Home

UN NUOVO ARRIVO IN CASA ARCOLAIO: E’ MAURIZIO LANDINI CON IL SUO NUOVO LIBRO, “HOPLON”.

Lascia un commento

 

Porgo il mio saluto al poeta Maurizio Landini che con questa sua ultima fatica, “Hoplon“, entra nel catalogo editoriale.
Ho voluto scrivere una breve nota di benvenuto alla sua poesia.
La potrete leggere, oltre che nel volume, anche qui sotto, bella riportata in evidenza.
Vostro Gianfranco e la redazione.
**

La scrittura di Maurizio Landini sembra essere un affluente intento a unire la propria acqua al fiume principale (la Poesia del nostro presente). Questo apporto di materia fa parte di una dinamica analoga a quella altri fiumi che presentino identiche caratteristiche, ovvero: un’acqua che contenga il senso dell’irrealtà, dello straniamento, il salto in dimensioni linguistiche e concettuali favorevoli a certe suggestioni extra-fisiche. In un tale flusso testuale si riscontrano strappi nell’irrealtà e disubbidienze spaziali. In un simile gioco espressivo, tutto può convivere: tutto può girare su sé stesso per tentare la posizione dell’umano in un solco che non è visibile, ma che pure ci tange. Maurizio Landini sceglie in questo suo ultimo lavoro, intitolato “Hoplon”, il rintuzzamento espressivo e tematico di cui sopra. Il titolo è in parte una definizione di questa tematica. Hoplon è lo scudo del guerriero nell’antica lingua greca e rappresenta molto bene la contro-arma che serve (che dovrebbe servire) alla difesa passiva del soldato. La quiete di un simile incedere consiste nell’evitare il fendente del nemico e non rappresenta dunque un’aggressione, bensì un accucciarsi dietro il paravento. Una difesa questa che bene combacia con il timore di chi teme l’offensiva dell’“altro”, quando l’altro si manifesta con caratteristiche extra corporali e extra fisiche. Insomma, una battaglia in cui l’avversario non si riconosce che da piccoli segni e linguaggi perlopiù sconosciuti. Il tessuto poetico è per sua natura complicato: esso preferisce procedere come un corso d’acqua (torniamo alla metafora dell’inizio) che rintuzza e pare tornare al monte: si avvince in spirali rettili che possono confondere il lettore. I poeti non vogliono rinunciare a questa caratteristica stilistica: il testo poetico pare negarsi – è geloso di sé, desidera fingersi altro; allontana il volenteroso lettore, stordisce quest’ultimo come farebbe un pavone nel momento della massima espansione della propria ruota –. In Landini ci pare di avvertire, più che un senso di civetteria, un senso di dolore: il rincrescimento di non potere comunicare direttamente una Verità. Maurizio (come del resto, gli altri autori che affrontano questo tipo di scrittura poetica) si rifugia allora negli espedienti che il suo talento gli ha messo a disposizione, ovvero: le figure retoriche di significato, come la sinestesia, la metafora o ad altri fattori come l’allusività, depistando forma e tema in maniera convincente.

Gian Franco Fabbri

Qualche testo:
I
Occhio, guardi il sole
e chiedi: «Proteggimi,
siamo entrambi pupille
siamo iridi, circoli di Dio
segnati a mano e prossimi
alla perfezione;
**
V
È figura di un arcano
quel ricordo netto e preciso
come il damasco di un’alba, protesa
al campanile di San Vito: volare giù
dai freddi chiari della Carnia sugli alberi
vicini,
a reggere le tane del buio.
**
XIX
Le luci dei mattini sulle spiagge
dove è cresciuto il freddo
ci accompagnano
al risveglio piano delle cose
sul mare piano, dove non pare
di aver mai camminato;
è stato lì, un miracolo
in un punto qualunque
del legno bruciato e del sale.
**
XXXII
Passa oltre, la notte,
come il sacerdote e il levita:
al ritorno del primo sole,
pensiamo che fuori è più caldo
che fino a domani non è il tempo
della morte.

GRAZIA CALANNA PARLA DI “DIRE”, L’ULTIMO LIBRO DI FABIO MICHIELI, E INTERVISTA L’AUTORE.

1 commento

 

 

Dire” di Fabio Michieli
Intervista by Grazia Calanna

 

Nato a Venezia nel 1971, Fabio Michieli si è laureato in Lettere Moderne nell’ateneo lagunare (Ca’ Foscari) con una tesi su Niccolò Tommaseo e il suo racconto storico “Il duca d’Atene”, base dell’edizione critica e commentata pubblicata nel 2003 presso Antenore (Padova). Suoi interventi critici dedicati a Tommaseo sono apparsi in rivista («Quaderni Veneti», «Giornale storico della letteratura italiana») e in volumi miscellanei (l’ultimo contributo risale al 2016 e apre alla conoscenza della formazione poetica del letterato di Sebenico). Nel 2008 ha pubblicato, presso i tipi L’arcolaio, la raccolta di poesie “Dire”, e dirige, per la medesima casa, le collane «Fogli di critica» (insieme a Gianfranco Fabbri) e «Fuori collana». Fa parte del Comitato Scientifico di Carteggi Letterari Le Edizioni. Nel corso del 2015 alcune poesie della raccolta “Dire” sono state tradotte in portoghese da Josè Soares e Serena Cacchioli, e pubblicate nel nr. 20 (settembre 2015) della rivista «Telhados de Vidro». È apparso in traduzione francese (a cura di Silvia Guzzi) e tedesca (a cura di Anna Maria Curci). Sue recensioni sono apparse sia in rete sia in rivista («l’immaginazione», Italian Poetry Review). È, insieme ad Anna Maria Curci, direttore, caporedattore ed editor del lit-blog «Poetarum Silva». Con tre versi scelti dal suo “Dire”, introduciamo la nostra intervista: «ma è un riso di sole ciò che accende / il mio volto trasognato in un volo / di sguardi rubati a quest’oscurità».

