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GILBERTO ISELLA, SU L’AVVENIRE, RECENSISCE “QUADERNO A RIGHE” DEL POETA JEAN SOLDINI. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”, DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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Gilberto Isella, Uscire dai margini: la sfida poetica di Jean Soldini, in “L’Osservatore”, 23 marzo 2024, p. 2.

Non c’è da stupirsi che un filosofo e critico d’arte come Jean Soldini ponga in evidenza, nel proprio lavoro poetico, il supporto fisico della scrittura, le coordinate spaziali entro cui essa prende vita. Quaderno a righe (L’arcolaio, Forlimpopoli 2023, prefazione di Angelo Maugeri) s’intitola infatti la sua ultima raccolta, con poesie scritte tra il 2014 e il 2022. Un titolo umile, spartano, quasi crepuscolare a prima vista, ma che in realtà ci consegna la matrice del “pensare” poetico operante nell’intero libro. Tema centrale è la fuoriuscita dai margini. La percezione quotidiana del reale, simboleggiato dal ristretto quaderno, lascerà posto al manifestarsi di luoghi pluridimensionali, concreti e metafisici allo stesso tempo, che il vedere corrente occultava: «Quaderno a righe, / ognuna un’ingiunzione/ Eppure non s’arrestavano/ ai limiti del foglio. / Andavano a far mappe in capo al mondo, / grammatiche aleatorie». Una faccenda di limiti e di soglie, per farla breve, dietro alla quale preme una “metafora ossessiva” – come direbbe Charles Mauron – ereditata dall’infanzia. La necessità di oltrepassare uno spazio chiuso e tenace, meccanicamente assorbito dall’abitudine, l’intento di conferire alla scrittura poetica i requisiti di un atto prossemico, incentrato sulla dialettica prossimo/distante in relazione allo sguardo, rammentano il titolo di un’opera precedente, Cose che sporgono (2004). Nel Quaderno la “cosa”, vale a dire il presupposto magistrale, non può che formularsi in una domanda: «A che stirpe appartiene / lo spazio tra due cose?». Verremo a sapere che lo spazio è anche fucina dell’indecidibile, dove si rifrangono contraddittoriamente «coerenza» e «cadenza confusa». Non di rado, in tale processo, s’insinua l’inatteso, il freudiano unheimlich.

Luoghi e presenze umane, compresa l’ombra sottile delle passioni che li attraversano, sono offerti per scorci e sineddochi, in un’alternanza di dislocazioni di varia entità, tra avvicinamento, allontanamento o scambio delle parti, a dipendenza della natura del guardare: «Schizza l’occhio verso l’alto / nel cortile, / s’arresta e riprende a ogni piano». L’importante sarà circoscrivere un punto d’avvio: lo sguardo e il mezzo con cui esso si realizza. Il foglio rettangolare può allora farsi finestra sul mondo, come insegna l’artista Hopper: «una finestra/ superato il dislivello tra pavimento / e baldacchino appuntito», «Finestroni sulla marina, custodie trasparenti». Nelle intelaiature poco euclidee di Jean, anamorfosi e torsioni hanno vita facile.

Le mediazioni tra soggetto e oggetto si rivelano talvolta finestre simboliche complesse, come in certe vedute dell’arte barocca, dove il conseguimento dell’oggetto avviene talvolta per «prospettive a cannocchiale»: «paesaggio le cui linee / prolunghi / e delle tue continuazione». Una «strana estraneità», per parafrasare liberamente Timothy Morton. È anche il momento in cui l’individuo prende coscienza del proprio essere sporgenza da entità naturali, l’erba per esempio. Magari epifania «irrilevante» ma senza dubbio promossa da un impulso d’amore, come si evince da Irrilevante, testo ispirato non a caso dalla Venere dormiente di Giorgione.

A metà strada

Interrogati i respiri, le loro distanze

c’incontriamo a metà strada

per coerenza o cadenza confusa.

Sulla riva, più ritti del solito,

i pioppi.

L’erba s’inclina e il primo buio

disgrega il tepore del giorno.

DANIELE ORSO RECENSISCE “NUOVO INIZIO” L’ULTIMA OPERA POETICA DI GIANLUCA D’ANDREA. COLLANA ROSSA DE L’ARCOLAIO, DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI. ARTICOLO TRATTO DAL BLOG PORDENONELEGGE POESIA.

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CON “NUOVO INIZIOGIANLUCA D’ANDREA E’ FINALISTA

ALL’EDIZIONE 2024 DEL PREMIO PRESTIGIACOMO.

DANIELE ORSO, SU PORDENONELEGGE POESIA, RECENSISCE “NUOVO INIZIO”,

DI GIANLUCA D’ANDREA. COLLANA ROSSA DE L’ARCOLAIO DIRETTA DA

GIANFRANCO FABBRI.

Joe Cooper, all’interno di un buco nero conformato a mo’ di tesseratto di eventi (occorsi e futuri), al centro della singolarità cosmica, osserva la propria vita e, in essa, frutto luminoso, sua figlia, con cui cerca di mettersi in contatto per avvertirla del modo onde poter salvare il loro (e nostro) pianeta. È una delle scene culminanti di Interstellar, film di Christopher Nolan di ormai dieci anni fa, la cui trama ricalca il motivo/pretesto di Nuovo inizio, l’ultimo libro scritto da Gianluca D’Andrea e pubblicato da L’Arcolaio nel 2023. Anche in questo libro come nel film di Nolan, un individuo si trova all’interno di una “capsula” spaziale, dopo essere fuggito da un’ apocalisse planetaria la cui natura non viene svelata (al contrario nel film viene specificato trattarsi di una carestia dovuta a un’inarrestabile epidemia di peronospera, un parassita del granoturco, a distruggere irreparabilmente e progressivamente sempre più piantagioni, campi e derrate cerealicole), ma oltre cui è facile scorgere l’ombra dell’ultima pandemia virale da COVID-19, periodo durante il quale è stato composto il libro.

Iniziamo in medias res, all’interno della capsula dove l’io lirico che meno lirico non potrebbe essere, e dunque designeremo coll’appellativo solitamente confinato al campo narrativo (ma, poiché narrativo è l’andamento di questo poema/poemetto, ci sentiamo autorizzati all’utilizzo) di “protagonista”, si trova in una fuga dall’apocalisse ormai compiuta. Inizia con l’aria di una filastrocca, in rima quasi baciata, facile, cantabile, come a dire che il mondo che credevamo finire con fragore, può anche finire col ritmo giambico di una farsa comica (e d’altronde clown sono spesso i personaggi beckettiani). Però la riflessione esige la precisione della prosa, e immediatamente, veniamo fatti parte del motivo che spinge il protagonista alla catalogazione delle proprie e altrui vicende esistenziali:

“Più le condizioni sono critiche, più abbiamo bisogno che il vissuto sgorghi, irradiando verosimiglianza”.

Flashes, spots, illuminazioni, brevi reels della memoria digitale, transitano sullo schermo della mente episodi storici, eventi sportivi, accadimenti (Carl Lewis e Ben Johnson alle olimpiadi dell’88, la dittatura argentina, l’avvento dei fast food), nella solitudine del protagonista. È, in fondo, anche un grande romanzo sulla solitudine, sull’egocentrismo, in cui l’io si dispone contro il mondo, a ricreare un non-mondo, un romanzo fichtiano, in cui la storia non entra mai in contraddizione, semmai si pone di lato, già tutti i conflitti superati in maniera temporale, non valgono più, non servono più a nulla, dialetticamente non risolti. Tutto è pacificato perché ormai, avvenuta la fine della Storia, non conta più stabilire la ragione e il torto. Nel flusso lineare del progresso, il nichilismo occidentale esalta il mito della fine e dell’inizio, non è consentito il ritorno se non come amarcord disarmato. La solitudine è anche alienazione del sé dalla Storia e dal mondo. Krapp che riavvolge il nastro della propria vicenda esistenziale, il protagonista non può fare altro che inventariare le tacche della propria (occidentale) filosofia della storia (su cui tutto sovrasta l’occhio terrorizzato dell’Angelus Novus benjaminiano, esplicitamente richiamato nel testo).

D’Andrea compone con Nuovo Inizio la seconda parte di un dittico iniziato con Nella spirale, ma dove là il passaggio attraverso la crisi finale era affrontato con le armi dell’esubero formale, con un’ efflorescenza neo-barocca, tanto qui prevale la trattazione scientifica, asettica:

“Anche supponendo che l’opera non abbia senso in quanto unicum, l’accozzaglia di frammenti vela una motivazione: l’artefice in ogni elaborazione risponde a un consenso virtuale, a una pulsione intima e necessaria di trasformazione del percepibile. Per questo è sempre in gioco la virtualità del reale, che si vuole effettivo attraverso un percorso di conoscenza”.

Catastrofismo distopico ballardiano, poetica delle rovine di Kiefer, i frammenti evocati rispondono a un vissuto impersonale: un “si dice”, “si è fatto” in cui la particella heideggeriana “si” vela l’io lirico che sfuma tra i paesaggi cosmici e gli spezzoni video da teca Rai. Nulla consente di risalire alla personalità del protagonista (tale per cui si potrebbe dubitare della sua concreta esistenza):

“Il vero scopo di questo gioco a nascondere sembrava risiedere in una volontà passiva che non cercava indizi e non credeva in alcun mistero”.

