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ROBERTO DALL’OLIO RECENSISCE “NEL PROFUMO DELLE CATACOMBE” DI GIAN RUGGERO MANZONI.

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RECENSIONE DI ROBERTO DALL’OLIO AL LIBRO DI

GIAN RUGGERO MANZONI,

 “NEL PROFUMO DELLE CATACOMBE

 

Gianfranco Fabbri nella Prefazione al libro di poesie di Gian Ruggero Manzoni scrive a pagina 10 : “Mi viene spontaneo iniziare la mia riflessione sulla scelta dei due colori fondamentali : il bianco e il nero. Essi rappresentano, a mio avviso, i due ruoli dello Spirito. Il primo, il bianco, è quello che respinge tutte le altre <<tinte>> e rimane vuoto di ogi espressione, tanto da essere assimilato al senso della morte. Il secondo invece assorbe tutti i colori…a dispetto del buio che emana. Tra queste due atmosfere – il chiaro vuoto del nulla e il nero della narrazione esistenziale – si agita la dinamica creativa del poeta :

 

        Bianco e nero

dobbiamo risvegliare in noi

la capacità di osservare i colori

quelle sfumature

attraverso il sentimento

e il fervore..."

 

Questa traccia lasciata da Fabbri è importante e sicuramente orentativa verso un percorso dentro le viscere del testo e della poesia di Manzoni. Tuttavia a me viene altrettanto spontaneo affiancare a tale linea un altro “inizio” che si trova “fuori” dalla lingua italiana e colllocato nell’ultima pagina dell’opera. Ed è il seguente :

 

Mo ‘s ét paura d’murì?

                       S ‘tci mort la mort

                       l’è morta nenca lì.

 

Ovvero dal dialetto romagnolo :  Ma perchè hai paura di morire?/Tanto, quando sei morto, la morte/è morta anche lei.

 

La terzina è una formidabile rivisitazione del famoso detto epicureo secondo il quale non bisogna avere paura della morte poichè finchè ci siamo noi la morte non c’è e quando c’è la morte non ci siamo più noi. Nel caso del nostro invece non vale la pena di avere paura di morire , non della morte, poichè quando siamo morti la morte è morta anche lei. La morte dunque muore con noi. Noi siamo dunque un impasto di vita-morte e quando muoriamo muore dunque nche la morte. Perciò più che di dualismo tra bianco e nero mi pare di scorgere una compresenza di bianco e nero di morte e di vita con l’esito finale della scomparsa di noi e della morte. Della scomparsa? Sì dal mondo dell’apparire. Ma nel mondo dell’essere, di cui Manzoni ci parla e attraverso cui ci guida seguendo il profumo delle catacombe ricompaiono sia i viventi che la morte. Non sono dunque scomparsi in assoluto, ma sono scomparsi dall’orizzonte normale dei viventi. Essi – i morti e la morte – continuano ad essere nelle catacombe, nelle viscere della Terra, in una geopaleografia manzoniana tutta particolare che lo porta a rivisitare le città e i mondi sotterranei :

 

<<E anche il labirinto di Sant'Antioco in Sardegna,

con cinque camere e un baldacchino

sotto cui mangio e bevo vino

ammirando quei muri di granito

e il ritmo esistenziale che li tiene uniti>>. (Pag.25)

 

Ancora :

 

<<Quelle cavità scavate nel tufo

quelle grotte farcite di corpi

sono la mia dimora>>.  (Pag.29)

 

E trova in questi mondi quella compresenza di morte-vita da cui sono partito sulla falsariga della traccia di Fabbri. La morte e la vita non si staccano mai se non secondo le regole dell’apparenza. Quelle della sostanza dell’essere delle cose ce la fa “vedere” nuovamente compresenti e unite attraverso “il ritmo esistenziale” tanto da diventare una dimora, la dimora della guida , dell’esploratore, del poeta che parla. Che tace e ascolta. Che sperimenta. Che sa che : << Amoris vulnus sanat/idem qui facit>>. Pag. 80. Ovvero , la ferita dell’amore la sana colui che l’ha provocata. Questa è la verità che resta nel tempo ed esce dal tempo. La poesia che è amore nasce dal dolore, da una ferita che può essere sanata, ma non guarita credo, solo da chi l’ha provocata.