Qual è il ricordo (o un aneddoto) legato alla tua prima poesia?

Non baro se dico che non ricordo come sia nata la mia prima poesia, o come siano nate le prime poesie. Sicuramente per emulazione, perché quando si legge alla fine si comincia per sfida o per emulazione; io ho iniziato per emulazione. Ricordo – e lo racconto spesso quando mi ritrovo in pubblico a parlare di poesia – però il primo incontro con la poesia. Avrò avuto forse dieci anni; frequentavo la stanza – perché di una stanza si trattava – adibita a biblioteca di quartiere a due passi da dove abitavo allora. La narrativa per bambini, etichettata “Gulp” dal sistema bibliotecario, per me non aveva segreti, e così vagavo tra gli scaffali. Mi imbattei in strani libri con rettangoli colorati, con i nomi degli autori scritti in grande, e altrettanto in grande i titoli dei libri. Scelsi, presi, lessi, senza capirvi nulla, un libro: Diario d’Algeria di Sereni. Però quel modo di scrivere, quel modo di usare le parole… nemmeno Gianni Rodari che la maestra mi faceva leggere! Fu il primo incontro con la poesia. Intendo con la poesia vera, quella non collocata in una manuale scolastico. Le prime poesie sono arrivate tardi; già frequentavo l’università, i corsi di Alfonso Berardinelli. E fu emulazione, come dicevo; poesie brevi sul fare di Ungaretti per esercizio. Una prima plaquette, battuta a macchina, aveva l’imbarazzante titolo Pensieri inversi. Fu lo scambio di letture, il dialogo con amici che in privato scrivevano poesie e le custodivano gelosamente a fare la differenza; presi confidenza con quest’arte che in quel momento compresi fare parte di me da sempre, e la scrittura pure cambiò; sempre per emulazione, ma erano entrate in campo le letture più meditate di Montale e Penna, per fare due nomi, e la scoperta della rivista “Poesia”. Quelle che considero prime poesie, e che ancora conservo – più come monito che non per il desiderio di tornarci un giorno –, sono nate in questo periodo. È il periodo in cui ho capito molto di me stesso, e la poesia è diventata un tutt’uno con questa conquista. Aspettando il temporale… ecco!, questa potrebbe essere la “prima” poesia, se con prima posso indicare la poesia che ho avuto il coraggio di fare leggere agli amici, compresi quelli che non sospettavano io scrivessi.

Quali i poeti (e, più in generali, gli autori) significativi per la tua formazione?

Senza volerlo ho iniziato a rispondere a questa domanda già nella prima. Eugenio Montale e Sandro Penna sicuramente. Penna è certamente il poeta che più amo e sul quale torno ogni volta che ho bisogno di conforto. Sereni, Luzi e Caproni seguono a ruota. Zanzotto è stata lettura più tarda; una lettura che aveva bisogno di un bagaglio. Fabio Pusterla è stato amore a prima lettura. E lo stesso posso dire della poesia di Giuliano Mesa, al quale sono arrivato solo relativamente di recente. Ovviamente in mezzo ci sono molti poeti stranieri, poeti che hanno attraversato la poesia di chi ho nominato poco fa. Non credo che avrei letto nulla di Rilke se non avessi incontrato la poesia di Luzi, ma soprattutto se nell’antologia di Mengaldo non fossi inciampato nelle traduzioni di Pintor. Ho poi così iniziato a cercare Rilke e leggerlo in tedesco (con fatica, sia chiaro). Da Rilke ho scoperto la poesia tedesca prima e dopo di lui in modo non sistematico; direi semmai in modalità random, passato da Trakl e Benn, da Brecht a Enzensberger, senza alcun criterio che non fosse la curiosità e la voglia di capire. Lo stesso discorso vale per Pound, Eliot, Sexton e altri, insomma l’infatuazione per il modernismo anglo-americano. I poeti francesi letti purtroppo sempre e soltanto in traduzione, sicché so di perdere molto. Fatto sta che quando si è lettori di poesia, lettori compulsivi quasi, è difficile individuare un percorso formativo. Quando mi rileggo (e capita di farlo) avverto la presenza dell’intera tradizione poetica italiana perché la lingua della poesia è portatrice di quest’immenso viaggio. Se riconosco una parola che è stata di Montale, o di Sereni, per esempio, in questa parola trovo pure la traccia di Dante o di Petrarca. Certo – e qui mi ricollego all’aneddoto di me bambino – frequentare un corso monografico sulla poesia di Sereni col ‘Meridiano’ fresco di stampa per me è stato più che un momento formativo. Direi che sia stato un appuntamento col destino. Ed è proprio grazie alla poesia di Sereni che in quegli anni ho avuto modo di dialogare con Mario Luzi, e successivamente di conoscere anche Zanzotto, la Spaziani. Ecco! alla fine la risposta è questa: un certo Novecento è radicato in me, perché è quello delle prime letture, quello che segna un vero e proprio imprinting. Non credo ai poeti che nascono puri, proprio perché il poeta che più amo, Penna, ha mentito sulla propria purezza. La poesia è dialogo, e non si può nascondere la traccia del dialogo con la tradizione se non falsificando sé stessi.

Quale (e per quali ragioni) poeta e i relativi versi che non dovremmo mai dimenticare?

Felice chi è diverso/ essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso/ essendo egli comune. Questa breve – tipicamente breve – poesia di Penna per me è un manifesto non solo poetico. Fingere d’essere altro da sé stessi è pura ipocrisia, e anche in poesia fingere di essere poeta quando si è al massimo un versificatore, un facitore di sequenze di parole e di a capo, è quanto di peggio possa accadere. Ed accade tutti i giorni da che certa poesia è stata sdoganata con internet. Non voglio aggiungere parole all’infinità di discussioni nate attorno a questa questione. Ma è venuto meno un certo senso del pudore; è venuta meno la “discrezione” di cui parlava Montale. Molti si propongono come “alternativa” ma sono comunissimi quanto inutili. “Guai” a costoro, pare dirci da lontano Penna. Ma questi versi possono essere letti anche in senso ben più lato. Se si riesce, e non è facile, a prendere, ad avere piena coscienza di sé, si riesce pure a essere felici. Io so di non rappresentare alcuna risposta alternativa alla poesia contemporanea; anzi! , so di essere per qualcuno una voce radicata nella lingua della tradizione e quindi non proiettata in avanti, e poco dialogante con il presente. Non mi sento così, però. Sento, semmai, in me il recupero di istanze germinate, germogliate, nelle voci che ritengo maestre e le porto in questo mio tempo.

