significato: cerco di colpirmi, ma la mira è sbagliata; avverto la mia assenza; sento nostalgia di me stessa. Comunque domina un senso di estraneità. La vita per ora è inespugnabile. Troppo ermeticamente chiusa. Perfettamente chiusa nella sua oggettività fatta di cose qualsiasi. E certo non a disposizione di chi non abbia un’attitudine agonistica: “E io mi chiedo che ci faccio su questa sedia / mentre la perfezione delle cose congiura contro di me.” Non si può sempre combattere. Bisogna pur riposare, in attesa di trovare quei varchi che, alla maniera di Montale, permettano di entrare in uno spazio di libertà e di senso: la bellezza della vita, appunto. Che però spesso mostra il suo aspetto insidioso, le sue acque piene di “filamenti letali di medusa”. La tentazione di abbandonare la lotta, quando tutto crolla, è forte, ma lo sguardo si rivolge in interiore homine per trovare nuova energia, oltre che veritas. Fuori c’è stolidità, insania, distruzione, e allora meglio rientrare in se stessi – inabissamento più che introspezione – per trovare, se non una via di salvezza, almeno un luogo in cui scomparire per qualche tempo, fino alla ripresa.
“Lo sguardo volge tenace all’interno
seppure fuori franate le torri
i muri squarciati non ceda l’inferno
se i volti fremono in abbandoni
gli uni sugli altri premono i cuori
tu confondi il tuo corpo d’aria
a passi invisibili tra la calca”
(…)
La necessità di “assaggiare l’abisso” è convinzione profonda e ribadita. Abbandonare la superficie e la superficialità è l’unica via, perché sprofondare è risalire: il cielo non è in alto, è in fondo.
“Dentro
bisogna entrare dentro (…)
sentire che si muore d’inedia
in superficie che andare verso il fondo
è risalire.”
Il tema è trattato insistentemente. Troviamo ancora:
“Tutto quello che vale
resta dentro e ha mutato
fiumi interni e vie
dell’essere e ricordi.”
(…)
Riprese le energie nel fondo di sé stessi, bisogna riemergere, bisogna attaccare il mondo che insidia l’essere. È il mondo – non la vita – la minaccia. Ne è una prova tangibile una poesia che si avvale di sonorità aspre sapientemente accostate per renderne la brutalità.
“Lo scirocco è una guerra
d’aria che mastica sabbia in rivolta
si oppone alla fretta al moto apparente
della calca a quel correre sopra sotto
o solo in tondo senza arrivare mai a niente
casomai finendo in un tonfo
ma non al fondo soltanto intorno
in un giro inconcludente.”
(…)
La calca, l’affanno, la vanità dei movimenti: tutto sa di impedimento, di impossibilità.
E poi bisogna guardarsi dai contrattacchi, dalle “intrusioni” malevole nella propria intimità, nella parte più pura di sé. Sembra proprio che, con un impressionante correlativo oggettivo, l’autrice voglia rappresentare il terrore dell’anima violata sotto le sembianze della casa in rovina:
“Ancora intrusioni di malessenza
in queste case colate di negrezza
risvegli diroccati scalinate senza più appigli
balaustre divelte ballatoi su precipizi
ramaglie invelenite occhieggiano dalle rovine
sole insegne in rigoglio pentacoli maligni.”
La musicalità dura, stridente, dei versi fa pensare all’inferno dantesco, come pure la presenza di vocaboli graffianti, uncinati. Ma l’anima, in questo paesaggio desolato e pericoloso, sa che non deve fuggire, che deve trovare il “cunicolo” da attraversare per non rimanere aggrovigliata nelle “ramaglie”. Così parla a se stessa, incoraggiandosi:
“Con il lavorio della talpa scavare cunicoli
entrare a muso basso nei nevai non sentire il gelo
degli insulti dei volti deformati alle menzogne irrigiditi”
(…)
Ma torniamo all’incipit del libro, a quel “tuttavia” capace in tutto questo di resistere, di sopravvivere trovando i “varchi” per sfuggire alle “bufere” (“Di varchi e di bufere” si intitola l’ultima sezione, forse la più scoperta, la più inerme del libro, ma anche la più stoicamente coraggiosa. Non a caso i due termini utilizzati nel titolo sono di reminiscenza montaliana). Quel “tuttavia” che denuncia una mancanza, un rimpianto, uno scontro, insieme a una accesa veglia dei sensi e della ragione e a una ferma volontà di trovare (se non nel mondo almeno nel suo nobile sostituto, la parola) quella bellezza che al termine del percorso di lettura forse sarebbe più opportuno chiamare, con un termine meno consunto e meno equivoco, intensità.
Leggere “L’inciampo” significa dunque fare esperienza dell’intensità, anche linguistica. L’opera si avvale – come scrive Gianluca D’Andrea nella prefazione – di un linguaggio “sempre generosamente propenso allo scavo, alle soluzioni verbali e ritmiche che si nutrono di una plasticità terrea”. Un linguaggio non comune, capace di creare armonia o disarmonia a seconda delle necessità, un linguaggio che l’autrice padroneggia con sapienza o al quale si abbandona a volte con una sorta di inerzia liberatoria, dipingendo – come il Caravaggio ispiratore di alcuni suoi versi – una “guerra di lume e ombra” che si riflette sul volto del lettore.

                                                                                                       Alessandro Quattrone
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DIEGO CONTICELLO PARLA, SU CARTEGGI LETTERARI, DEL PRIMO LIBRO DI DAMIANO SINFONICO, “STORIE”.

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