“IL TEMPO DEL CONSISTERE”, ‘ZIBALDONE’ DELL’EDITORE E POETA GIANFRANCO FABBRI
Terra di poeti, scrittori e artisti, la Romagna si conferma come un mondo fecondo anche per l’editoria: tra le realtà di settore che da tempo si mantengono attive su un mercato dominato sempre più da colossi inarrivabili c’è L’Arcolaio, vivace luogo creatore di cultura fondato nel 2008 a Forlimpopoli da un coraggioso Gianfranco Fabbri che ne è direttore editoriale oltre che scrittore di versi egli stesso. Qualche tempo fa ad arricchire la sua produzione si è aggiunto un libretto agile e scanzonato suddiviso in cinque sezioni che “vive” di quotidianità: si sviluppa tra prosa e poesia, in un mix ben congegnato, “Il tempo del consistere” (110 pagine, 12 euro), percorso a più livelli nel quale si assommano, sedimentati nella memoria, esperienze sentimentali e impegni culturali, divagazioni sull’attualità con il richiamo alla strage di Bologna, tra gli altri, e immersioni nel ricordo sovente nostalgico e cinico, il tutto reso con uno stile sobrio ed elegante. Fabbri non ha paura di mostrare il sé più nascosto, magari mentre è in viaggio su un treno nel ritorno a casa o nell’atto di riprendere il filo interrotto dei classici della letteratura, sdimentico talvolta di dare sfogo alla scrittura, pigrizia vinta da qualche guizzo della mente. “Quando scrivo penetro in uno stato di allerta”, afferma, ed è forse proprio questa momentanea tensione, questa paura (una delle tante ché “non si finirebbe mai ad elencarle, le paure”), ma altresì questo “esatto momento dell’estasi” a rendere frizzanti e originali i testi che si astraggono da un puro autobiografismo per assurgere a testimoni di un’epoca, di un periodo di vita, minima moralia di una certa consistenza, per recuperare il significato del titolo del volume. “L’alternanza tra armonia e disarmonia del vivere è l’essenza del consistere”, sostiene la curatrice dell’opera Enza Valpiani nella nota critica presente in quarta di copertina. Accanto alle riflessioni personali emergono altresì sferzanti aforismi che nascono da letture colte per distendersi sulla carta nel loro nitore, in una pura sincerità. Sullo schermo della mente si affastellano Caravaggio e Dostoevskij, Picasso e Sant’Agostino, Kafka e i Formalisti Russi, un caleidoscopio di colori, sensazioni, trame, personaggi, figure che hanno riempito quell’alba di un nuovo mondo, l’editoria, affrontato da Fabbri una decina di anni dopo questa sua produzione letteraria. Oggi L’Arcolaio può contare su una decina di collane con titoli selezionati con cura da Fabbri e dai suoi collaboratori.
Un nuovo e gradito arrivo in Casa Arcolaio. Si tratta del poeta milaneseAlessandro Bellasio e del suo secondo libro dal suggestivo titolo, “Monade“. Un’opera questa che va a proporre il significato Monade come elemento umano che vive, basilare ed elementare, nella propria solitudine, nel proprio isolamento. Naturalmente si soppesa la parola nel solo senso psicologico. Il libro di Alessandro pare, a mio avviso (ma posso sbagliare) lo stato più remoto dell’essere umano, nell’ambito “lontano da chiunque” dove il dolore e la solenne sofferenza incitano a scrivere il protocollo clinico dell’evento “malattia”, attraverso la quale riprendersi la propria dignità e quindi la sovranità completa.
Ma lasciamo che Bellasio, in pochissime righe, parli di questo suo splendido lavoro nel tentativo di fornire al lettore un punto di vista che aiuti a comprendere il senso profondo di questo suo libro.
“Monade: un libro ripido e brevissimo, appena quindici testi, scarne e frante distillazioni sopravvissute all’incessante sterminio di stesure di cui è fatta non solo la poesia, ma la stessa esistenza. A suo modo, un «poema della fine» e forse, come ha scritto una volta un grande poeta, dell’«infinita fine» che è la nostra vita“.
In te è il pensiero, l’assoluta venatura il soffio di potente tremito – veramente interno placet che sancisce il nulla.
Ma torna, adesso torna – metà indiviso e metà nel tempo – tutto un sibilo lungo la creatura, sempre la stessa sete a perpendicolo, l’inestinguibile di noi una candelina eternamente accesa quando accade – queste periferie di psicosi e asfalto che nessuna vita potrà mai eludere…
Cancellarsi è arduo.