Uno, nessuno e centomila, chi scrive potrebbe essere chiunque e, dunque, nessuno. Un No-man che, come l’Angelus novus, volta le spalle a un futuro inesistente e si ripiega (nostalgico più che orripilato) sul passato mediaticamente documentato (che solo se filmato o registrato in audio/video esiste). L’uomo ridotto alla propria nuda vita continua nell’impossibilità di continuare, un po’ per istinto di sopravvivenza nonostante tutto, un po’ per entomologica curiosità di come la fine si svolga (in un alternarsi di scene giovannee); ma tale fine mai giunge essendo anche la fine stessa una sorta di prodotto commerciale da consumarsi in uno stato di eccitazione indotto.

Quanto la prima sezione è avara di appigli al privato del protagonista, tanto la seconda sezione si apre su termini familiari: “casa”, “infanzia” e “zona intima” di un rifugio personale (costituito da coniuge e figli) ritrovato. Un attraversamento della soglia logora attraverso cui il passaggio degli affetti scandisce il trascorrere del tempo. Eppure, anche in questo ritrovato nido, l’io è pur sempre solo, combattuto tra la noia di un confinamento tra le pareti della propria casa e il dolore vivo di visioni di un impossibile contatto con l’altro (se non per immagini splatter di un massacro onirico e reale, reale proprio perché profetizzato dal sogno):

“non mi interessa il dolore che attiva la vita tra la noia e il nulla, tollero ogni presenza, amo la solitudine che si prolunga fino all’apparizione dell’altro che avevo dimenticato e che per questo mi sorprende”.

Ed è proprio all’interno del paradiso ritrovato delle relazioni intime che si apre la voragine di un universo distopico e post-apocalittico, in cui, come per il padre de La strada di McCarthy, ciò che conta è solo l’affetto familiare del figlio, della persona amata, da preservare e far durare. Nell’alternarsi tra veglia e sonno (di un delirio prodotto da una febbre reale e metaforica, da congestione del subconscio) in cui, come per il narratore della Recherche o il protagonista di Ferito a morte di La Capria, la concretezza dell’ambito domestico sfuma in un dormiveglia più reale del reale, dove anche le notizie di cronaca (“uomini sequestrati su una nave,/ il microcosmo della necessità/ che aspetta di rompere il guscio,/ la sfera si richiude/ sul mondo dell’individuo”) vengono respinte dalla sproporzione di un Io (reale) contrapposto al Mondo (dai contorni di “fake news”). Un viaggio attorno alla propria stanza (e giù lungo l’inferno della propria commedia) in cui è impossibile stabilire la realtà della stanza stessa, un cervello pensante la propria vasca ma che non riesce a stabilire la veridicità della vasca stessa. In cui ciò che conta è il senso della propria fine, la consapevolezza della propria finitezza. L’uomo nichilista che ritrova il senso del proprio andare, del proprio cammino (#incammino è l’hashtag delle foto che D’Andrea viene pubblicando in questi anni) nella necessità della preservazione del mondo (reale e fittizio che sia) come una condizione di esistenza della propria discendenza, come un malato che, sul punto di morte, dopo una notte di delirio, si sleghi le bende e riscopra la luce del sole tra i rami degli alberi del mattino nuovo. Un nuovo inizio, dunque, ma non privo di responsabilità verso il futuro che, a sua volta, dietro l’immagine delle nuove generazioni (Greta Thunberg metamorfosata), viene a chiederci conto delle nostre responsabilità. Una quest cavalleresca, una migrazione verso la luce, alla fine di cui una figura celestiale ci elenchi le nostre colpe. Non c’è redenzione se non nell’affetto dell’altro da cui siamo salvati nella stessa misura in cui ci siamo mossi per salvare:

“magnetismo di frammenti d’esistenza che attraversano tasselli dell’altro nel buio che tutto abbraccia”

solo questo alla fine dei nostri giorni conterà. In un universo minaccioso e insidioso, nella prossimità della distruzione della propria casa e delle stesse condizioni di esistenza, l’unico attimo luminoso, in grado di riscattare la propria perdizione all’interno dell’infinità di eventi occorsi e occorrenti, è l’immagine della propria figlia, cui Joe Cooper si affida, pur soffrendo per l’impossibile contatto, proprio come il protagonista di Nuovo inizio che, al termine della salita, è pronto a recuperare il masso precipitato in fondo, affinché il proprio bene possa proseguire il cammino.

Daniele Orso

L’ARCOLAIO PUBBLICA L’ULTIMA OPERA DEL SUO TITOLARE, GIANFRANCO FABBRI. NON E’ POESIA, E’ UN ROMANZO IL CUI TITOLO, “GENTE DEL NOVECENTO”, NARRA LA SAGA DI UNA FAMIGLIA DEL SECOLO PASSATO.

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DALLA NOTA EDITORIALE, IN QUARTA DI COPERTINA, FIRMATA DA ENZA VALPIANI.

Gianfranco Fabbri ci fa dono di una epica saga familiare che attraversa quattro generazioni ed abbraccia tutto l’arco cronologico del Novecento.

Gli eventi del secolo sono molto più che lo sfondo delle vicende dei personaggi, sono il leitmotiv che li scandisce ed accompagna: non solo gli accadimenti storici, le guerre, le rivolte, ma anche la dimensione della musica e della cinematografia formano il tessuto su cui si snodano e in cui si rispecchiano le trame di vita dei protagonisti.

La cifra dominante della narrazione è il paesaggio, un Casentino arcaico e mistico, da cui tutti i personaggi si allontanano, serbando dentro di sé le ferite di inquietudini ancestrali, tuttavia addolcite poeticamente da una mitica nostalgia del passato e della natura.

Una parte del romanzo:

Francesco Tavanti nella battaglia di Caporetto.

La realtà al fronte stava cambiando. Ben presto Francesco smise di metter su case matte e fu inserito nel battaglione come effettivo. Il mese di settembre e la prima metà di ottobre erano stati periodi, non dico tranquilli, ma insomma neanche impossibili. Il 24 ottobre, però, in piena notte, alle due e mezzo circa, ci fu un accerchiamento improvviso degli austroungarici, con rinforzi tedeschi. Fu un mezzo macello. Caddero tanti soldati italiani e tanti austriaci, e per il Regio esercito italiano si capì subito che le cose stavano mettendosi male. Le armi del nemico erano più moderne, addirittura sofisticate. I colpi dei cannoni, da ambo le parti, furono senza soluzione di continuità. Anche i giorni successivi gli attacchi non finivano: fino al 19 di novembre fu un inferno. I morti cadevano a terra, non si poteva neanche prendersi cura di loro, se non si voleva finire ammazzati. Giorno dopo giorno, fu tutto un disperarsi, un gridare “Avanti Savoia!”, mentre chi andava avanti era soltanto il povero fante che in mezzo alle trincee ci lasciava la vita: il più delle volte dilaniato dalle bombe e fatto a pezzi, letteralmente. I lamenti degli agonizzanti erano insopportabili; ancora di più lo erano gli improvvisi silenzi, dopo i lamenti, dopo che i morenti avevano pronunciato nomi di mamme, mogli, di figli e d’Iddio!

Fu in quelle circostanze che il rapporto fraterno tra i soldati raggiunse un livello addirittura sentimentale.  Alcuni saltavano il muretto per raggiungere un collega agonizzante, e non di rado chi voleva far del bene ci rimetteva la pelle.

Dentro la trincea il caos era sovrano. Si correva avanti e indietro: chi portava dispacci al tenente colonnello, chi riferiva ai superiori i nomi dei ragazzi che al momento non erano presenti all’appello. Francesco e Alvaro riuscirono a non perdersi di vista. Aurelio e tanti altri avevano a che fare con i pidocchi e con gli sfoghi della pelle. Si grattavano, non andavano più di corpo ed erano paradossalmente invidiati da quelli che invece trattenevano a stento la funzione intestinale, (non sapendo dove andare a liberarsi di quel tormento). Era davvero l’inferno: il tanfo, la puzza nauseabonda, la povertà dei corpi, la fragilità dell’essere umano.

La condanna più dolorosa era comunque la mancanza dell’acqua; acqua per bere, per lavarsi, come se il lavarsi fosse anche la metafora di una detersione “superiore”: quella dell’anima raccomandata al Signore.

All’alba del 19 novembre, un velo sottile di nebbia nascondeva una specie di girone infernale. I bombardamenti erano cessati, le cannonate pure. I campi limitrofi alle trincee erano tappezzati di cadaveri morti malamente. Ancora dei lamenti labili appena percepibili si levavano in qualche angolo. I vivi cercavano di soccorrere i feriti alla bell’e meglio con lettighe fatte con due assi di legno e un lenzuolo teso. Il cappellano militare, quando lì era previsto, dava la benedizione ai cadaveri. Un’atmosfera di incredulità si levava, a poco a poco, con il velo di nebbia, verso il cielo sereno. Il freddo pungente rendeva dure e compatte le salme, il primo sole autunnale si alzava come sempre, a manifestare la propria indifferenza alle cose del mondo. Dalla mite collina apparve Caporetto, il piccolo paese che diede il nome a quella terribile battaglia.

