Home

FEDERICO MIGLIORATI RECENSISCE “IL TEMPO DEL CONSISTERE” DI GIANFRANCO FABBRI.

Lascia un commento

IL TEMPO DEL CONSISTERE”, ‘ZIBALDONE’ DELL’EDITORE E POETA GIANFRANCO FABBRI

Terra di poeti, scrittori e artisti, la Romagna si conferma come un mondo fecondo anche per l’editoria: tra le realtà di settore che da tempo si mantengono attive su un mercato dominato sempre più da colossi inarrivabili c’è L’Arcolaio, vivace luogo creatore di cultura fondato nel 2008 a Forlimpopoli da un coraggioso Gianfranco Fabbri che ne è direttore editoriale oltre che scrittore di versi egli stesso. Qualche tempo fa ad arricchire la sua produzione si è aggiunto un libretto agile e scanzonato suddiviso in cinque sezioni che “vive” di quotidianità: si sviluppa tra prosa e poesia, in un mix ben congegnato, “Il tempo del consistere” (110 pagine, 12 euro), percorso a più livelli nel quale si assommano, sedimentati nella memoria, esperienze sentimentali e impegni culturali, divagazioni sull’attualità con il richiamo alla strage di Bologna, tra gli altri, e immersioni nel ricordo sovente nostalgico e cinico, il tutto reso con uno stile sobrio ed elegante. Fabbri non ha paura di mostrare il sé più nascosto, magari mentre è in viaggio su un treno nel ritorno a casa o nell’atto di riprendere il filo interrotto dei classici della letteratura, sdimentico talvolta di dare sfogo alla scrittura, pigrizia vinta da qualche guizzo della mente. “Quando scrivo penetro in uno stato di allerta”, afferma, ed è forse proprio questa momentanea tensione, questa paura (una delle tante ché “non si finirebbe mai ad elencarle, le paure”), ma altresì questo “esatto momento dell’estasi” a rendere frizzanti e originali i testi che si astraggono da un puro autobiografismo per assurgere a testimoni di un’epoca, di un periodo di vita, minima moralia di una certa consistenza, per recuperare il significato del titolo del volume. “L’alternanza tra armonia e disarmonia del vivere è l’essenza del consistere”, sostiene la curatrice dell’opera Enza Valpiani nella nota critica presente in quarta di copertina. Accanto alle riflessioni personali emergono altresì sferzanti aforismi che nascono da letture colte per distendersi sulla carta nel loro nitore, in una pura sincerità. Sullo schermo della mente si affastellano Caravaggio e Dostoevskij, Picasso e Sant’Agostino, Kafka e i Formalisti Russi, un caleidoscopio di colori, sensazioni, trame, personaggi, figure che hanno riempito quell’alba di un nuovo mondo, l’editoria, affrontato da Fabbri una decina di anni dopo questa sua produzione letteraria. Oggi L’Arcolaio può contare su una decina di collane con titoli selezionati con cura da Fabbri e dai suoi collaboratori.

UN POETA NUOVO PER LA CASA EDITRICE L’ARCOLAIO. SI TRATTA DI ALESSANDRO BELLASIO CON IL SUO ULTIMO LIBRO INTITOLATO “MONADE”.

Lascia un commento

Un nuovo e gradito arrivo in Casa Arcolaio. Si tratta del poeta milanese Alessandro Bellasio e del suo secondo libro dal suggestivo titolo, “Monade“. Un’opera questa che va a proporre il significato Monade come elemento umano che vive, basilare ed elementare, nella propria solitudine, nel proprio isolamento. Naturalmente si soppesa la parola nel solo senso psicologico. Il libro di Alessandro pare, a mio avviso (ma posso sbagliare) lo stato più remoto dell’essere umano, nell’ambito “lontano da chiunque” dove il dolore e la solenne sofferenza incitano a scrivere il protocollo clinico dell’evento “malattia”, attraverso la quale riprendersi la propria dignità e quindi la sovranità completa.

Ma lasciamo che Bellasio, in pochissime righe, parli di questo suo splendido lavoro nel tentativo di fornire al lettore un punto di vista che aiuti a comprendere il senso profondo di questo suo libro.

Monade: un libro ripido e brevissimo, appena quindici testi, scarne e frante distillazioni sopravvissute all’incessante sterminio di stesure di cui è fatta non solo la poesia, ma la stessa esistenza. A suo modo, un «poema della fine» e forse, come ha scritto una volta un grande poeta, dell’«infinita fine» che è la nostra vita“.

Ecco adesso alcuni testi:

Da “Creatura

Airone

…all’indietro
tu ci indichi.

In te
è il pensiero, l’assoluta
venatura il
soffio
di potente tremito –
veramente interno
placet che sancisce il nulla.

Ma torna, adesso
torna – metà indiviso e metà nel tempo –
tutto un sibilo
lungo la creatura, sempre
la stessa sete
a perpendicolo, l’inestinguibile
di noi una
candelina
eternamente accesa quando accade – queste
periferie
di psicosi e asfalto
che nessuna vita
potrà mai eludere…

Cancellarsi
è arduo
.

Gli anestetici
oscillano sul manico e
anche
questo misurino
si fa varco e duro
abisso della conoscenza,
regalando gocce
senza sole, il grande
viale rallentato
di schegge e camion
che mi fu vertebra, mi fu
padre.

Talvolta un’ora, e tu esisti.
Il resto
è ciò che accade.

