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SABATO, 25 MARZO, DANIELE CASADEI PRESENTA IL SUO ULTIMO LIBRO INTITOLATO “S-CEN”

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SABARO 25 MARZO 2017, ALLE ORE 17,00

A Cesenatico – Museo della Marineria

NEVIO SPADONI presenterà

S-CEN

di DANIELE CASADEI

Interverrà MATTEO GOZZOLI – Sindaco di Cesenatico

Seguirà lettura di alcune poesie da parte dell’autore.

Ingresso libero

la collana “l’altra lingua” si arricchisce di un nuovo autore: è Daniele Casadei con il suo “S-cén”

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Dalla prefazione di Nevio Spadoni

 

Prima parte.

La poesia dialettale del secondo Novecento in Romagna s’inaugura a partire dalla metà degli anni Quaranta, sotto la spinta di un canto nuovo ad opera di Antonio (Tonino) Guerra. Sulla scia del santarcangiolese opera poi uno stuolo di poeti che nel giro di qualche decennio hanno determinato una notevole fioritura neo-volgare, con novità espressive rispetto alla poesia degli autori del primo Novecento. Troviamo così individualità quali Walter Galli, Nino Pedretti, Mario Bolognesi, Raffaello Baldini, Tolmino Baldassari, per citare solo alcuni maggiormente conosciuti, senza però dimenticare i più giovani, ultimi in realtà a essere cresciuti nel dialetto come prima lingua. E ormai il dialetto è divenuto per chi scrive, un idioletto, lingua non pura, quando – per scelta o che – è idioma meticciato.

Ora, nella suggestiva cornice di una Cesenatico leonardesca, col suo porto canale, dove i trabaccoli  in fila come tante ballerine attendono le ore rubate al sonno dei pescatori,  un’altra voce, dopo quella di Leonardo (Leo) Maltoni, esalta questo luogo antico e prezioso: Daniele Casadei, peraltro non nuovo alla poesia, e comunque voce decisa, cresciuta nel dialetto come prima lingua. La sua poesia, si scioglie in un canto, tradizionale e moderno al contempo, voce svincolata da rigidi legami metrici consueti, anche se qua e là compaiono rime e un ricorso prevalentemente a endecasillabi settenari e a quinari.

S-cén è una raccolta eterogenea che comprende poesie di misura breve, epigrammi, aforismi, favole, componimenti che nascono da detti e modi di dire dei vecchi, rielaborazione di narrazioni quale, ad esempio, E’ séc cun e’ bùs (Il secchio col buco), poesia che si rifà a un suggestivo racconto cinese.

Alcuni testi:

U s’era fisé

U s’era més int la tèsta

ch’l’era trop gras.

U n’era miga vera

ma lo u s’ era fisé

u n’ gn’i durmiva la nòta.

L’avéva una gran paura

che j’amig il tulés in zir.

E acsé l’avéva det cun tót

ch’u s’era tólt

la bicicléta da cursa

par smagrès.

 

Quant u s’è invié,

tót tiré cum un curidór,

l’è pasè davènti a e’ cafè

pianin, pianin.

Ciòu! A la pràima disaisa

l’à ciapè una curva trop fórt

e u s’è infilè,

cun i pia lighé,

int un fòs pin d’urtìghi.

Quant i l’à cavè

l’era gvantè cum un palòn.

 

I l’à ciapè pr’e’ cul una vita.


 Era fissato

 Era convinto

di essere troppo grasso.

Non era vero

ma lui era fissato

non ci dormiva la notte.

Aveva paura

che gli amici lo prendessero in giro.

Così aveva detto a tutti

di aver comprato

la bicicletta da corsa

per dimagrire.

 

Quando è partito,

bardato da corridore,

è passato lentamente

davanti al bar.

Alla prima discesa

ha preso una curva troppo forte

e si è infilato,

con i piedi legati,

in un fosso pieno d’ortica.

Quando l’hanno tirato fuori

era diventato un pallone.

 

L’hanno preso in giro una vita.