Nelle ore successive furono portati via anche i soldati che erano morti dentro le trincee un po’ per il gelo e un po’ a causa della fame. Le furerie, infatti, non poterono consegnare più alcun rancio, a causa dell’incrocio di fuochi delle due parti nemiche. Al sommario appello di alcuni giorni dopo mancavano migliaia di presenze. Si scoprì che anche Francesco era assente. Si sperava fosse disperso tra i campi, stordito o forse impazzito in quel luogo inverosimile. Parecchi ragazzi del ’99 vagavano per le campagne senza un perché, piangendo come bambini. Quando fu stilato un “inventario umano”, venne fuori la verità: lungo tutta la linea del fronte erano caduti circa diecimila soldati italiani. Il nome di Francesco non appariva però nella lista dei morti riconoscibili. Nulla, nessuna traccia. La verità era un’altra: Francesco era stato fatto prigioniero dagli austriaci. (…)

TORNA GLORIANA VENTURINI CON IL SUO TERZO ROMANZO, “MARIUCCIA DEGLI SPIRITI” CON LA PREFAZIONE DI GIANNA COLETTI E LA CURA DI ENZA VALPANI. COLLANA LE PROSE.

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Ritorna in Arcolaio Gloriana Venturini amica ed autrice che ha già pubblicato con noi due importanti opere di narrativa, conseguendo premi e successi a livello nazionale.

Impreziosito dalla prefazione della nota attrice e scrittrice Gianna Celotto, il libro si incentra sul complicato ma profondo rapporto tra madre e figlia, sviscerando problematiche attuali, legate alla vita delle donne d’ oggi, divise tra i compiti di figlie, madri, nonne e giustamente desiderose di ritagliare anche per sé una vita sana e serena.

La tematica è seria, ma Gloriana scolpisce la figura di mamma Mariuccia con un tono tragicomico di nostalgica ironia, regalandoci una piacevole e fluida lettura, a tratti esilarante.

Enza Valpiani

L’incipit:

1 – CONSIDERAZIONI DI UN BAMBINO

“Nonna Gloriana perché la nonna Mariuccia è la tua mamma ma tu le fai da mamma?”

Giacomo a sette anni mi vede alle prese con mia madre alternando comportamenti affettivi ad atteggiamenti di rimbrotto perché oramai, anche se alle volte tenta di ribellarsi, è abbastanza sveglia da capire che le fila del gioco le devo tenere io e non più lei.

“Nonna, lo dovresti intitolare Mariuccia Puccia il nuovo libro!”

“Perché Giacomo, cosa c’entra?”

“Sei tu che dici così di lei!”

Ci penso un po’, mi viene in mente “Mariuccia polenta e puccia”, è così che la chiamo per scherzare. Certo perché non può essere una cosa seria, mia madre non ha mai amato cucinare, mangiare no, le è sempre piaciuto, anche se al salato predilige i dolci di tutti i tipi e “le pucce” come chiamano i sughi da queste parti, li ha sempre gustati solo se tassativamente senza pomodoro, al massimo con una spruzzatina di salsa in tubetto, una vera indecenza. Però sai Giacomo che in fondo hai ragione, un nome che usi solo in famiglia unito a un condimento sa di buono, serve per cercare appunto di salvaguardare le cose positive che ci sono in questa storia di vita, mentre per quelle decisamente meno buone c’è l’antidoto dell’ironia, aiuta a spiegare tante situazioni che altrimenti ci farebbero troppo male all’animo o solleverebbero ancora torrenti di rabbia. Tutto scorre, l’acqua va verso il mare e rimescola i suoi contenuti in un salmastro che disinfetta i cattivi pensieri e restituisce in cambio nuova vita. È andata così anche per Mariuccia Puccia e sua figlia.

Prefazione di Gianna Coletti:

“Mariuccia”, già il titolo mi ha conquistata. Mi ricorda mia madre che quando vedeva situazioni che lei giudicava infantili esclamava irritata: “Se l’è l’Asilo Mariuccia?” un modo di dire milanese usato spesso a sproposito perché non si tratta di un vero e proprio Asilo nido, come la maggior parte di noi pensa, ma offre Asilo a donne e minori in difficoltà.

Ho adorato sin dalle prime righe questo libro che si legge in un battibaleno. Gloriana Venturini ha una scrittura vivace, senza fronzoli, spesso ironica.

Da subito ci sentiamo vicine all’autrice che si definisce “figlia di salvataggio” e alla Mariuccia, donna di grande simpatia e madre dalla personalità forte, prorompente, e se vogliamo anche un po’ ingombrante come lo sono le madri che, in virtù di quello che erano, invecchiando non sono facilissime da gestire.

Chi si prende cura di una persona cara sa il duro compito che le spetta. Si arriva quasi sempre impreparate; per me, per esempio, è stato difficilissimo vedere mia madre perdere un qualcosa giorno dopo giorno. I sentimenti che ci agitano in queste situazioni sono gli stessi: tormenti, paure, sensi di colpa, gioie per un momentaneo miglioramento della persona fragile, per una carez-za inaspettata che riceviamo o per una battuta comica.

Non è facile diventare madri dei propri genitori per molti motivi. I conflitti del passato ogni tanto si fanno sentire nella nuova relazione, o forse accudire una persona che ha ancora un carattere combattivo, pur non ragionando alla perfezione, mette alla prova il nostro equilibrio psicofisico, ma l’autrice non si tira mai indietro nel raccontare.

Non pensiate che “Mariuccia” sia una storia solo personale. “Mariuccia” parla a tutti e a tutte noi, “figlie di salvataggio”, che ci ritroveremo anche a ridere per il rapporto capace di regalarci incredibili sprazzi di felicità.

Gianna Coletti

UNA USCITA EDITORIALE ECCEZIONALE: “BEPPE FENOGLIO, IL COMPLESSO EQUILIBRIO TRA VITA E SCRITTURA”, DI GIULIA CARPIGNANO. DUE VOLUMI PER UN TOTALE DI 900 PAGINE. COMPLIMENTI ALL’AUTRICE. VENT’ANNI DI LAVORO IMPECCABILE. COLLANA “PROSE E SAGGI”.

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La casa editrice L’Arcolaio è lieta di accogliere nel novero dei suoi autori l’opera prima di una nuova scrittrice e saggista: Giulia Carpignano. È uscito ad inizio gennaio, per la prima volta in Arcolaio, un doppio volume ponderoso, dedicato ad uno dei grandi autori del Novecento, dal titolo:” Beppe
Fenoglio Il complesso equilibrio tra vita e scrittura” a cura di Enza Valpiani e con la prefazione di Anna Luisa Santinelli. In copertina il primo volume reca una foto un poco insolita di Fenoglio partigiano gentilmente concessa dalla figlia dell’autore, Margherita; il secondo volume invece mostra lo scrittore a Ginevra in età più matura, con in mano due emblemi significativi della sua vita, un libro e una sigaretta, foto scattata dall’amico Aldo Agnelli, di proprietà dell’Archivio del Centro Studi Fenoglio di Alba.

L’opera assai corposa (più di 900 pagine) si rivela come la più completa rassegna odierna di studi fenogliani mai pubblicata e include anche una attenta disamina dei più recenti scritti, che in questi ultimi anni di importanti ricorrenze hanno contribuito a onorare la memoria dello scrittore.Come scrive Anna Luisa Sentinelli nella prefazione: “Nel1922, quasi come un simbolico anticorpo di contrasto al fascismo, nasceva lo scrittore piemontese che da Vaccaneo è stato definito

come voce inconfondibile del Novecento italiano, che non si sarebbe mai confuso
con nessun coro.”

La ricchissima documentazione di Giulia Carpignano trapela dalla cura certosina con cui sono stati ricostruiti  gli interventi critici relativi all’ intera produzione di Fenoglio, dalle giovanili prove di traduzione fino alla complessa gestazione del “libro grosso” sulla guerra partigiana, come egli stesso definiva Il partigiano Johnny. Non minore attenzione l’autrice ha dedicato al Fenoglio privato: nella sua ricerca quasi ventennale ha indagato anche il vissuto dello scrittore, intervistando gli amici d’ infanzia, come Didina Albesiano, i compagni e i professori del liceo Govone, i partigiani, le persone significative per la sua crescita culturale come la figura della sua docente d’ inglese Anna Lucia Marchiaro, mentore per quanto riguarda la sua anglofilia e la sua evoluzione letteraria.

Qui sotto riportiamo la nota editoriale della curatrice del libro, Enza Valpiani:

Al termine del periodo di celebrazioni del centenario della nascita e dei sessanta anni dalla morte di Fenoglio si compie la più che decennale ricerca di Giulia Carpignano, che ne mette a fuoco la complessità della vita e delle opere. La biografia, modellata su di un accurato esame delle fonti storiografiche, è completata da testimonianze ed interviste, anche inedite, che ritraggono l’”uomo” e i suoi valori dall’infanzia al periodo resistenziale e oltre. Con scrupolosa cura è documentata l’opera dello scrittore, dalle composizioni giovanili, alle traduzioni, ai modelli letterari e civili cui si è ispirato, ai rapporti con l’editoria. L’ esplorazione della vasta compagine bibliografica si arricchisce talvolta di nuove ed interessanti ipotesi interpretative, come nel caso di “Ur partigiano Johnny”. Con la chiarezza di chi si rivolge ad un lettore appassionato e il rigore dovuto alla schiera degli specialisti, l’opera ha il pregio di includere gran parte delle più recenti pubblicazioni, confermandosi, come precisa Anna Luisa Santinelli nell’introduzione: “un aggiornamento delle precedenti biografie ed uno strumento valido per la futura ricerca”.

