

Marco Ercolani recensisce sul Suo blog “Scritture” l’ultima silloge di liriche di
Gabriele Gabbia — L’arresto (L’arcolaio, 2020).
La lezione di Ernst Meister («…Si serra / a me e a te la fine…») innerva la poesia di Gabriele Gabbia, in questo libro petroso ed ellittico incorniciato dalla prefazione di Giancarlo Pontiggia e dalla postfazione di Flavio Ermini. Il lettore può usare, come guida alla lettura, il verso di Mario Benedetti, una delle tre epigrafi al libro: «…che tutto sia per la fine». Ma questa realtà “per la fine” è articolata da Gabriele Gabbia attraverso poesie filosofiche fissate in soprassalti psichici che evocano i sursauts beckettiani. Il poeta si ausculta al limite di un tacere assoluto, di un naufragio senza ritorno. «Dal suo tentativo, l’equilibrio / non perde l’abisso / cui è attratto; rattratto / eccede — aggetta, si muove / alla luce dell’ombra, ove / precipuamente si centra: librato». Come l’equilibrio non perde l’abisso, è vero anche il contrario: che l’abisso esige la sua misura, la vertigine del maelström — il suo naturale punto di quiete. «La parola che scardina / e rimuove redime» è un “segreto” manifesto di poetica.
Scrive Pontiggia: «Un canto segnato fin dalla poesia liminare come scoperta della “tragicità del vero”». Gli fa eco Ermini: «La legge della grande esistenza – propria degli antichi viventi – è tragica, arreca l’arresto, ma un arresto in cui finalmente si compie il senso della vita». Gabbia si esprime trattenendo la voce, togliendo enfasi a ogni logica poetica, realizzando un libro laconico e prismatico che irradia un’angoscia spoglia di echi biografici ma vibrante di vacillamenti cioraniani. Tutto si è già compiuto e ai superstiti non resta che fare arpeggi fra le rovine. Questi “arpeggi” sono “l’arresto” dal quale, nel buio, con voce fioca, il poeta riprincipia a parlare.
Marco Ercolani
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