Un grande viaggio questo di Manzoni  una poesia davvero “viscerale” dove l’amore e la morte, anch’essi si ritrovano compresenti, ma con uno scatto vittorioso dell’amore che è relazione e in tale relazione di morte e vita sta la “sanità” della e dalla ferita che il tutto cioè l’amore provoca.

 

ROBERTO DALL’OLIO

 

Bentivoglio 13 agosto 2019

 

 

ALESSANDRO CANZIAN RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI FABIO MICHIELI, “DIRE”, EDIZIONE DEL 2019.

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DireFabio Michieli

Recensione di Alessandro Canzian apparsa sul blog Laboratoripoesia.it

 

Esce, in versione riveduta e accresciuta, Dire di Fabio Michieli. La prima edizione è del 2008, la seconda del 2019. Undici anni di distanza per un libro complesso, vissuto, sofferto. Ed è lo stesso Michieli a spiegarcene i motivi in una nota a fine libro:

 

Qualcosa era rimasto sospeso; qualcosa era rimasto nella carta, e la carta tardava a ritornare bianca. Riprendere in mano Dire e le carte espunte, con le poesie espunte, però, non bastava. Non bastava sistemare certi versi zoppi, stanchi. Quel discorso, quel dialogo – questo discorso, questo dialogo – erano continuati negli anni: attraverso la lettura di altra poesia, attraverso la scrittura di nuove poesie; attraverso le persone perdute, attraverso le persone incontrate. Solo che i miei tempi non conoscono la parola urgenza; i miei tempi si dilatano; chiedono tempo per comprendere, per elaborare e rielaborare. E quando è il lutto a dover essere elaborato, ogni tempo si sospende da sé. E io ne divento lo strumento.

Avevo lasciato sospeso il discorso con me stesso e il percorso che mi ha portato a essere la persona che sono. Avevo iniziato tardi un dialogo, fatto anche di ascolti e di silenzi, con mio padre, con le mie radici di uomo. E quel nostro dialogo è stato rubato dalla sua malattia.

Ho cercato allora le tracce lontane e dato voce a ciò che lentamente riemergeva, insieme al nuovo.

Dire è un discorso su ciò che ci si lascia alle spalle e su ciò che ci si porta avanti, per proiettarlo nel futuro.

Ho perciò recuperato alcune poesie che alla prima pubblicazione di questo libro non sentivo necessarie, e che invece ora hanno quel senso che prima non ritrovavo.

Ho aggiunto la seconda parte del dialogo, un dialogo che inevitabilmente è diventato un dialogo in mortem. Ma tra le righe di questo dialogare con mio padre si è innestato un terzo dialogo: quello con l’amore ritrovato, permettendomi di offrire un controcanto alle poesie della prima parte, del primo Dire che riecheggiavano dell’amore perduto.

La linea che ha tracciato la mia vita fino a questo punto non ha chiuso alcun cerchio; ha trovato la spinta per aiutarmi a portare un bagaglio più ricco.

 

Undici anni per concludere un dialogo d’addio che in virtù del suo essere commiato si scopre essere anche apertura ad altro. Perché inevitabilmente nella vita il gesto psicologico di salutare una persona cara che se ne va (o che se ne è andata) è il medesimo che facciamo nell’accogliere una persona altra, una differenza, che però è possibile grazie a quanto avvenuto prima. Come a dire che è necessario seppellire un seme per poter vedere la nascita di un fiore. Fiore che ha nella sua natura non solo il seme, ma anche il nostro commiato al seme stesso.

Michieli ha un pregio che chi vi scrive giustifica (avendolo conosciuto un poco e avendo chiacchierato di fronte a una pizza con lui, una sera) con un suo severo percorso di studi e formazione. Ha il pregio del tempo, e il suo senso. Ha il privilegio della lentezza e dell’attesa. Undici anni utili non solo a rielaborare un lutto, ma anche a interpretare un incontro con gli strumenti dati dal lutto.