Giulia Carpignano è nata da famiglia astigiana nel 1953 a Torino, dove si è laureata in Lettere ad indirizzo di storia dell’arte. Ha lavorato sempre nell’amministrazione pubblica (archivi, biblioteche, musei), ed ha pubblicato articoli relativi alla storia locale e a Beppe Fenoglio.



L’ARCOLAIO ACCOGLIE CON PIACERE JEAN SOLDINI CHE PUBBLICA NELLA COLLANA “I CODICI DEL ‘900” IL SUO ULTIMO LAVORO: “QUADERNO A RIGHE”. PREFAZIONE DI ANGELO MAUGERI.

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Un nuovo poeta entra a far parte del catalogo de L’arcolaio. Il suo nome è Jean Soldini, ticinese che attualmente vive a Marsiglia. Soldini è anche filosofo di notorietà internazionale. Attraverso le parole del prof. Angelo Maugeri, che appare in questo lavoro come prefatore, apprenderemo le caratteristiche di questa nuova raccolta di Soldini. “Quaderno a righe” è il suo titolo.

Vi invitiamo a una lettura attenta e profonda. Seguiranno alcuni testi in ordine sparso.

gf

Prefazione di Angelo Maugeri.

Variabili del reale

Questo Quaderno a righe, nuova e importante raccolta poetica di Jean Soldini, si presenta come una sequenza variamente vissuta e intimamente elaborata di momenti scambievoli fra normale quotidianità e attività del pensiero. Pieni di trepido stupore, i testi riescono a trasportarci nell’habitat mentale di un poeta attratto o incuriosito da aspetti familiari ontologicamente ed emotivamente ricchi di mistero. Le riflessioni che animano i diversi componimenti scaturiscono sempre dall’osservazione attenta di una realtà, necessaria nella sua contingenza, da cui emergono fatti e figure, minimi accadimenti e ricordi personali, episodi e situazioni dalle sorprendenti implicazioni e rifrazioni interiori. È certo il percorso di un uomo in cui poesia e vita si corrispondono nella ricerca di verità come intimità con le variabili del reale.

Più precisamente, Soldini passa da composizioni che rimandano a significati da scoprire, a composizioni dall’esplicita apertura di senso, e spesso le due forme si compenetrano, e si completano, in perfetto equilibrio fra geometrica astrattezza e tangibile concretezza, visioni impersonali e partecipazione autobiografica.

Con le prime, l’autore non si arresta “ai limiti del foglio” – come chiaramente enunciato nei versi che danno il titolo al volume e che possono considerarsi una sorta di manifesto poetico: «Quaderno a righe, / ognuna un’ingiunzione. / Eppure non s’arrestavano / ai limiti del foglio. / Andavano a far mappe in capo al mondo, / grammatiche aleatorie. Là fuori. / Storie di affinità, / una piuma dietro il monte / una nave un merlo sfumature di bianco / neve e calce sotto il sole, / variazioni per aria riscritte dall’aria» (Quaderno a righe).

Con le seconde, l’osservazione avviene mediante una particolare modalità dello sguardo, vale a dire un adeguato distanziarsi da ciò che viene osservato. Modalità spesso “fredda” – “distante”, appunto – effettuata come guardando attraverso i vetri di una finestra («Batte intanto la pioggia contro i vetri, / ha trovato il ritmo giusto; / così le sue scie discendenti / sempre nuove, o le stesse? / che riprendono mai stanche / a scivolare da identico, tremulo punto», Il ritmo giusto). L’oggetto esterno diventa, così, soggetto interno, pronto a offrirsi alla luce dell’occhio indagatore (tanto dell’autore quanto del lettore), e tuttavia, nel medesimo istante, per una sorta di moltiplicazione di specchi, l’osservato diventa a sua volta osservatore non solo dell’osservatore ma anche di ciò che lo circonda. È quanto avviene, per fare un solo esempio, nei versi di Racchetta-elastico-pallina (una scena alla Edward Hopper?): «Palizzata di legno illividita dal freddo / lesionata dall’ombra di un albero, / guardata all’esterno da casette per gli attrezzi / ma più grandi, abitate. / All’interno, un giro d’erba ai suoi piedi, / lastroni di cemento / catino di plastica in mezzo, / e il ragazzino in equilibrio sulla trave. / Tre caselle più in là, / una bambina con racchetta-elastico-pallina.»

I vari “soggetti”, ancorché fissati nella dimensione statica della scrittura, finiscono per assumere un ruolo dinamico: fanno dei “gesti”, “raccontano” o “descrivono” qualcosa. Messi a fuoco frontalmente, pur espressi in un linguaggio trasparente, iconico – orizzontale nel loro inseguirsi di riga in riga, di verso in verso –, rimandano a significati impliciti in un verticale, vertiginoso, calarsi nell’intimità dell’anima.

Ed ecco, dunque, la parola: “anima”. Parola-parabola da porre, a parer mio, a fondamento dell’intera silloge. Sono numerosi i riferimenti ai vari fenomeni della natura: aria, acqua, vento, cielo, sole, luna; ma il mare è figura dominante. Non a caso, a proposito dell’anima, è la poesia intitolata Mare a darcene credibile contezza: «Tace l’anima / se tendi l’orecchio / per udirne i crucci o l’esultanza. / Tace se ti ostini / a scorgerla dentro di te. / Pausa lunga, / è il mare dei tuffi / di ognuno e di tutti / da cui riemergi e ti asciughi / come corpo al sole.»

In questo passaggio dal reale al simbolico attraverso l’immaginario, l’anima assume un aspetto del tutto nuovo: tace se si cerca di auscultarla, se si tenta di definirne l’essenza; e la distesa del mare che la rappresenta, diventa un luogo indefinito, o indefinibile, “anima mundi” in cui immergersi e da cui riemergere sentendosi parte integrante e sostanziale della comunità umana o dell’intero esistente. 

Soldini sa come servirsi dei sensi – soprattutto vista, udito, tatto – per gestire la materia dei versi e permearla del proprio afflato lirico («La senti a volte, la materia, / affanno d’un ordine stanco / o riso d’ordine troppo sicuro di sé», A volte la materia). A tal fine concorre l’adozione di una lingua la cui levità sintattica si accompagna a un nitore lessicale esemplare, con talvolta agili venature illustrative (come accade, per esempio, in Gamberetto di roccia, un testo fortemente significativo dedicato al processo di muta del crostaceo).

E la “parola” diventa protagonista assoluta. Si vedano, a tal proposito, le poesie Farla franca, Plateau, Ali di parole, Arriva in fretta, Quattro chiacchiere, nelle quali la “parola” si articola in un caleidoscopio di situazioni dove assume aspetti e scopi diversi: immagina di poter salire a cavalcioni su una pietra in volo (come un personaggio di Rudolf Erich Raspe?); si appiattisce in un rimescolio serale di paccottiglia televisiva; mette le ali per un volo “al momento senza meta”; “arriva in fretta… alle labbra, alla mano”; si ferma a formulare “quattro chiacchiere col cassiere del minimarket”.

Le scene non riflettono solo momenti fantastici, ma attribuiscono sensibilità e volontà anche agli elementi apparentemente inanimati: gli argini appoggiati alla riva “guardano” il passaggio di un pesce sotto un ponte (Rotta di pesce); un vento “sconclusionato” “s’infila tra ombra e ombra per sfiancarci” e, “estinta ogni voce”, spinge verso braccia accoglienti (Vento); il “profilo di rocce tremule e ferme” scova un “trapezio d’acqua” dove un ragazzino, come un acrobata circense sull’altalena, plana “in bilico tra terra e mare”, incurante di sapere a chi appartengano le mani che “attende dall’acqua argentea” (Trapezio d’acqua); un tulipano “dritto t’investe, ti tira a sé”, ti costringe a sprofondare nel suo calice, dove “t’aspettano cielo vento freddo caldo pioggia in un puro moto circolare ben deciso a durare” (Tulipano).

Per Soldini, fra uomo e natura insiste comune intelligenza, mutua “comprensione”, poiché l’uno non può fare a meno dell’altra. La natura viene percepita con una reattività razionale, millimetrica nel suo tracciare divisioni di linee “tra terra e mare”, “tagli” di luci e ombre, opposizioni fra elementi (“gorghi d’acqua-pietra”), ombre “sulla cresta del giorno”, “variazioni per aria riscritte dall’aria”, “scie (di pioggia) discendenti” sui vetri, un albero che con la sua ombra “lesiona” una palizzata di legno… Singolari dettagli fisici che consentono di acquisire risonanza simbolica, di accedere a una visione metafisica del reale.

Il mondo di questo Quaderno è un mondo di movimenti lineari, di precise prospezioni e introspezioni, di intimi rapporti spaziali fra le cose e i loro interstizi. «A che stirpe appartiene / lo spazio tra due cose?» si chiede Soldini, e si risponde: «Indugia millenni o pochi istanti, / aspetta un sussulto / che lo assegni ad altre soglie» (Tra due cose).