***

Miséria

I n’avéva un bòc da sbat in cl’ètar,

figurés se j’avéva i bajóc par tó la legna.

D’invéran, quant j’era propi a la disperaziòn,

j’andéva drja la mura de’ campsènt

in du ch’i butéva i péz dal càsi da mórt

dóp ch’j’avéva cavè la sèlma.

Ma cla legna l’avéva una póza, ma una póza

che dop un po’ uj tuchéva spalanchè la finèstra.

E acsé …

tót al volti ch’j’azàndéva e’ fugh par scaldès

i s’ muriva da e’ fred.

(Fatto realmente accaduto)

 

Miseria

 Non avevano un soldo da sbattere nell’altro,

figurarsi se avevano denaro per comprare la legna.

In inverno, quando erano disperati,

andavano vicino al muro del cimitero

dove gettavano i resti delle bare

dopo aver esumato la salma.

Quella legna però aveva un tanfo tale

che dopo un po’ erano costretti a spalancare la finestra.

Così …

tutte le volte che accendevano il fuoco per riscaldarsi

morivano di freddo.

***

Dalla prefazione di Nevio Spadoni (seconda parte)

Già il titolo S-cén (Uomini) della raccolta è emblematico, ad esprimere quel rapporto di ambivalenza col mondo di ogni essere razionale e con una vita di esperienza viva alle spalle, in una dinamica di amore e di tensione, con uno sguardo ora sofferto ed ora compiaciuto, a tratti pennellato di compassionevole e leggera ironia.

Già nelle prime liriche: E’ lèdar (Il ladro), Una gràn bèla persona (Una gran bella persona), ma anche Cum e’ cambia e’ mond (Come cambia il mondo), troviamo personaggi stravaganti e figure macchiettistiche che con evidenza richiamano la scrittura del cesenate Walter Galli, personaggi votati alla emarginazione e carichi di miseria estrema. Sono bozzetti legati a un quotidiano di uomini e donne che hanno conosciuto una vita di stenti, di sofferenze, di solitudine.

Non poteva poi mancare un riferimento al suo mezzo espressivo, E’ mi dialét (Il mio dialetto), a fotografare per intero il romagnolo di un tempo, apparentemente rude, sanguigno, lavoratore, legato alla sua terra, al suo mare, e ai valori tradizionali della casa e della famiglia, come in La piénta dla faméja (L’albero genealogico), dove si snoda un percorso a ritroso a significare che i s-cén (Gli uomini) sono tutti della stessa pasta. E qui viene spontaneo il riferimento al Quasimodo di “Sei sempre l’uomo della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”.

Come in tutti i poeti romagnoli, il tema della morte è sempre presente, con quel grumo di paura e di mistero che gli fa dire: “Meglio morire tutti i giorni che una volta sola”, anche se, come scriveva Antonio (Tonino) Guerra, “la morte non è noiosa, viene una sola volta!”.

Ovunque c’è un riferimento alla sua Cesenatico, evidente particolarmente in  Quant arìv a Ziznàtich (Quando arrivo a Cesenatico), una dichiarazione esplicita d’amore per la sua terra e per ciò che si respira in quel dolce paese, elementi che riconducono al conterraneo Maltoni. Proprio lì, in quel paese, si sono consumati drammi e sciagure legate al lavoro duro dei marinai: in La spósa de’ marinèr (La sposa del marinaio), quelle parole assurgono ad emblema del dramma della donna di chi affronta la dura fatica, sfidando i marosi, nell’angosciosa attesa di un ritorno che le circostanze rendono quanto mai incerto.

Ma in Casadei, accanto alla storia di fatiche, di duro lavoro, compaiono anche macchiette paesane di un mondo che non ritorna. Il poeta tutt  avia ha occhi aperti anche sulla realtà odierna, con ironia sottile e disinvolta arguzia a pennellare l’oggi con le sue contraddizioni, storture e vizi di questa società ormai opulenta, adoratrice di feticci, di falsi valori e schiava di bisogni indotti, e alienanti (beni, danaro, potere), che non possono appagare il cuore dell’uomo; a confrontarli, pare sulla scia della filosofa un-gherese Ágnes Heller, con quelli radicali, che attengono  alla più intima radice

NEVIO SPADONI

 


 

UN NUOVO AUTORE PER L’ARCOLAIO. SI TRATTA DI ROBERTO DALL’OLIO. IL SUO ULTIMO LIBRO S’INTITOLA , “IRMA”

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Roberto Dall’Olio e L’Arcolaio ringraziano Andrea Ballardin per la cortese concessione della propria opera di copertina.