Perché Dire è un libro che tratta di un padre che viene a mancare, che dialoga con lui pre e post mortem, che tratta di un amore perduto e trovato, e di nebbia, e di Venezia. Nella prefazione alla prima edizione Augusto De Molo scriveva:

 

Questa raccolta nasce – per me che leggo – sotto il segno di Orfeo e di Euridice. Il mito antico è noto e raccontato dai Classici tra i quali Virgilio nel quarto libro delle sue Georgiche. Così rievoca il mito il grande poeta latino: il pastore Aristeo ha provocato involontariamente la morte di Euridice, sposa di Orfeo (nel mito greco primo grandissimo poeta): sconvolto, il poeta discende agli Inferi e col suo canto, dopo aver placato le anime affannate, ottiene da Plutone, su intercessione di Proserpina, di poter riportare nel mondo dei vivi la sua sposa. Dovrà solo evitare, durante il viaggio di ritorno, di volgersi a guardare Euridice che lo segue. Purtroppo, temendo che lei non lo segua, Orfeo si volge e con quel gesto risospinge l’amata nell’Ade. Il poeta, che placa il dolore col canto e potrebbe salvare persino dalle tenebre dell’Inferno chi ama, non sa resistere (Virgilio scrive victus animi)…

Una tragedia di amore e morte certamente ma anche un’allegoria della potenza salvifica del canto ed anche l’origine prima di quei culti, detti orfici, che costituirono una religione della morte e della rinascita assai diffusa nel Mondo Antico.

 

Mentre nella prefazione alla seconda edizione Gianfranco Fabbri scrive:

 

Esce, arricchita di qualche testo in più, una delle raccolte più belle del catalogo Arcolaio. Sto alludendo a Dire, il primo libro pubblicato da Fabio Michieli per la nostra casa editrice; un lavoro che, per la sua levigatezza e per le sue chiare atmosfere novecentesche (ma non solo), ebbe la strada aperta a una delle collane più rappresentative, «I codici del ’900». Ora questo gioiellino compie un passo avanti e, così rifocillato da qualche cosmetico nutriente, fa il proprio ingresso ne «La costruzione del verso». Nella prima edizione mi ero affidato del tutto alla bella e convincente postfazione di Augusto De Molo, il professore forlivese che con la sua nota raffinatezza e perizia aveva a ragion veduta incentrato il tema sul mito di Orfeo ed Euridice. Naturalmente, tutto stava e veniva legato con una logica che ancora oggi ci fa ammirare il valente letterato. Rileggendo, in questi giorni, il Dire di Fabio ho sbandato completamente dall’antico punto di vista e ho optato per quest’altro, che mi fa vedere il poeta come il titolare di due entità psicologiche e linguistiche, che pure entra nella coppia dei due personaggi del mito. Si tratta del Narrante e del proprio femminino. Il mito viene genialmente ribaltato da Michieli per una ragione a me chiara: l’allontanamento delle due parti linguistiche dell’artista, giacché la vicinanza delle due energie lo farebbe sentire troppo concluso e completo.

 

Vorrei soffermarmi in particolar modo sulla figura di Orfeo ed Euridice che nella sostanza del mito portano ad alcuni (in questo spazio non si possono esaminare certamente tutti) percorsi intertestuali presenti nel libro. Orfeo perde Euridice e resta incompleto di lei. Resta mancante di un suo pezzo di vita. Nello specifico i testi che hanno un dichiarato riferimento sono:

 

 

(Orfeo a Euridice)

 

superai il corpo e il salto mi portò

oltre l’ombra accasciatasi sul suolo

dove nera svaniva anche l’attesa…

 

ma tu continua a non temere il salto

che mi inselva oltre il limite concesso,

ora che dal Lete pura risorgi

 

** 

 

 

 

 

(Euridice a Orfeo)

 

voltati e guardami! sei tu, sono io

 

mi interroga il silenzio disceso come nube

a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –

 

sì, voltati e guardami! io ti supplico:

 

spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!

annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami

 

 

Euridice chiede l’annientamento, chiede il dissolvimento che è consapevolezza della perdita. E dell’incertezza. Perché a ben vedere Dire di Fabio Michieli è un continuo argomentare su questi due concetti (perdita e incertezza) che si appoggia su alcune immagini/chiave ricorrenti. E che usa il dire, lo scrivere, per comprendere e rielaborare nella convinzione (oggi assolutamente inattuale) che dire qualcosa sia comprenderlo. Non a caso poc’anzi affermavo che a mio avviso Michieli molto deve al rigore dei suoi studi universitari.

