
L’arcolaio accoglie festosamente il poeta Massimo Palazzi con il suo “Breve compendio di scenografia e prestidigitazione“. Egli esordisce nella collana “riverniciata” del Il laboratorio, lo spazio editoriale curato da Luciano Neri. Il progetto grafico è opera di Michele Zaffarano.
Sentiamo dalle parole del direttore di collana la tematica e lo stile di questa scrittura. Una prosa poesia che tenta nuove formule sulla ricerca letterario.
La parola, adesso, a Luciano Neri:
Con Breve compendio di scenografia e prestidigitazione di Massimo Palazzi, autore genovese, la collana Il Laboratorio diretta da Luciano Neri inaugura una nuova serie di pubblicazioni che guarda alle scritture di ricerca contemporanee e riprende il proprio progetto editoriale rinnovandondosi nella veste grafica (a cura di Michele Zaffarano).
Il testo di Massimo Palazzi, in linea con le aspettative testuali e creative della collana sfugge fin da subito a una definizione di genere, risultando un testo stratificato, pur nella limpidezza della prosa che lo caratterizza. Non si tratta né di un romanzo né di una raccolta di racconti, pur non essendo un saggio a tratti riesce ad assumere un registro saggistico; non si tratta neppure di un resoconto di viaggio né di un libro d’arte monografico, di certo strizza l’occhio alla letteratura ecfrastica. La descrizione è, a un primo colpo d’occhio, la sua caratteristica peculiare, o almeno sembrerebbe. Di certo il Breve compendio sfugge a un certo enciclopedismo, che qui viene contraddetto rispetto alla sua brevità, attingendo invece a un’enciclopedia delle culture orientali, a ipotesti “sapienziali” da cui scaturiscono quelle linee che l’autore intende percorrere mescolandole alle tante immagini che appaiono ad ogni pagina. Di certo il libro è uno spazio di luoghi, di una specie non definibile, dove fotografia e memoria si compenetrano, dove impressioni e figure si avvicendano. Oppure, il testo, sembra dirci Palazzi, altro non è che un modo per divulgare un mondo illusorio contemporaneamente alla sua parte in ombra, per uno sguardo che, aggiungendo pezzo dopo pezzo, si voglia prestare, come in un gioco di prestigio, alla costruzione scenografica che lo va sorreggendo, per il tramite di una scrittura raffinata e mai leziosa.
testi:
Buio
C’era una volta un tempo
in cui il prodigio dell’immagine non poteva avverarsi
se non in condizioni di completa oscurità,
quasi che la visione necessitasse di essere negata,
dando luogo a un rapporto di paradossale coesistenza
che la separazione tra il giorno e la notte,
nella chiarezza della sua distinzione, proprio non
può spiegare.
L’ambiente preposto a quegli
accadimenti era il luogo dove il buio assoluto si
manifestava nella sua entità apparentemente gigantesca,
dotata di una concretezza possente come la
muscolatura di un toro. Al suo interno, l’oscurità
veniva percepita con una sensazione quasi claustrofobica,
ma al tempo stesso sembrava capace di
espandere i confini dello spazio fino a un’enormità
insondabile. Non appena spenta la luce, il buio,
materia proteiforme e gioia dei timidi, allagava
l’ambiente e, irrispettoso di qualsiasi muro, pavimento
o soffitto che ne limitasse la dimensione,
arrivava subito dappertutto, spingendosi ben oltre i
confini della stanza che ne era piena.
Impossibile da quantificare
in termini di coordinate cartesiane, l’oscurità ha
il peso dello spazio vuoto, un peso imponderabile
nonostante il carico di tentazioni suggerite dall’azione
nascosta e dall’occasione del facile sotterfugio
che tanto spontaneamente si legano a esso. Per
quanto possa sembrare incredibile, nella maggioranza
dei casi tanta enormità finiva per esser contenuta
in stanzini angusti, sottoscala obliqui, ripostigli
e seminterrati, costretta in bagnetti e lavatoi
e in ogni altro locale di servizio appositamente
parato per far sì che l’assenza di luce si materializzasse
in tutta la sua grandezza, non solo la notte,
ma anche nel pieno splendore del giorno. Nonostante
l’ampia casistica delle possibilità, quegli
ambienti erano tutti angoli in cui era bello rifugiarsi
o nascondersi, come quando, per giocare,
i bambini si rintanano sotto i tavoli o sotto il
peso delle coperte del letto e inventano capanne
e castelli per il gusto di entrare e uscire da quelle
loro proprietà, forse rievocando inconsciamente
una sensazione di sicurezza prenatale.