Qual è – nell’arco della tua giornata – il momento ideale per dedicarti alla poesia (o, più genericamente, alla scrittura)?

La poesia è una questione di attesa. Saper aspettare il momento in cui al poeta è permesso di afferrare la parola sospesa in quel luogo dove il pensiero, l’idea già formata, si rendono accessibili a chi ha poi il compito di fissare il tutto con parole. Non ho un momento preciso. Non l’ho mai avuto. Ricordo che scrivevo i capitoli della mia tesi su Tommaseo, e che all’improvviso dovevo abbandonare la tesi per scrivere dei versi; appuntarli sulla carta sapendo che li avrei recuperati più in là. Ricordo di avere scritto una poesia, rimasta in cassetto, dopo avere letto Celan. Raramente compongo un testo per intero. Scrivo sequenze di due o tre versi; a queste sequenze si aggiungeranno altri versi giorni dopo perché nel frattempo i primi versi hanno continuato a risuonare. Mi ritrovo tra le mani così qualche cosa che potrebbe diventare una poesia. Credo che questo modo di comporre sia uno dei motivi per i quali io non sono un autore prolifico. Devo dire che è stata una fortuna per me la rivoluzione tecnologica legata alla telefonia; tradotto: avere uno smartphone mi permette di aprire la cartella Appunti e scrivere dei nuovi versi, che poi trascriverò a penna alla prima occasione. È su questi ultimi appunti consegnati alle pagine del mio taccuino che poi inizia il lavoro di scrittura. È un lungo lavoro di ricerca della parola che più si avvicini all’immagine di una poesia che mi si è fissata nel pensiero; e finché non avrò trovato quella parola, non ci sarà poesia. So che questo può sembrare raziocinante, ma non lo è affatto! La poesia è ricerca, è cura. Non credo alla poesia immediata, semplice, fatta di elementi poveri perché deve preservare intatto il momento in cui è stata concepita. È una falsificazione, una mistificazione, una maschera. Anche la poesia fatta di stoviglie, bicchieri, piatti ha visto quella tavola farsi e disfarsi non si sa quante volte prima di trovare la sua forma definitiva.

Qual è la tua ‘attuale’ spiegazione/definizione di poesia?

La poesia è paradossalmente l’arte più distante dal presente che però può definire più intimamente il presente dell’individuo. Per questo ritengo che sia necessaria e che ognuno dovrebbe riprendere confidenza con quest’arte troppe volte maltrattata da chi non sa come affrontarla. La scuola ha la sua parte di responsabilità quando tratta i testi come elenchi di fenomeni retorici, senza collocare i componimenti nel seno del tempo che li ha partoriti. Vuoi per pigrizia, vuoi per incompetenza degli insegnanti. Ma la poesia è molto di più e se le si dà voce ci consegna la fotografia delle agitazioni, del sentire, delle pulsazioni di un determinato periodo storico. Dante che ci parla di esilio dà voce all’uomo, al politico e al poeta insieme al suo tempo; ci consegna il Duecento e l’inizio del Trecento italiani che sappiamo essere europei. Montale che descrive la condizione del “prigioniero” a chiusura di La bufera e altro ci cala nell’incertezza del mondo che uscito da un secondo conflitto, più catastrofico del primo, non sa bene in cos’altro sta per entrare. La poesia “spiega” e “definisce” l’uomo, e forse per questo spaventa e viene allontanata, relegata, considerata demodé. Ma questa è forse pure la sua salvezza, perché si preserva dall’esibizione del potere dal momento che non le è più riconosciuta alcuna ufficialità.

Quando una poesia può dirsi compiuta?

Una poesia è compiuta quando non c’è più nulla di superfluo; quando è la musica a risuonare nel verso insieme alle parole; quando il minimo scarto ulteriore stonerebbe. Quando la geometria è compiuta. Una poesia è compiuta quando il confronto con chi ha la (s)ventura di leggere l’anteprima mi fa capire che da ciò che ha letto ha ricevuto qualcosa che sa di compiuto. Ho la fortuna di avere dei cari amici con i quali ho un confronto costante e sincero. Parlare di poesia e confrontarsi nelle opinioni, nelle letture, aiuta molto. Non credo che nel dialogo un autore perda la propria identità. Cresce semmai! Quando misi mano alla prima versione di Dire se non avessi avuto un confronto diretto con Gianfranco Fabbri, amico ed editore della raccolta, nulla avrebbe visto la luce. Quando poi a distanza di anni ho rimesso mano alle poesie per arrivare alla nuova edizione, che di fatto rende Dire un libro nuovo, se non ci fossero stati in mezzo gli anni di confronto con Anna Maria Curci, Cristiano Poletti, Francesco Filia, Alessandro Brusa, per fare dei nomi, e ovviamente Fabbri, non avrei saputo porre la parola fine al percorso. In chi scrive regna sempre un che di insoddisfazione, di incertezza; ed è giusto, ed è un bene che sia così. La sicumera più della sicurezza genera dei mostri che troppo di frequente arrivano al lettore con la pretesa di essere considerati poesia. Se penso a una mia poesia, come per esempio Genesi, so che ci sono voluti parecchi anni prima che considerassi compiuto il componimento. La prima stesura, ben più ampia e intitolata Il risveglio, risale a più di vent’anni fa; faceva parte con quel titolo della prima versione di Dire. La scartai a bozze pronte perché non era ciò che io volevo da una poesia. Quando ci sono ritornato, anni dopo, ho tolto versi, soppresso porzioni. I fatti della vita nel frattempo vissuta mi avevano messo innanzi a ulteriori scelte che avevano radici lontane. Non era più solo un risvegliarsi quello di cui dovevo parlare. Quindi una poesia può metterci anni perché io la senta compiuta; e mi conforta sapere che per un maestro come Sereni le cose andassero più o meno nella stessa maniera. Non sono affetto dalla fretta di consegnare una poesia al lettore.