 

Roberto Dall’Olio (1965), bolognese, docente di filosofia e storia al Liceo Classico Ariosto di Ferrara.  Ha pubblicato diversi volumi di poesia. È del 2015 il poema  “Tutto brucia tranne i fiori” Moretti e Vitali editore – nota di Giancarlo Pontiggia postfazione di Edoardo Penoncini – con il quale ha vinto il premio Va’ Pensiero 2015. Vive a Bentivoglio nella pianura bolognese ove è presidente della sezione locale dell’A.N.P.I

**

Intervento

Irma rappresenta le donne vittime di quel fanatismo religioso che in tante parti del pianeta vuole mantenerle in condizioni di sudditanza e ignoranza.

Rappresenta le giovani donne vittime di quel fanatismo tribale che pretende di mutilarne il corpo, attraverso penose escissioni o infibulazioni .

Rappresenta le giovani adolescenti  di cui, in nome di una abietta morale familistica, si vuole costringerle a moderne forme di schiavitù (il ripugnante fenomeno delle spose bambine).

Le sevizie e le torture subite da Irma richiamano alla mente  anche quelle giovani donne che, dopo avere attraversato il deserto, vengono inghiottite da un Mediterraneo ostile e turbinoso o il quadro plumbeo di quelle donne che, con macilenti creature avvinte nel petto – moderne Madonne sofferenti – hanno marciato per settimane lungo le terre infangate dei Balcani, fino a trovare le barriere di filo spinato,  erette da quei paesi europei che pure avevano pochi anni prima cono sciuto o i lager nazisti o i campi di concentramento comunisti.

Non sono Paesi fascisti ma che, anzi, si autodefiniscono “democratici”;  hanno sottoscritto la Carta europea dei diritti e fanno parte di quella Corte europea di Strasburgo che puntualmente elabora sempre più raffinati frammenti di diritti.

Irma si collega così, idealmente, alle ragazze che in tante parti del Pianeta non si rassegano e lottano, talvolta fino al sacrificio; alle ragazze iraniane che sfidano i precetti clericali; alle ragazze nigeriane che si ribellano alla prostituzione forzata; a quelle afgane che pagano con la vita la voglia di riscatto.

Nell’Italia, nata dalla Resistenza, il sacrificio di tante ragazze partigiane ha rappresentato una forza che ha consentito ai movimenti femminili, sia pure con colpevole ritardo, importanti traguardi di civiltà (solo nel 1969 l’abolizione del delitto d’onore e solo negli anni Settanta la parità nei reati di adulterio); ma può esprimere tuttora una condanna eloquente per  quanti, pur in questa parte del Pianeta, vogliono affermare  il dominio maschilista, fino allo stupro o al femminicidio.

Il sacrificio di Irma e di tante ragazze partigiane, di una Resistenza non più “taciuta”, possono farci sperare in un mondo più libero.

 

Augusto Barbera

Alcuni frammenti del poemetto.

un muro

un muro di pioggia

un muro

tra le case

un muro

tra gli uomini

un muro

tra il vuoto

e le case

un muro

tra noi

e loro

un muro

tra chi lotta

e chi uccide

un muro

di pioggia

morbido

impenetrabile

senza scampo

o di qua

o di là

lei

sempre

lo seppe

di stare

di qua

con tutta

se stessa

con la sua bicicletta

per Bologna

per il suo Paese

fracassato

il vecchio continente

 

l’aveva

sempre saputo

di quel muro

fatto

di coltelli

menzogne

nebbie

e carogne

 