Gli anestetici oscillano sul manico e anche questo misurino si fa varco e duro abisso della conoscenza, regalando gocce senza sole, il grande viale rallentato di schegge e camion che mi fu vertebra, mi fu padre.
Talvolta un’ora, e tu esisti. Il resto è ciò che accade.
Non ricordo. C’è stato lo svenire di una fronte, un impazzare di voci, un grande andirivieni… misurini, contagocce, analisi… L’ora, squarciata, di una morte che fermenta in accelerazione verso il cristo. Non ricordo. Sono stata, da molto tempo, trasportata, lungo una città ravvicinata, in alto, tra i suoi cieli di ambulanze. Ho varcato di me qualcosa, una voce segreta, ignota – una cosa irrespirabile sprofondata dentro me, da molto, da prima – ma piantata in alto, fra le sirene… Sono stata asciugata, da qualche parte, nei secoli, un pomeriggio di novembre – è semplice, vedete, mi hanno messo un camice, ecco, mi hanno mandata a chiamare.
*
Mi hanno appoggiata su una garza. Io pendevo, nascosta fra i capelli ho, da lontanissimo, chiamato un fazzoletto. È questo il reparto, la voragine da dove decantare tramortiti. Ho invocato il sonno, la puntura che contiene il buio, un grammo di notte, la cattura. Sto distesa… Sento, forte, la mia carne, il lungo muggito che mi serra – la mia vita inchiodata in me, gli aghi. Non mi muovo. Affondo, qui, da qualche parte al di sopra o al di sotto (non so più) di me. Scorgo il mio respiro; non lo inseguo. Capisco.
*
Forse già da prima io da molto non esistevo più. Mi domando da dove mi sia giunto questo coma, da quale piano, da quale disastrato cielo esso si sia abbattuto in me… Mi cerco tra queste gocce, nel dosaggio, forse in un rigo del referto, sì, in un bicchiere di latte tiepido. Tosse, bisogno, piastrelle… Non esiste altro. Lo sento.
*
Volata via… sono rimaste le cartelle cliniche, gli infermieri, l’ininterrotto pattugliamento di farmaci venuti per sedare il mio cervello. Sono veri gli spettri dove esisto, attraversata da una mente che è iniziata con un grido. Da qualche parte. Vicinissimo… La luce scende sui letti addormentati – tutto è fermo, colpito da oltre, da prima di me. Ne riconosco il livido, l’odore.
*
Non avrà mai fine. Io so da dove sale questo ossido, da dove cresce il tumulto dei degenti in questa mensa, l’insonnia violenta che respira sotterrata in noi. Ne reco, da sempre, in me il tremore, lo sfregio interno, l’abrasione… Io, di me che sono metà spezzata di me… Entrano – da non so dove – e li osservo abbottonarsi un camice, un bianco sporco, duplicato – ci porgono un bicchierino, l’acqua le pastiglie con cui sopire piano questo esistere. Spengono le luci, chiudono gli accessi al corridoio, le finestre, i varchi… Dalla vita nessuno è mai più tornato.
*
Più niente. Mi hanno sollevata dal mio corpo, destituita – sono stata, per sempre, abrogata. Più niente. Colano, adesso, liquidi da una conduttura dentro me… Non ho niente, non sono niente che possa avversare questo squarcio, quella breccia scoperchiata in fondo a me. Mi pesa nella mente questo affanno, mi fende mi incrina. Qualcosa che si inarca dove grida, si piega sotto il trave del suo svanire – davvero terribilmente cigola. La fatica, come il tempo, scava l’essere.
*
Avrei voluto gettarmi da un palazzo di novanta piani, volare a capofitto in questa aria che non riesco adesso a respirare… Assisto, invece, alla mia fine, la comprendo, ecco – guardo entrare i palliativi, i contagocce che mi chiamano nel decubito da esistere.
Datemi, presto!, una maniglia, una porta che io apra, un’uscita, sì – uno strattone che mi estirpi per sempre dal decorso… Forse la caldaia, ecco!, la caldaia vecchissima a niguarda esploderà stanotte, annientando questo trauma.
(…)
Note sul poeta
Alessandro Bellasio (Milano, 1986) ha pubblicato la raccolta di poesie Nel tempo e nell’urto(LietoColle – pordenonelegge, 2017). Una scelta di testi è stata inclusa nell’antologia Giovane poesia italiana (Fondazione pordenonelegge, 2019), tradotta in inglese, tedesco, spagnolo e francese. Si è occupato dei classici dell’espressionismo (G. Benn, G. Trakl, G. Heym) con brevi profili critici e traduzioni. Collabora con il sito di poesia della Rai.