La poesia può (e se può in che modo) restituire purezza alla parola?

La poesia è l’arte della parola. Un’arte che va curata con lo studio. Non si può mettere una parola in un verso a caso. Bisogna osservare, ascoltare chi ha già elevato la parola alla sua purezza. In questo la lezione di Luzi credo che sia il faro a noi più prossimo: “Vola alta parola…”; e nel ‘volo’ del maestro io vedo pure la follia di Astolfo. Non c’è perfezione nell’uomo, ma c’è il desiderio di raggiungere un punto più alto per perfezionarsi, e la poesia ha questa forza. La poesia può alzare o abbassare la parola. Ma anche quando la affossa nel botro quella parola è riconoscibilissima e dolcissima. Pensiamo alle poesie più licenziose e al limite della scurrilità di Penna: possiamo liquidarle come brutte (Sanguineti che le scelse per la sua antologia si guardò bene dal definirle brutte; lasciò che il lettore emettesse un giudizio indotto, deviato), o dobbiamo interrogarci se per caso in quell’abbassamento non ci sia in realtà la volontà di purificare ciò che l’uomo sporca? Ecco, sì!, la poesia restituisce purezza alla parola se ci si è lavati dell’ipocrisia, dei pregiudizi, delle superfetazioni. Mi illuderò forse nel riconoscere alla poesia questo mandato, ma è un mandato etico che io sento vivo in me.

Oggigiorno, qual è (ammesso ne abbia uno) l’incarico della poesia?

L’ho detto poco fa: il mandato della poesia è quello di mostrare all’uomo che esiste una zona in cui può rifugiarsi e riflettere sui tempi che tutto vorrebbero annullare e appiattire. È una nicchia colpita dalla luce e che mostra tutta la sua lunga ombra. Nell’ombra agisce la poesia più ancora che alla luce. Ma quanto emerge erompe con tutta la sua forza e non lascia scampo. Ti inchioda alle tue responsabilità quando ti racconta la deriva umana degli ultimi decenni (si pensi a La fine del Titanic di Enzensberger). Se penso agli ultimi due libri di poesia di Pusterla trovo molte risposte alle domande che noi tutti ci poniamo; a quanto sia tutto più grande di noi e quanto sciocchi siamo a continuare a considerare ogni cosa di nostra proprietà, quando tutto in realtà ci sta presentando un conto salatissimo. Ecco, la poesia è uno scontrino. Accartocciare uno scontrino dopo avere acquistato qualcosa è l’errore più comune e automatico che l’acquirente compie (e lo dico da commerciante – perché è questo il mio lavoro): perde ogni diritto e viene meno a un dovere. La poesia – lo diceva Tommaseo e prima di lui altri – come la vita ci ricorda che abbiamo diritti e doveri perché la poesia parla sostanzialmente della vita. Ascoltassimo di più i poeti non dico che vivremmo meglio; sicuramente vivremmo con maggiore consapevolezza.

Riporteresti una poesia o uno stralcio di testo (di altri autori) nel quale all’occorrenza ami rifugiarti?

“La giovinezza è ancora mio appannaggio? / Già mi pare di sì ora che il vento/ scompiglia dolcemente i miei pensieri/ e la finestra è aperta, chiara e onesta,/ e morta è nei miei versi la mia noia./ È durata due giorni la mia noia,/ la triste noia fatta di parole/ e di azioni convulse a mascherare/ l’assenza di un amore, la mia prima/ tregua nel mondo del mio disonore…”. Sono i primi dieci versi di Solfeggio di Sandro Penna. Sì!, ritorno a Penna ogni volta che ho bisogno di trovare un segno di bellezza, in un’insolita per lui poesia lunga, programmatica, narrativa, e matura. Io leggo Penna nell’edizione Garzanti e non nel ‘Meridiano’ che pur ho e sul quale ho scritto. Ho scoperto la poesia di Sandro Penna, ma soprattutto ho scoperto Sandro Penna solo quando è iniziata la mia esperienza universitaria. È stata una folgorazione! Capisco, perciò, perfettamente lo stupore che la sua poesia possa avere generato in chi cominciò a leggerlo sul finire degli anni Venti e i primi anni Trenta del Novecento. L’impressione di un fiore senza gambo è la prima impressione per il lettore riceverà sempre. La lettura, la rilettura nel corso degli anni mi ha portato a vedere molto di più. Cosa trovo in questa poesia? La disillusione e allo stesso tempo una presa ferma con tutte due le mani sulla vita. Quanta poesia e quanta onestà nel suo “disonore”. Penna insegna a me da sempre vivere la vita per com’è. La semplicità dei suoi versi racconta la complessità della vita; eppure, nonostante la sua complessità, questa sua vita ci si presenta semplice, vivibile. È il rovescio della medaglia delle parabole poetiche di Montale e Sereni. La spiritualità di Sandro Penna non è minimamente accostabile a quella di Mario Luzi. Non so nemmeno se ci sia spiritualità nel perugino! Ma è qui che mi rifugio quando sento troppo il peso dei compromessi ai quali siamo tutti indistintamente assoggettati. Che poi la mia poesia sia o non sia di segno diverso è una questione di cui si dovrà occupare il critico che vorrà occuparsene. Ricercare ogni traccia dei maestri fa più Cluedo che critica. Avrei potuto citare una poesia di Sereni o di Luzi, perché anche in loro mi rifugio, cerco conforto. Ma il primo amore è quello a cui si tende a ritornare, anche per ricordarsi quale lezione quest’amore ha impartito.