Per Soldini, il far poesia si inscrive in un territorio linguistico il cui codice comunicativo lavora al più alto grado di autenticità. Ciò che fa di lui una delle voci poetiche più avvincenti e più sicure della sua generazione, non solo di lingua italiana.

Angelo Maugeri

I testi:

Finestroni sulla marina

Finestroni sulla marina,

custodie trasparenti

per falde di notti senza stelle,

velature

da passioni traghettate d’attesa in attesa.

Scorrono

poco sotto la trabeazione

poco sopra il nulla,

una bicicletta arrugginita

una donna africana

il suono di un barattolo colpito dal piede.

Stamani, niente di più scintillante al mondo.

***

Irrilevante

Lasciarti cullare da quel che vale e non vale

come Venere dormiente *,

paesaggio le cui linee prolunghi

e delle tue continuazione.

Non più eccitazione delusione indifferenza,

non più convogli della volontà,

carovane incaponite,                                          

smarritesi in una folata d’astrazione,

evaporate senza riprendere fiato.

Ridestandoti, ma non t’eri assopito,

felicemente irrilevante ti sporgerai dall’erba.


* Faccio riferimento alla Venere dormiente del Giorgione (1508-1510 circa, olio su tela, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister).

***

Passaggio

(per Mario Ferrari)

Una sagoma remota 

dopo la lontananza.

Ora la precede.

È una bambina forse.

Sulle spalle di un padre

di una madre.

Né partenza

né ritorno

solo passaggio.

Gli occhi aperti

dietro la mano che li protegge

come il turbinio della sabbia

scherma i colori

velandoli

dei suoi minuti frammenti.

***

Là in fondo

(per Eva Carbonchi)

Entra nell’ombra delle case,

la strada.

Appena più in là se ne esce, in pieno sole,

scortata di verde e di bianco.

Salendo, gravità e corsa s’arrestano

ai limiti del mondo.

Là in fondo, è sommità e abisso

dove il nulla evapora,

e tutto è possibile

più reale del reale visto e toccato.

ANTONIO DEVICIENTI RECENSISCE DUE LIBRI DI MICHELE MONTORFANO: IL PRIMO SI INTITOLA “TUTTO IL CINEMA E’ ADDIO” -PUBBLICATO DALLA CASA EDITRICE GRAPHE.IT EDIZIONI- E L’ALTRO , PUBBLICATO CON NOI, LA BELLA TRADUZIONE DI “QUATTRO QUARTETTI” DI T.S. ELIOT.

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Il cinema, l’Addio, i Quattro Quartetti secondo Michele Montorfano

di Antonio Devicienti. Via Lepsius

          Nel libro di Michele Montorfano Tutto il cinema è Addio (Graphe.it Edizioni, Perugia 2022) c’è un punto preciso di congiunzione con un altro lavoro dello stesso Montorfano, vale a dire con i Four Quartets (Quattro quartetti) da lui tradotti per L’arcolaio di Forlimpopoli pure nel 2022 – immediatamente a inizio di Tutto il cinema è Addio Montorfano immagina che a un uomo della società arcaica che ci dicesse che siamo «sempre più sprovvisti davanti al terrore della storia […] risponderemmo con un gesto. Risponderemmo indicando l’estremità di un qualcosa che ci viene incontro e che si apre solo nella misura in cui avanza. Qualcosa che consegna un immaginario di desideri, di suggerimenti, di allusioni e di ambiguità posandoli su un orizzonte inaspettato e attraversato dai confini della mondanità. Qualcosa che passa nella nostra quotidianità con i suoi frammenti d’intellegibile lasciando dietro di sé la forza d’irruzione di un sentimento e la distanza di una possibilità. Ciò che si avvicina è un corpo senza unità che ci sfida in una semplice pluralità d’incanti, di luce e di dettagli, un canto discontinuo di amabilità. E questo è già l’inizio di una salvezza che coincide con il piacere. L’incontro che diventa l’attimo del tempo, “l’attimo nel giardino delle rose, l’attimo sotto la pergola dove batte la pioggia”, l’attimo dell’incontro dove accade l’inaudito» (pp. 11 e 12). È in Burnt Norton, il primo dei Quattro quartetti, che Eliot scrive i versi riportati da Montorfano avviando una complessa riflessione sul tema del tempo che, a ben vedere, è anche uno dei temi fondanti di Tutto il cinema è Addio; ma cinema e Addio (si noti l’iniziale maiuscola del secondo vocabolo) sono i cardini attorno cui ruota un lavoro che è filosofia e poesia, che tende il linguaggio come un arco per dire di qualcosa che è «Il cinema prima del cinema […] Il cinema che è il nostro vivere, rivivere» (p. 13) e che «[…] l’Addio è il luogo delle apparizioni. È il luogo dove l’immagine si deposita nella sua contemporaneità assoluta. Per questo il cinema non finisce mai continuando a finire. Per questo l’Addio inizia lasciando dietro di sé le ceneri e le modulazioni del fuoco, cenere che continua a bruciare, cenere che è presenza in un assente assoluto dove ciò che appare può essere continuamente salvato» (pp. 67 e 68 passim).

          Tutto il cinema è Addio è un dittico le cui due valve (Dentro di me e Lembi, strappi, ombre) sono due scritti che attraversano e saggiano, per dirla alla maniera di Giorgio Agamben, “l’idea del cinema” intesa come un archetipo della mente, delle culture, del subconscio e dell’inconscio umani – è «ciò che succede in noi a trenta piedi di profondità dove una vita, ancora senza nome, scorre e ci affascina incarnando il terrore delle cose che ancora non sono. È l’orifiamma di un regno da incarnare e da edificare. È il fascino di ciò che, non essendo ancora, può essere e che a un angolo della strada o sdraiati nel letto ci fa immaginare rotte segrete da percorrere in piena notte per arrivare a qualche isola favolosa, un posto che abita nelle profondità del nostro cuore e che nessuno ha mai visto, ha mai navigato e non ha mai avuto» scrive efficacemente Michele Montorfano a pagina 12; ed è verissimo, se solo si pensa all’etimologia del vocabolo cinematografo che è uno scrivere col movimento o anche uno scrivere il movimento, quindi un dare espressione al continuo e inarrestato movimento del pensiero e dell’immaginazione, della psiche e del sogno, del desiderio e del timore, dell’inconosciuto e del rimosso, della memoria e dell’aspettazione, del respiro, del battito cardiaco. “Tutto il cinema” viene così a significare sia il cinema della nostra interiorità, sia quello fisico della sala cinematografica e del film proiettato sul grande schermo; a tal proposito Montorfano scrive altre pagine coinvolgenti e illuminanti: «Se proviamo a riportare alla mente una delle qualsiasi sale cinematografiche che abbiamo abitato per qualche ora, subito si distenderanno sotto di noi tutte quelle parti che la compongono e che noi attraversiamo quasi volando, sospinti dall’emozione di accedere finalmente a un incontro che è una vera e propria festa. Un evento che diventa subito avvenimento. Ma se a questa visione euforica noi opponiamo una visione cartografica noteremo come la sua pianta sia equivalente alle piante delle camere funerarie egizie, al tumulo, agli ipogei: uno scavo comprendente un ingresso con battenti di chiusura, un corridoio di solito corto dal quale si penetrava nella camera dove una presenza eterna doveva essere protetta dallo scorrere del tempo. // Così il cinematografo ha un ingresso dove attendere e dove l’impazienza di vedere, di frequentare, di assistere può iniziare a lampeggiare nonostante il suo atrio non sia propriamente come quello delle case o delle biblioteche o quello più metaforico di un libro ma costruito in modo tale da spingerci solo verso l’interno senza più tornare indietro. Le sue aperture sono a senso unico e le chiusure magicamente celate, sigillate, non più specifiche ma universali» (p. 17) – e infatti a pagina 28 si possono consultare la pianta e lo spaccato della Tomba reale di Sant’Angelo di Muxaro e la pianta del Tumulo di Montecalvario di Castellina in Chianti disegnati da Bruna Pisano: l’oscillazione continua che Michele Montorfano stabilisce tra il cinema quale esperienza del profondo e il cinema quale forma d’arte («Il cinema, nel suo momento più semplice, è ovunque», p. 29) non solo conferisce al libro un’impostazione e uno stile peculiari, ma ne fa un’opera che costringe ad abbandonare tutte le idèes reçues relative al cinema, ché Tutto il cinema è Addio è, tra l’altro, libro che cerca un lettore innamorato: «Se il lettore affascinato segue con attenzione lo svolgersi di un poema o di una storia, stupendosi per i suoi punti di incendio, le ombre che si allungano diventando il nero della terra arsa o luoghi che siano la controprova della propria fascinazione, il lettore innamorato oltrepassa il balbettio del volume del linguaggio e si getta nel sequestro del proprio cuore. […] Per il lettore innamorato […] la trama dei fili è il puro gioco dell’abrasione, il gioco del possesso che si torce e si angoscia, l’irrequietezza che si scontra con le profondità della propria attenzione dissipandolo totalmente e gettandolo nella sfinita immobilità che è l’alba del proprio godimento: un’apertura sull’inatteso» scrive Montorfano nel testo (Ouverture) da lui premesso ai Four Quartets (p. 13), e nel libro consacrato al cinema: «Sono ferite. Ferite che si aprono enon smettono di sanguinare. Brillante, copioso, questo rito dell’aprire diventa il piacere sul proprio abisso, il rito ostensivo che il mondo popolato vuole santificare o punire e che, fatalmente, non può cambiare perché cambiare sarebbe distruggere la propria vita interiore. // Cosa resta allora da capire su questa strana carta geografica? Come scrisse Bataille, capire è fare esperienza del salto, è saltare… Resta da capire la via attraverso la quale si salta… In altri termini, resta da creare fino all’inimmaginabile, fino al punto per cui una parola consunta smascheri il volto dell’impossibile» (pp. 61 e 62) – infatti «Chi quindi inventò la lacerazione? Amore. / Amore è il Nome ignoto / delle mani che cucirono / l’intollerabile camicia di fuoco / che nessuna forza uman può strappare» (Four Quartets, quarta parte di Little Gidding, p. 115) – e insisto in questo mio tentativo di lettura incrociata tra i due libri perché sono convinto che Michele Montorfano abbia dato vita a un discorso coerente intessuto tra i due poli (Quattro quartetti e cinema), dipanato di volta in volta grazie agli strumenti del filosofo, del traduttore, del poeta, dello studioso della cinematografia, del filologo e che salda fortemente tra di loro i due libri: che egli (come in effetti fa) rifletta in Tutto il cinema è Addio su specifici film come Drive, Casablanca, Elephant, The tree of life, 8 ½ oppure cerchi il “cuore” dei Quattro quartetti, pratica quella che mi permetterei di chiamare la scienza dell’Addio: «Questo il nostro struggimento: una ferita che è più di un sogno e che la dolcezza non attraversa. Una ferita che ci segue quando ci alziamo e abbandoniamo la sala percorrendo a ritroso la strada che abbiamo già percorso. Una ferita che afferma furtivamente che l’unica verità del cinema è la doppia realtà nella quale siamo immersi e che continuamente attraversiamo. […] È l’Addio del naufrago che continuamente cerca la riva anche quando l’oceano l’ha sottomesso. È l’Addio che precede continuamente la storia di qualche passo senza mai arrivare alla solitudine […] // Sia che lo guardi con gli occhi sia che lo porti nel cuore nelle strade è Addio. // Anche quando è un carcere è Addio. E se la prigione diventasse un giorno il solo luogo dove un uomo libero potrà soggiornare con amore, è Addio lo stesso. […] Questo è l’Addio: da una parte è la scomparsa, dall’altra la frenesia della gioia della scomparsa, ossia il futuro di ciò che non è ancora. Ciò che è possibile. // Aprire l’Addio, aprire questa sua scatola, non è fare i conti con la strage dell’affidamento, dell’affidarsi; è semmai trovarsi di fronte a un piacere e un godimento perennemente nascosti nella scelta che opera ritardandosi e mantenuta continuamente sospesa. La sua è un’operazione di taglio dove due bordi, la lacerazione della separazione e la speranza del ricongiungimento, si guardano in un tempo che ha il proprio affetto nel suo contorno» (pp. 24 – 26 passim).