lei

la sua lapide

davanti

a lei

Irma Bandiera

Mimma

della battaglia

sostavo

nella Bologna

dei secoli

a cavallo

lei

una perla

della memoria

chiosata

nel marmo

appeso

a una casa

lei

parlava…

 

loro

dicono

che Dio

è con loro

dicono

che il loro

onore

è la fedeltà

le esse esse

dicono

anche per noi

onore

è fedeltà

mai parola

fu più distante

nell’uso

tra gli automi

e noi che grattiamo

la coscienza

come un muro

da scalare

per vedere

lontano

dove

un Paese altro

ci attendeva

un continente

liberato

volava

nella nuova storia

(…)

ti mando una poesia

meraviglia

scuote

l’autunno breve

delle stelle

prima del nero

infinito

che le inghiotte

la notte

è figlia

del mio dito

di neve

sulla tua pelle

 

lo so

un po’ di rossore

mi ha colto

nel marmo

come sabbie

di coralli

lontani

ma il tuo volto

si è tuffato

nel mio cuore

 

proprio

nel terribile

mondo

della follia

che imita

la follia

io ho sognato

la musica

nei cieli

le ossa

dei morti

tamburi

di nuvole

grandi falchi

come fulmini

sui rosmarini

arsi

dal tedio secco

del vento

io ho sognato

l’argento

di rocce

leggere

appoggiate

sulla terra

nel mio pugno

di parole

mai accadute

tu eri

dolce

creta

di luna

mossa

a levante

(…)

questo fu

il mio silenzio

la mia vita

perduta

non poteva

fare perdere

quelle dei compagni

così

il lato sinistro

le labbra

la lingua

diventano

petali

stretti

nella corolla

del cuore

 

la Resistenza

fu

questa storia

europea

contro

il nero carcere

di un destino

chiuso a chiave

altri

vennero a liberare

ma nostro fu

lo scatto

il fiotto

di luce

del nostro mare

della civiltà

bagnate

da quelle acque

da quella luce

che assorbe

i nemici

cresciuti

dentro di noi

una luce

che vola

nel vento

porta pensieri

voci

sgorgano

giovani uomini

cercheranno

il segreto

di quella luce

dei suoi ricordi

spiazzanti

la carne

dell’immortalità

la luce

che fu

passando le fiamme

scintilla del bene

seduta al tavolo

dell’orizzonte

la linea gialla

di un crepuscolo

che non lascerà

più

i nostri occhi

 

qualche volta

risento le voci

dei torturatori

il loro maleodore

sento

la loro ferocia

poi

un lurido

silenzio

so

so

che sono fuggiti

so

so

che sono andati

a perpetrare

le loro sevizie

nel mondo

so

so

che nessuno

li ha fermati

nemmeno

la democrazia

so

di altri

nascosti

so

che nessuno

li ha scovati

so

so

che qualcuno

li ha protetti

sono troppi

spaventosamente

troppi

i fascisti

 

ancora

 

FINE

 

 

 

FILIPPO DAVOLI RIFLETTE SUL LIBRO DI GIANFRANCO FABBRI, “IL TEMPO DEL CONSISTERE”

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Resistere nella consistenza

Filippillole·Giovedì 9 marzo 2017

Riflessione critica di FILIPPO DAVOLI su

IL TEMPO DEL CONSISTERE di Gianfranco Fabbri.

 

Finalmente ha ceduto, l’amico Gianfranco Fabbri. Buon amico, bravo editore, ma nato con la penna in mano. Chissà perché aveva deciso di riporla nell’astuccio, una decina di anni fa, quasi che non avesse più niente da dire e che quel che serrava nemmeno tanto nascostamente nel cassetto non meritasse una più consona visibilità. Certo, a volte si ha la tentazione di riporsi nell’edicoletta della biblioteca, col broncio delle grandi occasioni o lo sdegno delle migliori, provati da come il mondo giri strano o da quanto ostracismo (volontario? Involontario?) taluni subiscano si direbbe per destino, o semplicemente per oblio delle cose, trascuratezze del vivere altrui. Ma se la penna fiotta, dalla camera oscura dell’astuccio, si ha un bel dire e fare, tra piccoli eroismi quotidiani: chiede di uscir fuori, la prepotente. Non si piega, non molla. Nel caso di Gianfranco ha ragione la penna.