Curioso era anche il modo
in cui l’esigenza di ottenere la totale oscurità determinava
l’aspetto di quelle stanze che oggi, agli
occhi di chi non fosse al corrente della loro funzione
rispetto allo sviluppo delle pellicole e alla
stampa di fotografie, potrebbero apparire costruzioni
bizzarre e perfino un po’ inquietanti. Erano
soprattutto la porta e le eventuali finestre, sigillate
perfettamente, a evidenziare l’ingegnosa casistica
della fabbricazione artigianale del buio. Frequente
era l’uso di pannelli di cartoncino, polistirolo o
compensato leggero, che venivano usati per coprire
le fonti di luce senza indugiare nell’estetica del
risultato. Chiodi e strisce di nastro adesivo erano
lasciati in piena evidenza e resi ancora più visibili
sulle pareti chiare della stanza dall’uso prevalentemente
del nero, il colore caro all’oscurità che sembra
volerla invocare omaggiandola.
Guardare oggi i densi strati
di pittura opaca, i fogli di plastica nera e i pesanti
tendaggi di una vecchia camera oscura suscita
fantasie che contemplano la relazione tra simili
paramenti e l’apparizione delle immagini. Viene
da pensare ai drappeggi che accompagnavano la
mostra dei quadri nelle esposizioni Ottocentesche,
ai baldacchini sotto ai quali negli stessi anni
sedeva, tra velluti e broccati, la carismatica figura
di chi si faceva tramite degli spiriti dei defunti e,
ancora, all’arredamento delle sale teatrali e cinematografiche.
Attraverso la fenomenologia degli
apparati scenografici che sono stati costruiti come
premessa e corollario all’apparizione di immagini
statiche e in movimento si potrebbe scrivere una
storia del buio come condizione necessaria al manifestarsi
della visione. Lasciandosi trasportare dalla
suggestione di tutto questo nero, affiorerebbero alla
mente altre camere molto più oscure, sotterranee,
senza finestre. Camere in cui si viene introdotti
aprendo una robusta portiera, borchiata come la
pelle di una sella e pesante sui cardini, camere che
hanno pareti di controllata morbidezza, completamente
foderate di gomma nera imbottita. Alcune
sono state costruite per il diletto di chi le frequenta
altre, purtroppo, no. Ecco una cella di contenzione
per i prigionieri della Stasi a Berlino, luogo dove
l’esercizio del potere si espleta nel provocare rivelazioni
improvvise e confessioni inaspettate di colpe
neanche vagamente immaginabili altrove.
Teatro, niente altro che
teatro. A proposito di costruzione dell’oscurità e
apparizioni, viene da pensare che l’affermarsi dello
spazio nero che tanta fortuna avrebbe avuto sul
palcoscenico contemporaneo, luogo delle apparizioni
per eccellenza, possa risalire all’epoca nella
quale un trucco noto come “Black Art” si affacciò
sulle scene degli Stati Uniti. La preparazione dello
spettacolo prevedeva che l’intera cavità del palco
fosse foderata di velluto nero e che l’assito fosse
coperto di feltro in modo che alla totale assenza
di elementi visibili corrispondesse una altrettanto
totale assenza di rumore. La regolare illuminazione
del palco veniva sostituita da una serie di lampade
a gas, disposte lungo il limite del pavimento e i due
stipiti del boccascena per abbagliare leggermente
il pubblico e rendere il retrostante spazio ancora
più nero. Il prestigiatore, in abiti chiari, stupiva gli
spettatori facendo apparire e scomparire dal nulla
tavolini e grandi vasi, all’interno dei quali, come
alcuni ritengono che le anime dei defunti si reincarnino
in animali e corpi diversi, trasmigravano
arance e altri oggetti prestati dal pubblico. Solitamente
il numero terminava con l’apparizione di
uno scheletro danzante le cui membra si scomponevano
muovendosi liberamente sul palco, infondendo
stimolanti brividi di terrore nella platea per
poi ricomporsi e scomparire definitivamente con la
stessa velocità con cui era comparso. Il trucco c’era
e come ogni buon trucco era facilmente spiegato:
invisibili al pubblico, ma sotto gli occhi di tutti fin
dall’inizio dello spettacolo, gli assistenti del prestigiatore
erano responsabili delle apparizioni e delle
sparizioni. Completamente vestiti di nero, provvisti
di guanti e un cappuccio di velluto che consentiva
la loro totale scomparsa, coprivano e scoprivano
gli oggetti con panni neri e li trasportavano
da un punto all’altro del palcoscenico, muovendosi
agili e silenziosi come gatti nudi nella notte.