          L’Addio è, dunque, la necessaria condizione-soglia, il movimento del pensare e del sentire che chiude e apre, è il ritmo stesso del vivere. E non a caso leggiamo nella quinta parte di Little Gidding: «Ciò che chiamiamo principio spesso è la fine / e porre a fine è porre a principio. / La fine è il nostro cominciamento. E ogni locuzione / e sentenza che sia giusta (dove ogni parola è al suo posto, / nell’ordine dovuto per sostenere le altre, / la parola né diffidente né ostentante, / in agevole scambio tra l’antico e il nuovo, / la parola comune esatta senza volgarità, / la parola formale precisa ma non pedante, / l’intero gruppo in armoniosa danza) / ogni locuzione e ogni sentenza è una fine e un principio, / ogni poesia un epitaffio. E ogni azione / è un passo verso la lama, verso il fuoco, giù, nella gola del mare / o verso una pietra illeggibile: quello è il nostro inizio» (Four Quartets, p. 117).

          Infatti «Quando i film finiscono e la sala è un brusio, uno ad uno scostiamo i teli neri che nascondono le uscite, ci riappropriamo dei nostri passi, usciamo verso la sera aperta davanti a noi come il soffio di un desiderio ancora in cerca del suo oggetto. Nella gioiosa confusione di fronte all’ingresso del cinema, le animate discussioni si disperdono a poco a poco e restituiscono alla strada il candore del buio mentre cerca di perdere tutta la propria innocenza. // Io passo; e penso a come ogni immagine non ammetta che un incessante incedere dove i miei occhi, la mia penna, la mia mano furtivamente inseguono, cancellano, feriscono in un’insistenza che continuamente incontra la sua gioia attraverso il battesimo dello sguardo, la luce che buca la sala profonda per germogliare sullo schermo rendendo fluida ogni evidenza, fondente e instabile ogni intenzione e ogni rivelazione. Tutte le immagini sono l’avvenire che prende fuoco come un covone di fieno in piena estate. E l’Addio è l’iniziativa radicale di un cominciamento che tra gli spartiti del nostro universo segna la transizione degli innumerevoli compromessi, il regno dell’innocenza o la disperazione della malvagità più pura, il regno della grazia o il tragico assoluto» (pp. 65 e 66).

          C’è, come si può osservare, un’affinità con l’Eliot dei Quattro quartetti in questo cercare e trovare nella lingua un riflesso del tempo interiore dove «Questo atto della lettura si confonde con l’erotismo delle parole, il loro tumulto, l’effervescenza del significato, fino ad annaspare all’apertura dell’intimità dove, sedotto e seduttore, si mettono in guardia, al limite dell’effusione, smantellando le proprie frontiere. In questo momento non c’è più niente da riferire perché è solo questo niente dell’intimità a contare. L’intimità è priva di finalità perché può avvenire solo attraverso l’abbandono di ogni finalità» (Four Quartets, Ouverture, p. 14) – poesia e cinema vengono a coincidere, scrivere con le parole o con le immagini in movimento è sempre di nuovo muovere verso l’Addio per ricominciare (sistole e diastole, inspirazione ed espirazione) a muoversi verso un nuovo Addio: «Resta a noi capire le intermittenze che si lasciano filtrare approfittando dell’istante in cui il loro contraddittorio giunge al limite. In questa complicata semplicità la relazione è segnata nella ricerca di un movimento più profondo o più segreto di un apparire o di un manifestarsi. Perché queste volute nere che vediamo alzarsi dal falò delle immagini cercano un vertice, cercano l’inconsistenza dell’istante rivestendo di evanescenza la durata. Dall’altro lato, in un’attesa appassionata, l’Addio gusta le delizie di questa inconsistenza e l’ebbrezza di questo fuoco, ma attraverso i suoi capovolgimenti, il suo porre a fine e il deteriorare, il suo turbare la serenità e l’uniformità, libera un desiderio di partecipazione che taglia l’indifferente, raccoglie il mondo creativo e ricreativo dell’immagine praticando un varco nell’estroversione dell’immagine stessa e facendo apparire qualcosa sul vuoto dello sfondo» (Tutto il cinema è Addio, p. 66) – non a caso l’esergo al libro, tratto da Béla Bálazs, fa riferimento diretto all’ombra, direi a quelle “volute nere” che, prodotte dalla combustione delle immagini, ne rivelano i portati profondi e nascosti, muovono verso e dal nostro inconscio e subconscio, ma, mi pare, in senso deleuziano e guattariano, cioè come momento (e movimento) di liberazione e di gioia, se è vero com’è vero che per Montorfano l’Addio non ha nulla di luttuoso, ma di vitale e creatore, se egli, all’interno del regime scopico del cinematografo (per dirla con Michele Cometa e i maggiori autori contemporanei dei visual studies), scorge un concorso di linguaggi, di tecniche della ripresa e della rappresentazione e della condivisione (il cinema anche come luogo fisico dell’accadere del rito filmico) che pongono ognuno di noi di fronte a sé stesso, che, spingendolo verso i propri confini interiori (l’Addio), rende consapevoli del ritmo vitale che, appunto, ci fa vivi e capaci di creatività.