Per concludere, ti invito, per salutare i nostri lettori a scegliere una tua poesia dal recente libro e, nel contempo, ti invito a portarci a ritroso nel tempo, a prima della stesura completa o della prima stesura, per raccontarci quanto “accaduto” così da permetterci di condividere (e meglio comprendere) il percorso che l’ha vista nascere.

Compleanno #1

dovrei contare i giorni e disporli
in fila per vedere se davvero
la malattia è stata lunga come
fu scritto nell’epigrafe quel giorno
ne conto solo sette dal tuo «vado
a letto, sono stanco» – antivigilia
di un natale segnato dal silenzio…
il prima è dono o resistenza,
è vita che slontana la livella
è tu che chiedevi «farò i settanta?»

Ecco, rispondere all’ultima domanda con questa poesia è forse quanto di meno gioioso, “penniano”, ci si potesse attendere dopo tutto ciò che ho detto. Ma il fatto è che Dire ha un senso ora se non fosse purtroppo morto mio papà. Ci sono voluti anni per elaborare la perdita, per dare voce, per trovare le parole. Ci sono voluti anni per tentare di ridefinire degli spazi improvvisamente resisi vuoti, silenziosi, inodori. Quando a papà fu detta la gravità della malattia, al medico chiese se avrebbe compiuto 70 anni. Non andò oltre però, non aggiunse che pochi giorni in più. Il computo dei giorni del decorso più grave fu breve. Ma io non riuscivo a trovare le parole. Paradossalmente, a distanza di tempo, cominciai a meditare questa poesia quando cominciai a riflettere sul mio quarantesimo compleanno, che arrivò dieci giorni dopo la morte di papà. Così nacquero le ultime due poesie composte per la parte nuova di Dire, quella che ridefinisce l’intera raccolta.
La morte è un trauma, inutile cercare altre parole: una frattura che non si colma. La si può ridefinire, si può cercare di consegnare alla parola, alla poesia, un mandato, la funzione di ancorarsi alla speranza che qualcosa sopravviva in essa, che a qualcosa serva, e non solo per chi scrive, per chi rimane. Che si “eterni” finché dureranno l’uomo e il mondo in cui vive, che eterno non è. Nella domanda – che è una domanda retorica se si vuole – posta a chiusa della poesia c’è, per me, tutto il senso di queste mie risposte; c’è tutta l’importanza che io do alla parola poetica.

 

Intervista di Grazia Calanna

ANDREA DONAERA RECENSISCE “DISCORSO A DUE” DI LUCIANO NERI.

Lascia un commento

 

 

ALMA/NACCO 2019
Luciano Neri
Discorso a due, L’arcolaio
La voce che nasce da un «angolo buio e ferito»,
di Andrea Donaera

Nella superficie dei testi poetici di Luciano Neri traspare una lucidità che, in un marasma lessicale e contenutistico magmatico che rende le scritture poetiche contemporanee spesso ostiche finanche da decifrare, restituisce un autore oltremodo consapevole: in grado di dettare al suo stesso sentire una scansione al proprio (condiviso) vivere, un ritmo al proprio (totalmente proprio) percepire. La tenue intensità dell’opera “Discorso a due” è però anche frutto di un compromesso profondo: evitare la totale esondazione del torbido, del dolore, del perturbante – mediante il filtro della poesia stessa, del suo marchingegno estetico nel suo delicato e fragile ventaglio di dettami e possibilità. La poesia di Neri è controllo ed equilibrio – mai reazione, sempre ragionamento. Nell’intenzione poetica di Neri non c’è quasi mai spazio per quello che, per comodità e brevità, chiameremo “lirismo puro”: in “Discorso a due” c’è infatti un’entropia del poetare che costringe il testo fuori dagli schemi letterari fisiologicamente polverosi (quantunque agili)
proposti durante il secolo precedente, che getta la scrittura in versi dell’autore ligure in un costante flusso dialogico che coinvolge detto e non-detto, corpo e pensiero, fluidità e densità. Perché lo statuto di questa poesia è tutto ben disposto in un sostrato semantico che emerge con parsimonia: quello del mistero, che «si spalanca all’improvviso», rinunciando al soggetto partecipe per dare centralità all’oggetto che si raggruma attorno alle esperienze fenomeniche – trasversalmente alla natura dell’oggetto; la poesia di Neri difatti ha l’importante pregio di progredire e procedere divaricando lo sguardo cogliendo tutto ciò che circonda un io che quasi sempre è sommerso dall’esterno (un «corpo che cede / a un altro volere»); l’amore e un Abramo «patriarca aguzzino», il paesaggio (l’unico Spazio possibile) e la Storia (che determina ogni storia), tutto è condensato in un discorrere che si fa costantemente proprio e connotato. Un discorso che si fa opus e ritmo, attraverso il lavorio inesausto di una voce, smussata con fatica e perizia – una voce che scava dalle viscere del vissuto, emerge con grazia, fino a farsi vera, fino a farsi poesia.

 

ANDREA DONAERA

PATRIZIA SARDISCO RECENSISCE “DIRE” DI FABIO MICHIELI

1 commento

 

Fabio Michieli, Dire, Editrice l’arcolaio 2019
«Mi atterriscono le orme»
Orazio, Epistole I 1

