Dalla prefazione di Nevio Spadoni

 

Prima parte.

La poesia dialettale del secondo Novecento in Romagna s’inaugura a partire dalla metà degli anni Quaranta, sotto la spinta di un canto nuovo ad opera di Antonio (Tonino) Guerra. Sulla scia del santarcangiolese opera poi uno stuolo di poeti che nel giro di qualche decennio hanno determinato una notevole fioritura neo-volgare, con novità espressive rispetto alla poesia degli autori del primo Novecento. Troviamo così individualità quali Walter Galli, Nino Pedretti, Mario Bolognesi, Raffaello Baldini, Tolmino Baldassari, per citare solo alcuni maggiormente conosciuti, senza però dimenticare i più giovani, ultimi in realtà a essere cresciuti nel dialetto come prima lingua. E ormai il dialetto è divenuto per chi scrive, un idioletto, lingua non pura, quando – per scelta o che – è idioma meticciato.

Ora, nella suggestiva cornice di una Cesenatico leonardesca, col suo porto canale, dove i trabaccoli  in fila come tante ballerine attendono le ore rubate al sonno dei pescatori,  un’altra voce, dopo quella di Leonardo (Leo) Maltoni, esalta questo luogo antico e prezioso: Daniele Casadei, peraltro non nuovo alla poesia, e comunque voce decisa, cresciuta nel dialetto come prima lingua. La sua poesia, si scioglie in un canto, tradizionale e moderno al contempo, voce svincolata da rigidi legami metrici consueti, anche se qua e là compaiono rime e un ricorso prevalentemente a endecasillabi settenari e a quinari.

S-cén è una raccolta eterogenea che comprende poesie di misura breve, epigrammi, aforismi, favole, componimenti che nascono da detti e modi di dire dei vecchi, rielaborazione di narrazioni quale, ad esempio, E’ séc cun e’ bùs (Il secchio col buco), poesia che si rifà a un suggestivo racconto cinese.

Alcuni testi:

U s’era fisé

U s’era més int la tèsta

ch’l’era trop gras.

U n’era miga vera

ma lo u s’ era fisé

u n’ gn’i durmiva la nòta.

L’avéva una gran paura

che j’amig il tulés in zir.

E acsé l’avéva det cun tót

ch’u s’era tólt

la bicicléta da cursa

par smagrès.

 

Quant u s’è invié,

tót tiré cum un curidór,

l’è pasè davènti a e’ cafè

pianin, pianin.

Ciòu! A la pràima disaisa

l’à ciapè una curva trop fórt

e u s’è infilè,

cun i pia lighé,

int un fòs pin d’urtìghi.

Quant i l’à cavè

l’era gvantè cum un palòn.

 

I l’à ciapè pr’e’ cul una vita.


 Era fissato

 Era convinto

di essere troppo grasso.

Non era vero

ma lui era fissato

non ci dormiva la notte.

Aveva paura

che gli amici lo prendessero in giro.

Così aveva detto a tutti

di aver comprato

la bicicletta da corsa

per dimagrire.

 

Quando è partito,

bardato da corridore,

è passato lentamente

davanti al bar.

Alla prima discesa

ha preso una curva troppo forte

e si è infilato,

con i piedi legati,

in un fosso pieno d’ortica.

Quando l’hanno tirato fuori

era diventato un pallone.

 

L’hanno preso in giro una vita.

***

Miséria

I n’avéva un bòc da sbat in cl’ètar,

figurés se j’avéva i bajóc par tó la legna.

D’invéran, quant j’era propi a la disperaziòn,

j’andéva drja la mura de’ campsènt

in du ch’i butéva i péz dal càsi da mórt

dóp ch’j’avéva cavè la sèlma.

Ma cla legna l’avéva una póza, ma una póza

che dop un po’ uj tuchéva spalanchè la finèstra.

E acsé …

tót al volti ch’j’azàndéva e’ fugh par scaldès

i s’ muriva da e’ fred.

(Fatto realmente accaduto)

 

Miseria

 Non avevano un soldo da sbattere nell’altro,

figurarsi se avevano denaro per comprare la legna.

In inverno, quando erano disperati,

andavano vicino al muro del cimitero

dove gettavano i resti delle bare

dopo aver esumato la salma.

Quella legna però aveva un tanfo tale

che dopo un po’ erano costretti a spalancare la finestra.

Così …

tutte le volte che accendevano il fuoco per riscaldarsi

morivano di freddo.

***

Dalla prefazione di Nevio Spadoni (seconda parte)

Già il titolo S-cén (Uomini) della raccolta è emblematico, ad esprimere quel rapporto di ambivalenza col mondo di ogni essere razionale e con una vita di esperienza viva alle spalle, in una dinamica di amore e di tensione, con uno sguardo ora sofferto ed ora compiaciuto, a tratti pennellato di compassionevole e leggera ironia.

Già nelle prime liriche: E’ lèdar (Il ladro), Una gràn bèla persona (Una gran bella persona), ma anche Cum e’ cambia e’ mond (Come cambia il mondo), troviamo personaggi stravaganti e figure macchiettistiche che con evidenza richiamano la scrittura del cesenate Walter Galli, personaggi votati alla emarginazione e carichi di miseria estrema. Sono bozzetti legati a un quotidiano di uomini e donne che hanno conosciuto una vita di stenti, di sofferenze, di solitudine.

Non poteva poi mancare un riferimento al suo mezzo espressivo, E’ mi dialét (Il mio dialetto), a fotografare per intero il romagnolo di un tempo, apparentemente rude, sanguigno, lavoratore, legato alla sua terra, al suo mare, e ai valori tradizionali della casa e della famiglia, come in La piénta dla faméja (L’albero genealogico), dove si snoda un percorso a ritroso a significare che i s-cén (Gli uomini) sono tutti della stessa pasta. E qui viene spontaneo il riferimento al Quasimodo di “Sei sempre l’uomo della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”.

Come in tutti i poeti romagnoli, il tema della morte è sempre presente, con quel grumo di paura e di mistero che gli fa dire: “Meglio morire tutti i giorni che una volta sola”, anche se, come scriveva Antonio (Tonino) Guerra, “la morte non è noiosa, viene una sola volta!”.

Ovunque c’è un riferimento alla sua Cesenatico, evidente particolarmente in  Quant arìv a Ziznàtich (Quando arrivo a Cesenatico), una dichiarazione esplicita d’amore per la sua terra e per ciò che si respira in quel dolce paese, elementi che riconducono al conterraneo Maltoni. Proprio lì, in quel paese, si sono consumati drammi e sciagure legate al lavoro duro dei marinai: in La spósa de’ marinèr (La sposa del marinaio), quelle parole assurgono ad emblema del dramma della donna di chi affronta la dura fatica, sfidando i marosi, nell’angosciosa attesa di un ritorno che le circostanze rendono quanto mai incerto.

Ma in Casadei, accanto alla storia di fatiche, di duro lavoro, compaiono anche macchiette paesane di un mondo che non ritorna. Il poeta tutt  avia ha occhi aperti anche sulla realtà odierna, con ironia sottile e disinvolta arguzia a pennellare l’oggi con le sue contraddizioni, storture e vizi di questa società ormai opulenta, adoratrice di feticci, di falsi valori e schiava di bisogni indotti, e alienanti (beni, danaro, potere), che non possono appagare il cuore dell’uomo; a confrontarli, pare sulla scia della filosofa un-gherese Ágnes Heller, con quelli radicali, che attengono  alla più intima radice

NEVIO SPADONI