Articolo di Angelo Manitta pubblicato su «Il Convivio», anno XX, numero 4, ottobre-dicembre 2019, p. 29.

L’esistenzialismo negli aforismi di Mauro Germani:

La parola e l’abbandono

Qualunque libro di aforismi si presenta quale assembramento di pensieri sparsi, che hanno però un filo conduttore. Basti pensare al Notturno di Gabriele d’Annunzio, e alla sua particolare origine di pensieri scritti su striscioline di carta, che hanno come oggetto la scoperta del sé e della propria fisicità. Il libro di Mauro Germani che mi accingo a leggere, La parola e l’abbandono (L’arcolaio, Forlimpopoli (FC), 2019, pp. 88), è un libro di aforismi, ma nella brevità della scrittura affronta una tematica abbastanza vasta, pur attraverso il filo conduttore dell’esistenzialismo.

«Bisognerebbe rileggere spesso Thomas Bernhard per capire, una volta per tutte, che cosa significa una scrittura che non è semplice esercizio di stile, ma espressione drammatica dell’esistenza». Da questo pensiero, tratto da un aforisma di Germani, se ne intuisce già la tematica. Infatti in questo volume si possono trarre alcuni nuclei di riflessione: l’essenza e il significato della vita, il senso della morte, il dramma dell’esistenza di Dio, lo smarrimento dell’uomo nel mondo, la solitudine e il deserto, l’enigma dell’amore e dell’odio, la coscienza della propria corporeità, la sconfitta esistenziale. La scrittura diventa quindi elemento fondante di conoscenza e di trasmissione di conoscenze, oltre che di emozioni. La parola scandaglia l’esistenza dell’uomo, come viene anche evidenziato dai titoli delle due parti in cui è divisa l’opera: La solitudine della parola e La parola e l’abbandono, quest’ultimo oltretutto titolo dell’intero volume.

L’uomo è frammento d’universo e lui stesso è frammentato, in quanto è costituito da «schegge d’amore o di pietà, di idee o di rimpianti, di poesia o di sogno», perciò i quesiti che si pone sono sostanzialmente riconducibili a questo: qual è il significato dell’esistenza umana nel mondo e nell’universo? Infatti, «sapremo mai perché siamo nati, perché abbiamo incontrato certe persone e non altre, perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, perché moriremo proprio dove moriremo e in quel preciso momento? Sapremo mai perché certi amori sono stati impossibili o non ricambiati, perché abbiamo avuto sventura oppure no, perché tutto ci è capitato in un modo e non in un altro?» (p. 17). Da queste domande, spesso irrisolte, scaturisce la solitudine dell’uomo e la sua disintegrazione. È come se vivesse in un deserto, che rappresenta il nulla, ma è proprio la memoria di questo nulla che egli deve recuperare. Il pensiero attraverso la scrittura può esserne un mezzo, in quanto lo scrittore è l’unico a poter essere «preso da una forza oscura e da una vertigine più grande di lui» (p. 19). Il nulla esiste in funzione di una nascita e di una coscienza della vita, il nulla è conquista del deserto, terra di silenzio, d’attesa e di riflessione, che da una parte precede, ma dall’altra annulla la parola. Questa non ha una funzione assoluta, essa spesso si confonde e si svuota del suo senso, provocando uno stordimento interiore, che lascia trapelare il dubbio della conoscenza e della certezza. La parola non è la soluzione definitiva del pensiero, ma la coscienza del «compimento di ciò che non si può compiere» (p. 28). Se la scrittura quindi da una parte appare come mezzo salvifico, dall’altra diventa mezzo di condanna perché chi scrive conosce bene il suo abbandono e la sua tristezza. A questo non esiste alcun rimedio: l’uomo sa di essere condannato alla solitudine e alla morte.

L’altro tema esistenziale infatti, trattato dal Germani, è il rapporto vita-morte, il riflettere sul significato dell’una e dell’altra. E per assurdo, essendo, questi, atti essenziali dell’esistenza, sono «entrambi destinati a non essere ricordati», e quindi a rimanere «incoscienti», trovandosi tra le forme dell’abbandono proprio la morte. Nasce quindi, per evitare l’annullamento, la questione della presenza di Dio, quesito che l’uomo si è posto ab origine e, pur essendo giunto spesso alla conclusione che Dio è morto, la Sua ricerca si fa costante. Se la sua conoscenza si muove tra certezza e negazione, all’uomo non resta che il dubbio, ma è proprio quest’ultimo a renderne viva l’esistenza, in quanto per vie diverse risulterebbe che «Dio è morto, l’uomo è in agonia e il Diavolo gode ottima salute» (p. 46); allora sarebbe più «onesto affermare il dubbio ed il mistero, l’ignoto abissale che è in noi ed oltre noi».

Ancora una volta, quindi, che cosa può salvare l’uomo? Forse la parola, la poesia e il pensiero? Ma non sempre è così, perché anche la parola ha i suoi limiti e le sue incertezze. Infatti dire che «la poesia possa salvare la vita» a volte è «vergognosa ed imperdonabile menzogna», in quanto non si avrebbe «il minimo rispetto nei confronti di tutti i poeti morti suicidi» (p. 59). La poesia mostra sempre quella «tensione di dire l’indicibile che è l’esistenza» e «si situa in questo margine mobile, sfuggente e misterioso».  Ma permette di raggiungere la sublimazione dell’animo? Forse sì, se può fare prendere coscienza dell’inquietante verità: l’assolutezza del nulla, che è «come se la vita vissuta non avesse avuto alcuna importanza» (p. 72). In questo gioco universale di vita e di morte, di creazione e di distruzione, infatti, i morti «continuano a morire nel nulla: è la morte invisibile del nostro tempo, la morte impronunciabile, bandita da ogni pensiero» (p. 75).

Numerose sono le annotazioni esistenziali che Mauro Germani ci offre in questo prezioso volume, un libro di massime ed aforismi da leggere, da rileggere, da meditare, da ripensare. Il suo pensiero non corre però solitario, si serve spesso e riprende l’atavica tradizione della cultura occidentale a partire dall’antichità per giungere ai nostri giorni, filtrando anche il suo pensiero attraverso quello di Aristotele, Euripide, Heidegger, Leopardi, Kafka, Sartre, Pavese, per giungere a Savinio, Sbarbaro e numerosi altri. Qui la parola fa da tramite tra il nulla e la conoscenza, e diventa espressione dell’esistenza dell’uomo. Attraverso di essa l’uomo-poeta annota caratteri sociali ed esistenziali, ma nello stesso tempo comprende l’amarezza profonda del proprio essere, dei rapporti umani, del mondo che va alla rovescia. La parola, che appare sospesa tra la vita e la morte, non può che testimoniare drammaticamente quindi la solitudine dell’uomo contemporaneo, pur lasciando un lieve barlume di speranza, come si può leggere nell’ultimo aforisma, posto non a caso alla fine:« Chi raccoglierà le parole abbandonate della poesia, questi strani doni tra la vita e la morte, questi singhiozzi solitari? Le parole aspettano nell’ombra, escono dalle loro tombe di carta, vogliono risorgere per un po’, sconfinare, prima di sparire per sempre nell’oblio».

ANGELO MANITTA