Recensione di Patrizia Sardisco sul blog ALLEO.IT

La genesi di un libro di poesia è il mistero di quel libro, ed è il mistero della stessa poesia. Il libro è il custode della sua propria genesi ma è allo stesso tempo l’ariete sotto i cui colpi si aprono spaccati di luce sul mistero, brecce da cui saettando viene “– nel silenzio – tutto il bello”.
Ma prima delle fondamenta, prima di ogni genesi, ai miei occhi appare particolarmente significativa l’opera di splateamento costituita dal distico con cui si apre Dire, il libro di Fabio Michieli che, dopo più di dieci anni e arricchito di nuovi testi, è tornato ora alle stampe, sempre per i tipi de L’arcolaio: uno scavo che dà ragione tanto dell’orizzonte (per noi due) quanto del vertice aurorale (un libro chiaro) di ciò che ci accingiamo a leggere:
volevo un libro chiaro per noi due:
una pagina bianca – quasi pura
I due eleganti endecasillabi a maiore, privi come sono di maiuscole e di punti fermi, e con quell’assonanza della sola vocale tonica a fine verso, fendono il silenzio con la delicatezza della puntualità, spigano e maturano, come nella continuità di un lungo ragionare, in una opzione di poetica che dichiarano nel volgere di due soli atti respiratori: appena più dilatato il secondo, per effetto dalla cesura sottolineata dal trattino. E il soffio ricorsivo di quelle u è nunzio del filo doppio che lega il noi due di una chiave relazionale che innerva tutto il libro a un’aspirazione di purezza ed essenzialità, a una consacrata chiarezza sospinta fin quasi al paradosso del bianco della pagina, e dunque dell’assenza di dizione.
A queste condizioni, su questo campo sgomberato e spianato, Dire viene incontro come una sorta di libro bianco, se mi si passa un’immagine indubbiamente prosaica, un circostanziato strumento di testimonianza e di chiarimento, di (auto)denuncia, persino: “per il dire che non dico e potrei/ per il fare che lascio e non dovrei/ mi odio”; oppure: “non sono stato ciò che ti aspettavi”; o ancora: “a volte penso di essere un involucro/ cavo”. Un libro bianco, dunque: un album in cui le immagini trovano nel tempo collocazioni mai definitive e le didascalie sono come scritte a matita, palesando l’intento (ri)costruttivo di una tramatura aperta, offerta nel suo discontinuo infittirsi, mai davvero conclusa nella sua inquieta tessitura dialogica, “se per ogni verità riaffiora un dubbio”.
Augusto De Molo, in quella che era la Postfazione alla prima edizione di Dire, scriveva che “Chi legge si trova a viaggiare in una sorta di territorio di confine”. Ed è lo stesso Michieli, nella sua Nota alla nuova edizione, ad avvertirci che “Dire è un discorso su ciò che ci si lascia alle spalle e su ciò che ci si porta avanti, per proiettarlo nel futuro”.
Traguardando come attraverso uno squadro queste due affermazioni, la raccolta si riallinea a testimoniare la costruzione di una intensa riflessione sul tempo – limitante compiuta da un tempo – limite, mossa da un io lirico che si avverte immerso, totalmente, “corpo carne ossa e tendini e muscoli”, nel consapevole durare di un guado: “al tempo bisognava dare tempo/ e nient’altro che tempo”. Nella liminalità di una soglia simbolica che viene attraversata controvento, contro-tempo, “come se fosse vento questo tempo”, non è senza cognizione del dolore che si assume l’ustionante e il tagliente di un percorso che “costringe a camminare su roventi/ in equilibrio lamine”, anzi: e Michieli lo evidenzia con perizia stilistica, attraverso l’iperbato straniante che potenzia ulteriormente l’immagine già fortissima evocata dai versi. E tuttavia si tratta di un percorso che, se pure non condurrà a vedere, a percepire la fonte luminosa che, troppo alta e celata, rimane inattingibile, si orienta però nella direzione consona a far luce e chiarezza sul cammino: “ma l’argento si spande/ a chiarire il pensiero”.
Condizioni-limite di esistenza, il tempo, come pure la morte, come pure il corpo, si frappongono ovunque: non possono però essere attraversate e attestate su un piano di complanarità rispetto al vivere, esse richiedono un salto, quello slancio oltre l’ombra costituito del canto. La metapoesia di Michieli, il quale è anche raffinato critico letterario, e dunque avvezzo a riflessioni robuste sul fare e sul senso del fare poesia, sembra indicarci la parola poetica come ciò che, lei sola, totalità di sguardo e voce, colma e annienta la distanza tra il dolore e la sua dicibilità, tra la perdita e la possibilità di sopravviverle: “eternami nel canto!/ annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami”, implora per sé l’Euridice di Michieli. Ciò di cui il tempo spoglia, a partire da sé stesso, la dissipazione quotidiana di affetti, aspirazioni, cure e passioni, va inesorabilmente in cenere: di questo, solida e temprata, la poesia è capace di dire. Se dunque Euridice è nel sepolcreto del caduco, del rimosso, o di ciò che si è tentato di rimuovere, è attraverso la poesia che può riaffiorare in forma di voce viva, “voce che si innerva”, riscattata da un mortifero e mortificante non-detto o non-dicibile.
Davvero, in questa poesia, la voce sembra venire dalla pagina quasi puradi un silenzio serotino in cui, distintamente udibili, gli echi foscoliani di sonetti come Alla sera o In morte del fratello Giovanni si intrecciano sovente alle meditazioni del poeta: la sera, le ricorrenti mani tese, il dialogo a distanza con la madre, le ceneri, sono alcuni tra i topoi più riconoscibili, e che Michieli non solo frequenta con elegante equilibrio ma reinterpreta, capovolgendone talora la luce pacificante. È così, per esempio, per la sera, il cui alito basta “per spegnere/ il coraggio di tendere la mano”. La sera di Michieli, nel testo che come titolo riporta tra due parentesi la citazione oraziana “vestigia terrent”, contrariamente a quanto avviene nel celebre sonetto di Foscolo, non addormenta soave lo “spirto guerrier” del poeta, perché qui un vento di cenere sporca l’azzurro, mai “tutto cielo o tutto mare”; perché qui il vento “ancora sparge/ reliquie di chi arse ieri sul rogo”. Le inquietudini restano sospese, le maschere si stringono, le ipocrisie resistono, le Ceneri succedono al Carnevale, oggi come quattrocento anni fa: ma lo spezzarsi del verso tra il verbo e il proprio complemento e la conseguente rottura del ritmo tra gli endecasillabi lineari di questa splendida poesia, rendono con forza drammatica la rilevanza ineluttabile e quasi sacrale attribuita all’orma, alla memoria-reliquia che puntella una mai doma vigilanza, mentre la dura allitterazione delle erre sembra dar conto in forma sonora dell’attrito urente tra falsa morale e ragione negata.
E ancora la chiusa, un verso isolato dopo tre terzine, giunge come un brivido e, nell’indicare il prossimo spegnersi della più sfrenata tra le feste, scuote fino a scrollare via ogni illusione: come “il guscio di cicala/ nella prima belletta di novembre” di montaliana memoria, sembrano qui cadere le maschere del decadimento morale, sotto lo sguardo scuro e sicuro di Giordano Bruno, sotto il Dire ardente di Fabio Michieli, “nell’ultimo scorcio di Carnevale”.