***

Da Incubatrice

Nell’ambra

Sepolti

sotto queste bende, dove

il nostro odio

tende il filo e si fa pensiero, verklärte Nacht

di un mercurio strano

che ci divora con i suoi granelli, una

pioggia

leggera e già inalata, che anche tu

misurasti a morte con il tuo respiro:

sei nell’ambra.

«Due grammi

di astinenza mutano

la mente in una torcia, scavano

con unghie vuote

dentro il sonno, e tu

sotterrato il lume

ti scopri da te stesso arato».

Gli occhi, talvolta, hanno mani,

entrano nei faggi

radunandone i magneti

mappano

la struttura del vento.

Una vertigine, perenne,

scendendo dalla macchina

spegne i fari, avvicinandosi

con un solo passo

mi sussurra

Non avrò

in questa vita mai

altra gioia

all’infuori di te

***

Da Invasione

Cieli clinici (parziale)

                               A Ro… a Carlo, a Silvia, ad Angelo

Non ricordo. C’è stato
lo svenire di una fronte, un impazzare
di voci, un grande andirivieni… misurini, contagocce,
analisi… L’ora, squarciata,
di una morte che fermenta
in accelerazione verso il cristo.
Non ricordo.
Sono stata, da molto tempo,
trasportata, lungo una città
ravvicinata, in alto, tra i suoi cieli di ambulanze.
Ho
varcato
di me qualcosa, una voce
segreta, ignota – una
cosa
irrespirabile
sprofondata dentro me,
da molto, da prima – ma
piantata in alto, fra le sirene…
Sono stata
asciugata, da qualche parte, nei secoli,
un pomeriggio di novembre – è
semplice, vedete, mi hanno messo un camice,
ecco, mi hanno
mandata a chiamare.


*

Mi hanno appoggiata su una garza.
Io pendevo, nascosta fra i capelli
ho, da lontanissimo,
chiamato un fazzoletto. È
questo
il reparto, la voragine
da dove decantare tramortiti. Ho
invocato il sonno, la puntura
che contiene il buio, un grammo
di notte, la cattura.
Sto distesa… Sento, forte,
la mia carne, il lungo
muggito che mi serra – la mia vita
inchiodata in me, gli aghi.
Non mi muovo.
Affondo, qui, da qualche parte
al di sopra o
al di sotto (non so più)
di me. Scorgo
il mio respiro;
non lo inseguo.
Capisco.

*

Forse già da prima
io da molto non esistevo più. Mi domando
da dove mi sia giunto
questo coma, da quale piano, da quale
disastrato cielo
esso si sia abbattuto in me…
Mi cerco
tra queste gocce, nel dosaggio, forse
in un rigo del referto, sì,
in un bicchiere
di latte tiepido.
Tosse, bisogno, piastrelle… Non esiste altro.
Lo sento.

*

Volata via… sono rimaste
le cartelle cliniche, gli infermieri,
l’ininterrotto
pattugliamento
di farmaci
venuti per sedare il mio cervello.
Sono
veri
gli spettri dove esisto, attraversata da una mente
che è iniziata con un grido. Da qualche parte.
Vicinissimo… La luce
scende
sui letti addormentati – tutto è fermo,
colpito
da oltre, da prima
di me. Ne riconosco il livido, l’odore.

*

Non avrà mai fine. Io
so
da dove sale questo ossido, da dove
cresce
il tumulto dei degenti in questa mensa,
l’insonnia
violenta
che respira sotterrata in noi. Ne reco,
da sempre, in me il tremore, lo
sfregio interno, l’abrasione… Io,
di me che sono
metà spezzata
di me

Entrano – da non so dove –
e li osservo
abbottonarsi un camice, un bianco
sporco, duplicato – ci porgono
un bicchierino, l’acqua le
pastiglie
con cui sopire piano questo esistere.
Spengono
le luci, chiudono
gli accessi al corridoio, le
finestre, i varchi… Dalla vita
nessuno
è mai più tornato.

*

Più niente. Mi hanno
sollevata dal mio corpo, destituita –
sono stata, per sempre,
abrogata. Più
niente.
Colano, adesso,
liquidi
da una conduttura dentro me
Non ho
niente, non sono
niente
che possa avversare questo squarcio, quella
breccia scoperchiata in fondo a me.
Mi pesa
nella mente questo affanno, mi fende mi
incrina.
Qualcosa
che si inarca dove grida, si piega
sotto il trave
del suo svanire – davvero terribilmente
cigola.
La fatica, come il tempo,
scava l’essere.

*

Avrei voluto gettarmi
da un palazzo di novanta piani, volare
a capofitto in questa aria
che non riesco adesso a respirare… Assisto, invece,
alla mia fine, la comprendo, ecco – guardo
entrare i palliativi, i
contagocce che mi chiamano
nel decubito da esistere.

Datemi, presto!, una maniglia, una
porta che io apra, un’uscita, sì – 
uno strattone
che mi estirpi per sempre dal decorso…
Forse la caldaia, ecco!, la caldaia
vecchissima a niguarda
esploderà stanotte, annientando questo trauma.

(…)

Note sul poeta

Alessandro Bellasio (Milano, 1986) ha pubblicato la raccolta di poesie Nel tempo e nell’urto (LietoColle – pordenonelegge, 2017).
Una scelta di testi è stata inclusa nell’antologia Giovane poesia italiana (Fondazione pordenonelegge, 2019), tradotta in inglese, tedesco, spagnolo e francese.
Si è occupato dei classici dell’espressionismo (G. Benn, G. Trakl, G. Heym) con brevi profili critici e traduzioni.
Collabora con il sito di poesia della Rai.