          Nel corso del libro e nella ricca bibliografia si leggono allora i nomi di Gilles Deleuze, appunto, di Jacques Derrida, di Georges Didi-Huberman, di Mircea Eliade, di María Zambrano, di Vladimir Jankélévitch, di Jean-Luc Nancy (ma mi fermo qui) in una costellazione di studi che sono a loro volta Addio (approdo e partenza), perché «Casa è dove uno parte. A mano a mano che invecchiamo / il mondo diventa più estraneo, più complicato l’intreccio / dei morti con i vivi. Non il momento intenso / e isolato, senza un prima e un dopo, / ma la vita intera che brucia in ogni istante / e non l’intera vita di un solo uomo / ma quella di antiche pietre che non si possono decifrare» (Four Quartets, quinta parte di East Coker, pp. 65 e 66) – e nell’identificare e trascrivere questi versi eliotiani come possibile ulteriore commento in poesia al libro di Montorfano mi veniva in mente il magistrale cortometraggio Méditerranée (1963) di Jean-Daniel Pollet, contrappuntistico rinnovarsi dell’Addio da luogo a luogo, da suono a suono, da parola a parola in una sapiente modulazione di luce e di ombra, viaggio nel tempo stratificato del Mediterraneo e di noi stessi poiché «Non sei qui per verificare, / istruirti o soddisfare curiosità / o stendere un rapporto. Sei qui per inginocchiarti / dove la preghiera fu validante. E la preghiera è di più / di una sequenza di parole, il timido lavoro / di una mente che prega o il suono orante di una voce. / E ciò che i morti non seppero dire, quando erano vivi, / te lo possono dire, restando morti: il linguaggio / dei morti si incastra con il fuoco al di là del linguaggio dei vivi» (Four Quartets, prima parte di Little Gidding, pp. 100 e 101) – e Tutto il cinema è Addio mi appare anche come una laica preghiera con quel suo tendere il linguaggio fino ai limiti del dire, perché «Questo è l’Addio: non la fine, ma la fragilità, il fraseggio melodioso che accade in uno spazio furtivamente dischiuso e che borda con la propria sorpresa. Ombra del confine, getta nella polvere e nell’inchiostro l’avvenire» (p. 41) scrive Montorfano commentando Casablanca e ripenso anche al film-documentario Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice (2023) di Mario Martone, specialmente alle sequenze in cui il fotografo racconta del proprio rapporto con la luce e l’ombra e della propria scelta di fotografare quasi esclusivamente in bianco e nero lavorando moltissimo, quasi fosse un’arca sospesa nel tempo o un laboratorio alchemico, in camera oscura: l’Addio accade perché è un atto d’amore, perché è un tuffo a capofitto nell’oscurità che ci abita, perché è nella camera oscura (o al cinema o nella scrittura) che s’impara che «Per arrivare a ciò che non sapete / dovete prendere una strada che non conosce estasi. / Per arrivare a ciò che non sapete / dovete prendere una strada che è la strada dell’ignoranza. / Per possedere ciò che non possedete / dovete prendere la strada della rinuncia. / Per arrivare a ciò che non siete / dovete prendere la strada dove non siete. / E ciò che non sapete è la sola cosa che sapete / e ciò che avete è ciò che non avete / e dove siete è là, dove non siete» (Four Quartets, terza parte di East Coker, p. 59).

ANTONIO DEVICIENTI

CAMILLA ZIGLIA RECENSISCE “L’ARRESTO” L’ULTIMO LIBRO DI GABRIELE GABBIA. COLLANA ROSSA DIRETTA DA GIANFRANCO FABBRI.

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CAMILLA ZIGLIA RECENSISCE SUL BLOG “DI SESTA E DI SETTIMA GRANDEZZA” DI ALFREDO RIENZI L’ULTIMA SILLOGE DI LIRICHE DI GABRIELE GABBIA: L’ARRESTO (L’ARCOLAIO, 2020).

L’arresto di Gabriele Gabbia (L’arcolaio, 2020) è una raccolta compatta di una ventina di liriche, alcune delle quali, più brevi, numerate sotto un titolo; è corredata dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia e dalla postfazione di Flavio Ermini.

Di questo libro apprezzo il lavoro di composizione che, a partire dalla lacerazione, dalla mancanza («defraudato» è il lemma di apertura della prima poesia, dal titolo Avvento; segue a p. 19 «Tu in ogni caso / percorri un calvario»), da una visione tragica dell’esistente, mantiene tuttavia un obiettivo molto preciso sulla tèchne: il linguaggio è fortemente selezionato e letterario, manipolato fino a un barocchismo retorico, fino al concettismo, dove il poeta cerca la massima forza espressiva del significante. Di solida tenuta risulta la coerenza tra forma e contenuto e una simile consapevolezza espressiva in generale è qualità imprescindibile del fare poesia, ma qui in particolare permette di osare, di forzare.
Scelta di stile non anacronistica: una felice intuizione dannunziana accosta il disorientamento epistemologico novecentesco (che non trova certo compimento o soluzioni nel nuovo millennio) a quello dell’Arte barocca. Nella lirica marinista la metafora spregiudicata si fa entimèma, sillogismo imperfetto, strumento gnoseologico rabberciato e zoppicante per la lettura di una realtà sfuggente. Anche Gabbia ha figure che si ergono a strutture di pensiero: sono diverse, mi soffermo sulle opposizioni (ossimori, antitesi) che creano esplosione e implosione, tensione e scontro («[…] è l’ossimoro la figura retorica dominante di un libro segnato in ogni suo punto dalla legge dell’urto […]» sottolinea Giancarlo Pontiggia in prefazione) tra i concetti di vita e morte (vita qui è opposta a morte, non amore: questi è un “boia” persecutore, all’apparire già nunzio della perdita), presenza-assenza (Gabbia cita Aristotele «[…] Ambedue poi – e la presenza e l’assenza – sono cause motrici […].»), inizio-fine, orizzontale-verticale, dentro-fuori e altro.

L’ETERNO IN CUI GIACI

Questo volgere all’interno

– questo esserne –

preme eccede aggetta

l’esterno in cui giace:

l’eterno in cui giaci.


Ancora sul barocchismo: rime interne, giochi di parole, concettismi, annominazioni («La stessa angoscia equivale / all’imparità d’ogni parte», p. 24; «stillato stillicidio», p. 27) tentano di ricucire il dissidio, ma sono stratagemmi deboli, ne è ben conscio Gabriele, che non si illude di sanare così il tragico, né di dare definizioni, ma studia di gettare nuovo senso sulle cose e sulla lingua, ampliarne le potenzialità costringendo il lettore ad accogliere gli accostamenti e applicare un ragionamento. Non è questa una poesia “di pancia”, olistica o sentimentale, né nella codifica, né nella decodifica; rivela un’ambizione non tanto filosoficamente espositiva e non solo problematizzante, ma anche in fondo fraternamente didascalica, e non si traduce in verbosità sentenziosa, ma in disperata lotta della parola con la realtà, disperato appello alla resistenza, ad un “con-sistere”.

L’amore per la vita è vibrante ma velato, costantemente frustrato dall’essenza della vita stessa, il desiderio di ascesi è potente – e si protrae in riferimenti biblici e liturgici –, ma essa non avviene; da qui l’irrisolto e irrisolvibile, l’impossibilità del compimento di qualunque sforzo, la sospensione, L’arresto anche della scrittura stessa, anche del rapporto tra “io” e mondo, tra “io” e “tu”. Vien da sé che in questa esistenza di tensioni antitetiche complesse e urti l’“io” non sia univoco e il “tu” resti inafferrabile sia in sé, sia in un’identificazione precisa: a volte pare corrispondere ad un alter ego di Gabriele, o alla sua anima, a volte a un caro defunto, a una donna, a un fuori-da-sé di cui però l’“io” fa parte, a un fuori-da-sé che l’“io” racchiude. E così esterno e interno si definiscono e insieme si inglobano, tra l’“io” e l’altro vi è una frattura stretta come l’apertura di un cardigan, la fenditura è un altro atto eternamente in potenza, a portata di mano; di chi è stato rimangono le medesime orme che lascia anche ogni vivo dietro di sé, e allora dov’è L’arresto? Quale il limite, il senso? Lo vediamo voltandoci indietro o proseguendo? Il poeta procede all’arresto e da lì compone, sul punto della spoliazione di sé, sulla soglia della salvezza, della libertà [«(…) per / cospargersi e / congiungersi / occorre / disconoscersi», p. 25]; in postfazione Flavio Ermini afferma che secondo Gabbia «[…] la caducità esistenziale è: cadere ed essere da sempre caduti […]». Il titolo segna il blocco, il limen tra detto e non detto, tra luce e buio, tra il qui e l’altrove, la sconfitta che si fa unico modo per adempiere («nello scacco / l’adempíto»), non è passività: il poeta resta attivo e vigile, pur immobile, e sonda la linea del varco, la soglia della porta da cui l’inizio apre la fine («La porta d’inizio è ciò / da cui fuga ogni fine», p. 27), “aggetta” per conoscere, mantiene l’equilibrio sull’abisso. La densità delle liriche di Gabbia riesce a comunicare una visione poetica unica dell’esistente nell’accostamento di fisica e metafisica, spiritualità e immanenza.

Come in un dipinto caravaggesco i chiaroscuri danno il massimo della loro espressività ossimorica, ma in Gabbia il buio non è il fondale della scena rappresentata, bensì la scena stessa, la vita; la luce è per l’oltre, per i morti, i loro occhi insistenti sul poeta, l’incandescenza opalina del nulla.

ESSI…

«[…] vengono

come da storia antica ad un presente

a riscuotere il senso della vita […].»

Michele Ranchetti

L’eternità aggressiva dei morti

in cui sfolgorî; la luce su di essi,

a illuminare il nulla incandescente

posantesi sulle cose — sulle case

ove tutto non è piú; le figure da

sempre verso questi occhi in cui

tutto è stato; la lacerazione del

percepito – sí –: l’incompiuto.

BISBÍGLI

(…)

Poi v’è quel modo

di star dentro alle cose

– di starvi poggiato,

fra valichi e case –;

bisbígli luci salmodíe afflati,

tenui raschiano

un freddo.

L’ARRESTO

«[…] Si serra

a me e a te la fine […].»

Ernst Meister

a S.

Due sguardi conniventi

– convergenti –, sul

vuoto accumulato,

e nessuna parola piú

da pronunziare; solo

un rintocco languido,

lento, fino all’arresto: «Tu

sei libera».