 

Patrizio Sardisco

IL PRIMO LIBRO DEL NUOVO ANNO: “DOVE E’ VERDE L’OMBRA” DI BASILIO REALE. UNA PUBBLICAZIONE DELLA COLLANA PHI.

Lascia un commento

 

 

E’ uscito questa sera dalla tipografia il libro di Basilio Reale, intitolato “Dove è verde l’ombra“,

edito all’interno della collana “phi” curata da Gianluca D’Andrea e Diego Conticello. Del poeta Reale, morto nel 2011, potrete leggere una ricca nota bio-bibliografica impressa all’interno del volume.

Diego Conticello ci informa, nella prefazione posta qui di seguito, sul valore poetico di questo valente autore. Le poesie del presente volume vanno dall’anno 1956 all’anno 2000.

 

Buona lettura.

 

***

Prefazione

Nelle poesie sparse – qui per la prima volta raccolte in volume – e con maggiore compiutezza nelle inedite Basilio Reale, come nelle precedenti prove edite, ha sempre cercato di tradurre col suo linguaggio asciutto la realtà asfittica, alienante, soggiogante che lo circondava: la poesia, non potendo più essere concepita quale canto lirico (pur cercando una certa complicità col “cantabile”, con l’idillio erotico – affettivo), non ha mai teso alla compiutezza di un verso pieno e indipendente nella sua costruzione formale. Sono tuttavia sempre sprazzi di sentimento a risollevare il poeta dai rischi della massificazione industriale sempre incombenti.
La lingua di Basilio Reale, come quella del miglior Calvino, è contaminata, mescidata, frastagliata e multi-prospettica. Si pensi anche al Montale di Satura, in cui il poeta ligure si reinventava trattando gli effetti stranianti conseguenti la depressione del post boom economico.
La struttura versificatoria, specie nelle poesie sparse, aumenta se possibile il gradiente sperimentale: siamo di fronte a un laboratorio esattamente parallelo rispetto ai volumi editi, in cui si accentua l’idea di una “semiotica protesica”, ovvero un’arte che, come il cinema o la pittura utilizza, anche se solo nel linguaggio, alcune “protesi” del corpo umano quali telecamere, zoom ottici o pennelli, per dipingere una realtà dagli effetti sempre più stranianti e meccanizzati («Gomiti rinforzati di cuoio» e Attività no-profit). L’intento di Basilio Reale è – anche in queste prove – quello di mostrare i possibili effetti depressivi del boom, ormai palesi già alle soglie degli anni settanta.

Le poesie qui raccolte rappresentano inoltre la parallela continuazione di un canzoniere amoroso la cui «esemplarità alla rovescia», per usare le parole di Antonio Di Grado, «risulti modernamente anti-dantesca, […] sulla linea Meli – Tempio; un esercizio d’erotismo mollemente arcadico, assai raro nella nostra quaresimale e anti-erotica letteratura». L’arma di Basilio Reale in questo senso è, ancora una volta, l’ironia che fa scemare i voli del facile sentimentalismo, per restituirci un “senso” corposo, vissuto e pertanto combattuto della passione, scevro da idealizzazioni eccessivamente “romantiche” (si veda in questo senso la poesia Fine agosto e il gruppo delle inedite). Il contrasto che si dipana in alcune tra le liriche proposte è quello fra un’ipotetica donna-ninfa, la cui caratteristica principale sembra essere la “volatilità” e la “fuggevolezza” e il poeta, satiro-Orfeo pervaso da un erotismo non sempre corrisposto.
L’elegia sommessa, pacata, pura nel ricordo che ne scaturisce trasfigura, accordandosi con le liriche edite, in una sorta di “cenotafio del senso”, cenotafio anche di tutti i fascinosi sapori che una storia d’amore intensa, durata una vita, ha saputo infondere nell’uomo più che nel poeta (si vedano «Nei tuoi paesi salvati», «Il pieno si fa vuoto quando parti» e «Ritorna cadenzato il passo»). L’amore perso diviene dunque “simulacro” e «si confonde con l’amore per la morte, con il ritorno alla natura madre più indifferenziata», ma proprio perché indifferenziata ancora più terribile.
Passando invece all’immagine che ci viene restituita della Sicilia, possiamo senz’altro riconfermare che l’isola ri-appare – soprattutto nella sezione degli inediti – come luogo di pro-fonda regressione, di paradisiaca e crudele perdizione, al poeta-figlio dunque non resta che parlarne ancora una volta in termini ossessivi ma calorosi, dunque antitetici rispetto ai freddi spazî “di sopravvivenza” della metropoli milanese (Novembre).
Cos’è d’altronde la poesia se non una sostanza (melòs) dorata che il poeta ricava con sapiente arte – moderno alchimista – dal pietrame del linguaggio quotidiano, ma stavolta il miracolo non si compie, perché al poeta manca l’ausilio della terra-madre data anche la lontananza che ormai lo separa irrimediabilmente da essa.
Questo sentore dell’eternamente provvisorio, questa immediatezza mai sopita mi sembrano caratteristiche costanti di Basilio Reale, accompagnate da una cifra epigrammatica sempre votata all’immanenza.

Diego Conticello

Alcuni testi.