Che – per dire – anche come editore sta facendo moltissimo per la poesia. E il suo “Arcolaio”, per essere una piccola editrice, sta lavorando di tutto rispetto, con alcuni pregevolissimi titoli tra cui ricordo e rileggo volentieri lo splendido “Canzoniere” di Gianluca D’Andrea e “La casa a cui vieni” di Luca Artioli (ho purtroppo letto poco in giro a riguardo, ma considerato l’andazzo può essere l’ulteriore conferma del valore della sua prova: che è infatti notevole), le “Storie” di Damiano Sinfonico (bella anche la prefazione che gli ha fatto il comune amico Massimo Gezzi), ma pure i titoli dell’indimenticabile Emidio Montini, caro e gentile Emidio scomparso troppo presto.

 

Or dunque, dicevamo: e perché mai un bravo editore dovrebbe privarsi dell’agio di pubblicare sé stesso, dal momento che può? La sua notizia ci rivela che ben prima che nascesse “L’Arcolaio”, era attivo nell’ambiente letterario: aveva già dato alle stampe mirabili plaquettes per i tipi di Campanotto – ricordo con benevolo appagamento di lettore le pagine de “I ragazzi del Settanta” (1989), “Davanzale di travertino” (1993 – il mio preferito), “Album italiano” (2002) – e poi ancora un libro per Manni editore (non si capisce davvero se Manni studi il sistema per realizzare le copertine più orrende che la storia del kitch ricordi), ma anche un pregevole racconto lungo intitolato “Jennifer”. Insomma, una penna sicura ed esperita, da chimico o chirurgo della bella grafia, amante della bella pagina, convintamente corazziniano e pure, al contempo, così prossimo alla prosa d’arte di cardarelliana memoria. Un bel leggere, davvero.

Perché, si diceva, un bravo editore diventato editore ben dopo essere stato a tempo pieno scrittore, non dovrebbe autopubblicarsi? Il mondo della Letteratura gronda di autoreferenzialità reali (la sua è piuttosto un’opportunità pratica, economica) e “do ut des” parentali e affini: amanti, nipoti dal diverso cognome, allieve e allievi, coetanei generazionali, “lippelappisti” di professione, etc. Gianfranco, almeno, se la canta e se la suona a casa sua. Mi piacerebbe che si leggesse il libro per quant’è bello in sé. Per la felice compiutezza e la sempre luminosa acuminatezza insanguinata (nella duplice accezione che ne fa, da un lato, un’occasione di scavo fino in fondo, senza i lacci dell’opportuno e dell’inopportuno; dall’altro, l’intierezza di un dire che gronda vita e non maniera, consistenza e non minimalismi di ritorno o ben affinato mestiere).

Adesso, caro Fabbri, si tratta di resistere alla nuova tentazione di chiudere la parentesi, o di considerarla tale. Tentazione che, se un po’ ti conosco, può prenderti. No: preparati a scrivere i “Quadri del resistere nel tempo del consistere”. Ne abbiamo necessità.

 

Filippo Davòli

VENERDI’, A FORLI’, 3 MARZO P.V.,ORE 17,00, AUDITORIUM FONDAZIONE CARISP FORLI, ECCEZIONALE PRESENZA DELLA SCRITTRICE LIDIA JORGE CHE PRESENTERA’ L’EDIZIONE ITALIANA DEL SUO “PIAZZA LONDRA”

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prototipo-copertina-pracadelondres LOGO ARCOLAIO

LIDIA JORGE

presenta

PIAZZA LONDRA

VENERDI 3 MARZO 2017, ORE 17

auditorium cariromagna

Via Flavio Biondo 16 – FORLI

Interverrà ANABELA FERREIRA, traduttrice e docente della Facoltà Di Interpreti e traduttori,

Università di Bologna – Sede di FORLI.