MASSIMO NATALE RECENSISCE IL LIBRO DI FRANCESCO DEOTTO “AVVENTURE E DISAVVENTURE DI UNA CASA GIALLA”. COLLANA IL LABORATORIO.

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Massimo Natale recensisce Avventure e disavventure di una casa gialla

di Francesco Deotto

https://ilmanifesto.it

il manifesto – Alias domenica

12 novembre 2023 anno XIII – N° 44, pagina 8

Deotto, suite sull’ospedale psichiatrico

«L’Hospital de Rilhafoles, inaugurato nel 1848 e ribattezzato Hospital Miguel Bombarda nel 1911, è stato il primo, e per diversi decenni l’unico, ospedale psichiatrico del Portogallo. Situato nel pieno centro di Lisbona, in una struttura precedentemente adibita a collegio militare, e ancor prima a convento, è stato definitivamente dismesso nel 2011». La storia di questo luogo è al centro della plaquette di Francesco Deotto, Avventure e disavventure di una casa gialla (L’arcolaio, pp. 47, € 13,00). La breve suite di Deotto è una vera e propria costruzione ipotetica in versi: quale potrà essere il destino dell’ospedale, una volta che sia stato adibito ad altra funzione? Si comincia, intanto, con un inventario dei «blocchi» che lo compongono, nel quale persino il passato dell’ospedale è osservato come qualcosa di misterioso («Il blocco più a sud (…) / è anche il blocco più antico. / Sembra sia stato concepito / e completato solo qualche anno / prima del grande terremoto / (…) ma come lo abbia attraversato, / con quali e quante tracce, / (e quanti e quali traumi), / in tutto e per tutto, / non lo abbiamo ancora capito»). Mentre l’io lirico si eclissa, facendosi da parte per lasciare l’intera scena all’edificio-protagonista, il linguaggio si mostra intanto volutamente piano, tendendo anzi a un astratto rigore geometrico. Se le parole suonano in un certo senso «impermeabili al brusio del mondo», la loro funzione sembra quella di accrescere l’effetto di «presenza» dell’enigmatico ospedale, osservato nella sua grigia consistenza oggettuale («cinque grandi blocchi / accompagnati da delle discrete (quanto confuse) formazioni / di piccoli blocchi»). L’asciuttezza dei versi di Deotto – la «discrezione» del suo dettato – ha infine l’effetto di suggerire, paradossalmente, la possibilità che questa spoglia descrizione, sempre sul punto di raser la prose, si faccia allegoria: una grande allegoria comunitaria, nella quale, per esempio, la riorganizzazione del luogo può alludere all’«argine / (…) minimo e parziale» che si deve tentare di porre ai «capricci umani» (alla mutevolezza e all’imprevedibilità della storia?). Più in generale cova, sotto questi versi, la speranza di un mondo diverso, un «mutamento radicale del mondo e della società, / un mutamento tale da metterne in questione le forme di produzione e di consumo, la gestione dei beni comuni», in un vasto «ripensamento» dell’umano e delle sue forme di convivenza. Parte di un più ampio lavoro in corso, come ci informa lo stesso autore, queste Avventure sono un esperimento originale, capace, fra il resto, di parlare di trauma senza spiattellarlo, di sapersi sintonizzare sull’aria del tempo, come nelle scene di guerra che riemergono nella seconda sezione, in una inquietante prossimità fra gli ospedali e i bombardieri: «l’ipotesi d’una sorta di prassi – piuttosto consolidata – conformemente alla quale, prima o tardi, le strutture di soccorso e quelle di distruzione debbano per forza incontrarsi».

MASSIMO NATALE

FRANCESCO TOMADA RECENSISCE “LE BELLE STAGIONI” DI ALESSANDRO AGOSTINELLI. COLLANA “I CODICI DEL ‘900”.

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Alessandro Agostinelli, Le vive stagioni
da Perigeion, articolo di Francesco Tomada

Pochi libri mi hanno colpito ultimamente come Le vive stagioni di Alessandro Agostinelli (L’Arcolaio), una raccolta che non è solo poesia, anzi: è un libro di poesia sulla poesia, un percorso nel vero senso della parola, in cui l’autore toscano alterna alle liriche le proprie riflessioni, spiegazioni, anche divagazioni. Ammetto che, se me lo avessero presentato in questo modo, difficilmente un lavoro del genere avrebbe suscitato la mia curiosità, perché trovo che la scrittura in generale soffra di un eccesso di spiegazione, e che spesso l’eccesso derivi soprattutto dalla scarsa sicurezza nel valore delle parole, come se esse non fossero capaci di stare in piedi da sole. Nel caso di Alessandro Agostinelli, invece, quello che stupisce è esattamente l’opposto: Agostinelli può permettersi di affrontare e esplicitare il suo lungo flusso di pensiero perché, a monte della sua capacità di poeta, c’è una padronanza culturale che costituisce lo scheletro e la sostanza della scrittura. Quando dichiara di opporsi alla “corruzione della lingua” è evidente che il suo non è un discorso legato unicamente alla forma, ma che la forma stessa è un veicolo del significato e del peso delle parole; quando si muove da Leopardi a Seneca a Gozzano all’amato Brodskij è perché lo può fare, sa come collocare i riferimenti – che sono propri ma collettivi – in una visione d’assieme ampia e solida. Le vive stagioni è un’avventura da attraversare tutta d’un fiato per poi tornare indietro per cercare di comprendere la composizione e decomposizione delle forme, e lo scivolare della sostanza dall’aspetto letterario della scrittura a quello più squisitamente umano. Al tempo stesso, dentro all’apparenza di un libretto agile e tutt’altro che verboso, suggerisce l’idea di un punto di approdo a suo modo definitivo, di quei vuoti sereni dell’anima che si conquistano accettando il vivere in tutte le sue forme e le sue fatiche, e che sembrano concretizzarsi nella rastremazione di una laica preghiera.

(È impossibile proporre da Le vive stagioni una serie di poesie, come di abitudine si fa con altre raccolte. Quello che segue pertanto è un frammento del percorso, per suggerire l’idea di come Alessandro Agostinelli si muova attraverso le tematiche che si succedono nel libro).

levivestagioni

*

Che sia dunque l’annullamento dell’io in una tenda (è il tema della poesia finale della raccolta Il materiale fragile) o in un concetto impersonale composto da concreti oggetti materiali lo scopo di ammettere che l’antropocentrismo ha causato una sequela di mali che affliggono oggi la Terra?
Dico che serve farsi vento, sabbia, acqua di fiume che scorre per non perdere di vista che cosa siamo.

pietra

si dà una pietra che sente
un sasso di neve, un gigante
anch’esso approdato al senziente
di sé in natura albergante. 

il tempo misura l’ambiente
ed essi, di pietra o di bianco,
mantengono vita e presente
con le lor durate sul campo.

Mi ha sempre colpito la frase finale della lettera/testamento del socialista Moroni, suicida all’epoca di Tangentopoli: “Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto”.
Un gesto vale più di mille parole, si dice. Ma l’io della poesia (sano o malato che sia) serve la lingua, poiché ci sono questi potenti strumenti umani che ci connotano e ci sostanziano. E certamente la parola della poesia non è flebile, anche se questo presente ci pone di fronte a scelte che dobbiamo compiere: difendere la poesia dall’amatorialità, difendere la tradizione letteraria italiana dall’approssimazione, difendere le parole della poesia dai linguaggi minuti e farne parole esemplari a tempo indeterminato.

Anche se i nostri mezzi, le parole, sono materiale fragile la poesia li potenzia e li rende quello che Brodskij convintamente confidava essere “il risultato supremo di tutto il linguaggio […] Perché il lirismo è etica del linguaggio [e] il canto è, in fondo, tempo ristrutturato”.

patico 

sono un ragazzo volubile
un inviolabile patico
una scheggia di piume,
con una storia funesta
che a volte va
e a volte resta.

Eppure, nel tempo in cui un codice binario compone il linguaggio seriale della nostra vita, spesso sento pena per il linguaggio, per l’uso indiscriminato di storture, iperboli, errori che non sappiamo risarcire alla lingua, e non possiamo contenere o respingere con la sola poesia invisibile e corrotta da troppi testi vani.

Dovremmo lottare per un “io calmierato” – come invitava a fare Alberto Casadei – nella lingua della poesia, un’abdicazione pur minima dell’autoaffermazione antropocentrica ed egocentrica. Sia chiaro, non vi è salvezza nell’intelligenza artificiale e in tutto ciò che può sostituire la lingua che si scrive per mezzo di un interprete umano. Ma è bene tenere a mente che anche nelle storie personali non siamo soli, non siamo protagonisti. L’io è un plurale sempre unito ad altri, a presone che sappiamo e che non sappiamo, a comunità sconosciute ma che dovremmo provare a rammendare sulla carta.

affabile come tragedia 

questo nostro commentare quotidiano
peto, fionda o nuvolaglia imbrottata
si presenta in letterine formicanti
dentro un letamaio di post rimbecilliti.

 una piuma vaga sulla superficie
e trasogna una figura angelicata
che annerisce nel momento dell’eloquenza
e ignorante di parvenza s’è impetrata.

l’esplosione della lingua m’incatena
all’affabile tragedia tutta pena.

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