Una delle ricorrenze che più colpiscono, e che tracciano un percorso in questo status di perdita e incertezza dell’autore, è il bianco (e più estesamente il colore). Si vedano ad esempio i testi di cui voglio indicare anche il numero di pagina per facilitarne la rintracciabilità:

 

 

Dicatum

 

volevo un libro chiaro per noi due:

una pagina bianca – quasi pura

 

(pag.19)

 

 **

a mamma

 

tingerò d’amaranto questi versi

perché tu possa scorgerli lontani

quando la luce imbruna il cielo a sera

 

(Pag.33)

 

 **

 

ah, bramerei soccorrerti a ogni ingiuria

se non fosse che a te io grido aiuto –

 

ma la sabbia biancheggia arida al vento

mentre tendo le mani per difendermi

dallo schianto col tempo qui caduto

da una clessidra rottasi al minuto:

 

la vita che non chiesi ma divenne

consegno ora al destino che mi spetta

 

(pag.38)

 

 **

(Orfeo a Euridice)

 

superai il corpo e il salto mi portò

oltre l’ombra accasciatasi sul suolo

dove nera svaniva anche l’attesa…

 

ma tu continua a non temere il salto

che mi inselva oltre il limite concesso,

ora che dal Lete pura risorgi

 

(pag.42)

 

**  

Tarocchi

 

si sciolgono i colori come i modi

incerti che non sanno più predire –

 

incredulo mi rimira l’Appeso

mentre le nubi abbuiano la Notte

 

(pag.51)

 

** 

Ad A. C.

 

se è il dolore di me che ti spaventa

non ha colpa la mia poesia:

la vita

a volte si fa nera nell’inchiostro

più del nero che incrosta sulla carta

 

ma la luce che filtra dalla grana

dice a me – nel silenzio – tutto il bello

 

(pag.55)

 

** 

quanti sono gli ulisse che si possono

scorgere per altrettante odissee?

 

già… perché si sa nati no non fummo

per ogni iniquità né diventammo

per scelta ciò che ora sembra siamo –

 

eppure si è, e si è sempre più

a brani come su sfatte pareti –

 

di noi per ogni strada bianca effige

la calce a terra, pesta dignità

 

(pag.61)

 

 **

d’un tratto spostare lo sguardo verso

la finestra e vedere fiocchi scendere

tra il verde dell’alta magnolia –

 

è il terzo giorno più freddo d’inverno:

mi sorprende la neve

mentre ciò che la lingua non sa dire

è bianco di dolore

 

(pag. 65)

 

**

Caravaggio

 

ora il gemito sborda, quasi slabbra

la coltre di polvere rissosa

 

tra le spire di luce si profila

l’immagine ricolma di terreno

amore e il santo non basta a salvare

il mandato –

 

l’uomo è il suo centro, il mondo:

il nero avvolto nella cupa macchia

 

(pag.84)

 

** 

qui sulla riva dove vira il fiume

coloreranno le foglie l’autunno

 

sopra un cielo di nubi, e l’orizzonte

teso davanti a fermare i colori

 

per questa pagina tornata bianca

 

(pag.85)

 

** 

La pagina bianca del primissimo testo si lega a due elementi fondamentali: alla chiarezza (volevo un libro chiaro) e alla purezza (quasi pura). Quest’ultimo non a caso ricorre anche nel testo di Orfeo a Euridice:

 

 

ma tu continua a non temere il salto

che mi inselva oltre il limite concesso,

ora che dal Lete pura risorgi

 

 

La qual cosa ridefinisce il significato di quella pagina bianca, pura quanto Euridice che risorge dal Lete dal punto di vista di Orfeo. Un canto, un dire, una poesia che ha l’ardire di trarre dall’oblio non solo l’altro ma anche il sé (un libro chiaro per noi due) pur nella sottointesa consapevolezza che non avverrà l’esito cercato (Euridice tornerà negli Inferi).

Affrontando invece la questione dal punto di vista del colore, che nel testo iniziale è indicato col bianco, leggiamo, oltre al riferimento alla madre in tingerò d’amaranto questi versi / perché tu possa scorgerli lontani / quando la luce imbruna il cielo a sera, un’invocazione particolarmente accorata:

 

 

ma la sabbia biancheggia arida al vento

mentre tendo le mani per difendermi

dallo schianto col tempo qui caduto

da una clessidra rottasi al minuto:

 

la vita che non chiesi ma divenne

consegno ora al destino che mi spetta.