Negli stessi anni in cui si
diffusero simili spettacoli notturni, le prime indagini
cronofotografiche avevano affrontato la difficoltà
di ottenere in pieno giorno uno sfondo
perfettamente buio su cui scomporre in singole
posizioni il movimento di un determinato soggetto
scelto per lo studio. Per evitare che imprevisti
riflessi di luce generassero involontarie esposizioni
della lastra sensibile e fastidiosi offuscamenti
sulla figura ripresa, lo sfondo doveva essere privo
di superfici riflettenti, impresa non facile dato che
perfino una parete dipinta di nero o coperta di velluto
sarebbe risultata inadatta se usata in piena luce
diurna come era necessario che fosse. Anche in
questo caso, come sul palco, la soluzione fu lo spazio
di una cavità, la costruzione di un contenitore
dove imprigionare il buio e tenerlo al riparo da
ogni fonte luminosa. Fu così che il bisogno di ottenere
la totale assenza di luce determinò la trasformazione
della superficie del fondale in uno spazio
tridimensionale che aveva l’ingombro di un fabbricato
di circa dieci metri per dieci, completamente
oscurato con velluto nero e catrame sul pavimento
e aperto in corrispondenza della parete che doveva
fare da sfondo. Tale era la misura del buio, il trucco
di un’illusione simile a quella della “Black Art”,
non più rivolta a stupire agli occhi del pubblico
spalancati nel silenzio della sala, ma architettata
per ottenere una corretta impressione della luce
sulla lastra fotografica attraverso l’occhio di vetro
dell’obiettivo.
Il prodigio che si verificava
nella camera oscura, madre di tutte le immagini,
apparentemente non contemplava trucchi o
inganni. Tutte quelle che oggi potrebbero sembrare
costruzioni scenotecniche erano in realtà interventi
mirati a vincere un’unica grande sfida che rientrava
nell’oggettività delle leggi fisiche di propagazione
della luce. La sfida era quella di evitare ogni
minima infiltrazione luminosa proveniente dall’esterno
pur garantendo un’adeguata ventilazione
dell’ambiente e una limitata circolazione di polvere
nell’aria. All’interno della camera oscura, non
appena trascorsi i pochi minuti necessari all’occhio
per adattarsi all’oscurità, un buio falso si sarebbe
rivelato con l’evidenza della presunta aurea psichica
visualizzata dalla fotografia Kirlian: a poco a poco
il tracciato luminoso di un mondo insospettato di
fessure e spiragli avrebbe disegnato i contorni della
stanza e di fatto compromesso il paziente lavoro
svolto dall’operatore nell’intimità di quel suo rifugio
segreto. Tuttavia, chiunque si sia trovato ad
allestire una camera oscura, anche solo per provare
a sviluppare e stampare le proprie foto delle
vacanze al mare trasformando i gioiosi colori delle
giornate estive in un malinconico bianco e nero, sa
che in realtà anche in questo luogo, proprio come
sul palcoscenico, un piccolo gioco di prestigio era
concesso. La costruzione delle cosiddette trappole
di luce che, in una grande varietà di soluzioni,
coniugavano l’esigenza di lasciar passare l’aria con
quella di bloccare la luce proveniente dall’esterno
della stanza, necessitava infatti tutto l’ingegno di
un trucco sofisticato. Il segreto era spezzare la propagazione
rettilinea dei raggi luminosi convogliandoli
nei meandri di un labirinto, piccolo o grande
che fosse, le cui superfici interne venivano dipinte
di nero opaco per prevenire gli effetti della riflessione
della luce sulle superfici. Talvolta, c’era anche
un filtro, posizionato all’ingresso della trappola,
per limitare la quantità di pulviscolo presente nella
stanza. Nelle camere oscure più esoteriche e professionali,
l’ingresso era del tutto privo di porta,
sostituita da una di queste trappole in versione
gigante.
Oggi conosciamo il mondo
principalmente attraverso le immagini fotografiche.
Dai tempi dell’invenzione della camera oscura
queste prove dell’esistenza delle cose si sono moltiplicate
a dismisura diventando tanto pervasive
da inseguirci ovunque noi siamo e restituirci l’esperienza
del mondo con tanta apparente fedeltà
da sostituirsi a essa e rendere sempre meno rilevante
la distinzione tra realtà e illusione. La questione
della differenza della verità dal simulacro si
è evoluta al punto da ridursi a una sterile e cap-
ziosa speculazione, invero inutile e obsoleta. Come
la caverna di Platone per l’ontologia e la gnoseologia
del pensiero occidentale, la camera oscura, di
cui probabilmente molto presto non resterà memoria,
è l’inconscio arcaico dell’immagine fotografica.
Rispetto alla luce, questa gioca lo stesso ruolo che,
nella seduta spiritica, la rappresentazione teatrale
assume rispetto all’invisibile.
Massimo Palazzi è nato a Genova nel 1969. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, Herbarium Vietnamensis (979-12-200-3857-7), autoprodotto e stampato in 100 copie tramite una fortunata campagna di crowdfounding.