Novembre

Ed è dunque tornato ancora il tempo
di ritrovare le cose perdute
di risentire con le fitte a un braccio
il tuo umore, Novembre.
Dalla mia terra
bruciata di sale
ho risalito tutte le contrade
qui ho chiesto nebbia e pane.
So cosa dite, so le querele
che mi fate, amici.
Voi non sapete cosa voglia dire
nascere a Novembre;
voi non sapete cosa voglia dire
riconquistare le cose perdute.

**

Dalla sezione Poesie inedite

 

Le due rive

Attorno ai globi rossi
sulle due rive
era ogni sera
uno sciamare astioso di zanzare
che saliva dagli argini e ronzava
sopra le nostre teste.

Così cresceva il segno dell’estate,
il rifiorire d’erbe e canne sul fiume
la mia ansia d’intendere il fluttuare
delle maree ad ogni nuova luna.

**

Rifugio della notte

Su questi alberi, queste
siepi sempreverdi di pitosfori
si è allungato il tuo oblio,
e il mare tigrato là davanti
è specchio fangoso,
obliquo rifugio della notte.

 

 

RINALDO CADDEO RECENSISCE “LA PAROLA E L’ABBANDONO” DI MAURO GERMANI.

Lascia un commento

 

Rinaldo Caddeo: recensione a “La parola e l’abbandono
Dal blog MARGO

Mauro Germani, La parola e l’abbandono, L’arcolaio ed., Forlimpopoli (FC), 2019

 

Che tipo di libro è questo?
Non è un libro di poesie, anche se le prose laconiche che lo costituiscono, contengono metafore, similitudini, squarci lirici, immagini poetiche, come a pag.14: “Che davvero non esista che un ospedale di confine, bianco e sospeso nella notte, come parole dette in segreto?” o a pag.16: “C’è chi è senza soccorso, chi precipita nella notte del mondo… Chi cerca e poi trova la propria agonia fra il cielo e la polvere”.
Non è un libro di racconti, tanto meno un romanzo, anche se, a suo modo, contiene, nella prosa breve, a volte sospesa, una miriade di spunti narrativi, come a pag.31: “Conosco bene la solitudine e la tristezza di chi scrive, a capo chino, sotto il lume tenue di una lampada… È come il custode di un segreto dimenticato, un usciere senza divisa, un funambolo innamorato dell’impossibile…”.
Non è un libro di aforismi, anche se aforismi sono disseminati in tutte le pagine: “La poesia deriva non da ciò che si ha, ma da ciò che ci manca.” (pag.19), “Cerchiamo di ritornare, ma non sappiamo dove.” (pag.20), “Per quanto un ospedale possa essere pulito, avrà sempre una macchiolina nascosta da qualche parte. È quanto basta per farci rabbrividire.” (pag.21), “Solo ciò che è impossibile è degno di fede.” (pag.22), “Ognuno scrive il proprio silenzio” (pag.23), “Il bene esiste, ma è sempre in ostaggio del male.” (pag.24).
Non è un libro di poetica e di estetica, anche se di entrambe si argomenta spesso e volentieri: “La scrittura poetica è zona di pericolo, situata tra una sfuggente verità originaria e l’afasia, il silenzio, l’impossibilità.” (pag.23) o pag.69: “Un’opera d’arte non dovrebbe essere mai innocua.”
Non è un libro di critica letteraria, anche se le note letterarie sono frequenti, recise. Ci offrono da un’angolazione testuale gli auctores prediletti da Mauro Germani: Kafka, Buzzati, Leopardi, Sbarbaro, Pasolini, Rilke, Borges, Pessoa, Jabès, Blanchot, Kierkegaard, Trakl, Bernhard, Bataille, Sartre, Céline, Gaber, Giacometti, ecc., non senza incursioni nel mondo antico, intorno alla figura di Cristo e al senso originario dei Vangeli. Ma trascelgo questa osservazione che persegue radici profonde di una tematica cara all’autore: “Che cosa rende inquietante un’opera come le Baccanti di Euripide? Indubbiamente il carattere di Dioniso, il dio lacerato e lacerante, il dio folle e violento, che è mistero impenetrabile ed ultimo, come attestato dalle enigmatiche parole del coro finale: «Nulla si compie di ciò che è atteso, ma un dio trova le vie dell’inatteso». Che significa? Forse che non c’è risposta alle domande degli uomini circa il destino.” (pag.67).
E non mancano folgoranti constatazioni, note di costume, taglienti moralità: “Bisognerebbe abolire i premi letterari. I più affermati sono monopolizzati dai soliti nomi, i quali se li spartiscono tra loro, sempre ben remunerati. Gli altri sono ridicoli teatrini a pagamento per coloro che vi partecipano…” (pag.60).
Ci sono anche resoconti pacati, stupiti e rassegnati, eppure vividi e palpitanti, dell’esperienza interiore, in cui la schiettezza della testimonianza innesca un ra-gionamento e l’indagine sugli scenari onirici: “Ci sono e non ci sono, i morti nei miei sogni. Essi appaiono sfuggenti, fluttuanti, ambigui, si esprimono in modo poco comprensibile, ma soprattutto sembrano volersene andare al più presto, avere altro da fare, desiderare di ritornare da dove sono venuti…” (pag.62).
Senza una forma unica, ovvero nella molteplicità delle forme brevi tipiche delle sua scrittura, in questo nuovo libro di Germani, ritroviamo i temi cari alla sua produzione: l’esilio, il deserto, l’abbandono, l’incompiutezza, lo smarrimento, l’angoscia, il fallimento, la solitudine, l’estraneazione, il silenzio, il nulla, il sogno, la morte.
È un libro misto, al crocevia di tutti i generi e che proprio per questo carattere può lasciare sconcertati ma che proprio da questo statuto riceve il suo alimento e la sua cifra.
Insomma, una formula complessa che reperisce, in una molteplicità di pieghe e di fonti, le tracce per sviluppare una riflessione vasta e articolata, sulla drammaticità dell’esistenza.

Rinaldo Caddeo