 

 

Il bianco, inizialmente desiderio di purezza, pacificazione, scrittura, diventa cornice di una presa di coscienza di una vita che mi spetta quasi come condanna. Diventa contesto e simbolo dell’inesorabilità delle cose. Dove l’accettazione si oppone all’attesa che è comunque desiderio, speranza. Infatti, nel succitato testo di Orfeo ad Euridice, si legge:

 

 

oltre l’ombra accasciatasi sul suolo

dove nera svaniva anche l’attesa…

 

 

L’attesa è indicata col colore nero, opposizione chiara al biancheggiare della sabbia dov’è la vita che ci spetta.

Continuando nella lettura leggiamo si sciolgono i colori come i modi / incerti che non sanno più predire. Non basta prendere atto della vita che non chiesi ma divenne per accettare l’incertezza di un futuro imprevedibile, terribile in qualche modo nel suo essere sconosciuto e passibile di drammi. E il tempo sconosciuto che sta per arrivare Michieli lo affronta appellandosi ad esempio a Ulisse, dove:

 

 

quanti sono gli ulisse che si possono

scorgere per altrettante odissee?

[…]

di noi per ogni strada bianca effige

la calce a terra, pesta dignità

 

 

Non possiamo non notare che la sabbia che biancheggia del testo precedente qui diviene un percorso dichiaratamente dantesco (dalla citazione) che si interseca con l’altro concetto del medesimo testo: il diventare qualcosa che non ci si aspettava. E i due testi in effetti appaiono estremamente interconnessi nonostante la distanza nel libro (pag 38 e pagina 61):

 

 

ah, bramerei soccorrerti a ogni ingiuria

se non fosse che a te io grido aiuto –

 

ma la sabbia biancheggia arida al vento

mentre tendo le mani per difendermi

dallo schianto col tempo qui caduto

da una clessidra rottasi al minuto:

 

la vita che non chiesi ma divenne

consegno ora al destino che mi spetta

 

quanti sono gli ulisse che si possono

scorgere per altrettante odissee?

 

già… perché si sa nati no non fummo

per ogni iniquità né diventammo

per scelta ciò che ora sembra siamo –

 

eppure si è, e si è sempre più

a brani come su sfatte pareti –

 

di noi per ogni strada bianca effige

la calce a terra, pesta dignità

 

 

Proseguendo troviamo un’ulteriore definizione, ancor più emblematica e interconnessa, del significato del colore bianco:

 

è il terzo giorno più freddo d’inverno:

mi sorprende la neve

mentre ciò che la lingua non sa dire

è bianco di dolore

 

 

Impossibile non notare che il libro chiaro per noi due: / una pagina bianca – quasi pura ora diventa un ciò che la lingua non sa dire / è bianco di dolore. Una resa all’indicibilità nell’accezione fondamentale data con l’immagine precedente di Orfeo ed Euridice. Dire non trattiene più. Resta il dolore che nasce da un percorso di consapevolezza che diventiamo altro da ciò che volevamo, che ci aspettavamo, attraverso un percorso imperscrutabile (i Tarocchi) che aspira ad essere di conoscenza (Ulisse) ma non fa altro che produrre dolore, un bianco di dolore che identifica il sé di fronte al verde dell’alta magnolia.

Procedendo ulteriormente ritroviamo l’opposizione al bianco in Caravaggio dove l’uomo è il suo centro, il mondo: / il nero avvolto nella cupa macchia. E non possiamo non notare gli altri riferimenti al nero (che già prima avevo suggerito) per meglio comprendere questo concetto:

 

 

la vita

a volte si fa nera nell’inchiostro

più del nero che incrosta sulla carta

 

superai il corpo e il salto mi portò

oltre l’ombra accasciatasi sul suolo

dove nera svaniva anche l’attesa…

 

 

Se il bianco indica un’aspirazione, un desiderio poi deluso ed osteggiato da una vita che prosegue sostanzialmente in maniera altra rispetto all’uomo, e lo cambia, trasformando la vita in un qualcosa di imperscrutabile e inconoscibile nel tempo, un viaggio di conoscenza difficile, aspro e doloroso, il nero è una forma di incrostazione, di staticità, quasi a dire che l’incertezza implicita nel bianco è paradossalmente migliore.

Conclude l’opera un testo estremamente emblematico e definitivo per l’analisi qui riportata:

 

 

qui sulla riva dove vira il fiume

coloreranno le foglie l’autunno

 

sopra un cielo di nubi, e l’orizzonte

teso davanti a fermare i colori

 

per questa pagina tornata bianca

 

 

La pagina è tornata bianca è un’affermazione che include tutto il percorso esaminato attraverso le varie sfaccettature di utilizzo del bianco. Un bianco che non è più un desiderio di chiarezza e purezza, ma un’accettazione dell’incertezza della vita, del dramma, del percorso. Quasi a dire che bisogna perdersi per ritrovarsi e che l’unica possibilità per la pagina d’essere bianca non è un suo esserlo già, ma un suo tornare ad esserlo.

Testo che inoltre si lega all’immagine dei colori (si vedano i diversi colori citati in tutta l’opera), delle foglie (ad es. le foglie già da tempo marce al suolo / avidamente attendono lo schianto o oggi che il giorno arretra / tra il tempo e queste foglie), ma soprattutto del fiume. Leggiamo infatti:

 

 

(discende ancora nebbia…)

 

mi smarrisco ora

senza sapere quanto.

Alessandro Brusa

sagome nella nebbia – forse gondole –

nel punto dove il fiume curva a destra

e prende la rincorsa per la foce…

 

di più non vedo da questo finestrino,

mentre conto le sillabe che ci

separano nei versi di un amico

 

 

E il già citato Orfeo ad Euridice dove Euridice risorge dal fiume Lete. Questo per dire che la pagina tornata bianca è la certezza acquisita dell’essere umano nonostante la vita. In un libro umanissimo dove Michieli si riferisce al padre, alla madre, ad un amore perso, ritrovato, a un lutto, resta la consapevolezza della propria esistenza e la necessità di impararla, di accettarla, al fine di ottenere quella pacificazione e apertura auspicate inizialmente ma parzialmente ottenute (parzialmente, si legga la nota conclusiva dell’autore) attraverso un percorso inaspettato, non voluto ma più vivo e vero.

Perché non tutto è come noi vorremmo, ma spesso quello che accade ci forma e si trasforma in qualcosa di più di quello che noi stessi potevamo inizialmente comprendere.

Ringrazio infine l’autore per il gentile ringraziamento che ha voluto porgermi nel libro per quei due piccoli consigli dati assieme a Anna Maria Curci, Alessandro Brusa, Francesco Filia e Cristiano Poletti.

 

Alessandro Canzian

 

 

 

 

MARCO MOLINARI, SU MANTOVA POESIA, RECENSISCE L’ULTIMO LIBRO DI MAURO GERMANI: “LA PAROLA E L’ABBANDONO”.

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Recensione di Marco Molinari al libro di Mauro GermaniLa parola e l’abbandono

Articolo tratto da Mantova Poesia

 

Mauro Germani vive a Bresso in provincia di Milano, è poeta, critico, animatore di un’importante rivista culturale, “Margo”, ora sfociata in un blog, ed è sicuramente uno di quegli autori che ha dato di più alla poesia rispetto a quanto ha ricevuto. È appena uscito il suo ultimo lavoro, “La parola e l’abbandono”, edito da L’arcolaio: riflessioni, aforismi e massime raccolti in un trentennio, che hanno al centro il rapporto stretto fra vita e poesia, i contributi dei grandi autori che ha amorevolmente coltivato e, soprattutto, un’etica della scrittura che per lui è stata importante forse quanto lo stesso fare poetico. Questo imperativo morale si è riassunto in una ricerca inflessibile di una parola sincera che non ha altri scopi al di fuori dell’opera, che deve dire tutto, anche oltre quello che il poeta conosce, e, infine, non arretrare davanti alla verità, pure scomoda o drammatica. Come ben sintetizzato in quarta di copertina, “…nella misura esatta della brevità si profila ovunque una parola che appare sospesa ‘tra la vita e la morte’ e che attesta drammaticamente la propria solitudine ed il proprio abbandono nel mondo”. Questi pensieri, sedimentati negli anni, hanno alcune direttrici o ossessioni che hanno caratterizzato la scrittura di Germani. Una di queste è, appunto, la solitudine. Si legga questo aforisma fulminante: “Il poeta non è solo quando scrive: È tremendamente solo dopo”. Le stesse parole, fedeli compagne durante l’atto creativo, una volta staccatesi dall’autore, soffrono della stessa indifferenza: “Le parole che abbiamo scritto scompaiono, ritornano, spariscono di nuovo. Sono lontane. Sono sole. Sono senza di noi”. Altri temi che percorrono il libro sono il male, la malattia e la morte. Di fronte a loro, l’autore si pone con la coscienza dell’ineluttabilità del nulla che ci circonda e a cui siamo destinati, però senza disperazione e isteria, anzi sono queste le righe in cui spira più forte il sentimento poetico, dove la fredda analisi cede a una sottile dolcezza. Ci sono poi ricordi d’infanzia e della giovinezza, le case in cui ha vissuto, e, sorprendentemente, per un autore in cui è forte il senso del sacro, ma sempre con uno sguardo laico, alcune riflessioni sulla Chiesa, per lamentarne la perduta purezza e la vocazione di essere accanto agli ultimi. Come si può ben capire, gli aforismi raccolti da Germani rifuggono dall’ironia e dall’osservazione sagace, ma nel mettere a nudo se stesso, come scrittore e cittadino, ci mettono davanti alle crude verità che dobbiamo affrontare se non vogliamo essere inautentici, ma come lui onesti fino in fondo: “Noi scriviamo il nostro naufragio, ed il libro – come ha affermato Sergio Quinzio – è il messaggio nella bottiglia che affidiamo al mare in burrasca”.

 

MARCO MOLINARI

L’ULTIMA USCITA DELLA STAGIONE 2018-19: UNA TRADUZIONE E UNO STUDIO DI LORENZO MARI SU “SONETTI TEOLOGICI” DELL’AUTORE SPAGNOLO AGUSTIN GARCIA CALVO.

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SONETTI TEOLOGICI” TRADUZIONE E CURA DI LORENZO MARI. DUE SONETTI DEL COMPIANTO AGUSTIN GARCIA CALVO (Zamora, 1926-2012).

 

La bio-bibliografia di Calvo:

Agustín García Calvo (Zamora, 1926 – 2012) è stato un filologo, poeta e filosofo spagnolo. Ha pubblicato alcuni importanti studi di linguistica generale (Hablando de lo que habla, del 1990, ha ricevuto il Premio Nacional de Ensayo) e numerose opere teatrali (La baraja del rey Don Pedro, del 2006, ha ricevuto il Premio Nacional de Literatura Dramática) e in versi. È anche autore di varie traduzioni di autori classici e moderni, da Lucrezio e Catullo a William Shakespeare e Giuseppe Gioacchino Belli. Fondatore della casa editrice Lucina e animatore di un longevo circolo culturale a Madrid, è stato protagonista di una lunga attività poetica e politica insieme alla compagna, la poetessa Isabel Escudero (1944 – 2017). Questa è la sua seconda traduzione in italiano, dopo “Della felicità”, pubblicato Ortica editrice, Aprilia (Lt), nel corso di questo stesso anno.

 

I due sonetti:

I

Inorgoglisciti della sconfitta,

che limpida l’impresa sottintende:

luce che di notte prospera, rende

più spessa l’ombra, e forse più invitta.

 

Dio non volle al tuo passo fretta,

già solo aver provato lo molesta;

che tu inciampassi e cadessi, codesta

di Dio è giustizia: non darle retta.

 

O cieco, per quel che trionfo e ottengo

mi nomini e ami?: io mi trattengo,

e in quello specchio non mi riconosco.

 

Sono l’atto di rompere l’essenza:

sono quel che non sono. Non conosco

via alla virtù se non l’impotenza.

**

II

Ma non cedere; perché non è noto

quando perda l’amor, dove la terra

vada ruotando, o quel che rinserra

il messaggio che per nessuno ha chiave.

 

Ché il Libro Mastro (è questo a esser grave)

del Dare e dell’Avere mai si serra,

e forse l’azzecca chi caparbio erra;

e nulla è il mondo finché è ancora in moto.

 

Se ti dicono che Dio è infinito

di’ allora che non è; e se è finito,

che lo mostri dunque e chiuda le porte.

 

Non c’è Dio o Legge che in contradanza

non si balli. Tua è la tua morte.

Il non sapere è la tua speranza.

 

L’apparato critico lo lascio come una sorpresa.

Il tutto è a cura del nostro Lorenzo Mari