ODDO MANTOVANI – “55 POESIE PIU’ UNA” – COLLANA L’ARCOLAIO GIALLA.

Un nuovo autore viene a far parte della “scuderia” de L’arcolaio. Si tratta di Oddo Mantovani, un autore marchigiano, dal passato molto ricco di esperienze culturali. Ricco innanzitutto di vasta e ineccepibile cultura umanistica: studente a Roma, dove ha conosciuto importanti letterati e poeti dell’epoca. Primo fra tutti, Pier Paolo Pasolini, che volle pubblicare alcune delle sue prime poesie nella prestigiosa rivista “Nuovi Argomenti”. Docente di greco e latino, successivamente, nella sua amata regione. E’ apprezzato da diversi poeti delle ultime generazioni, tra i quali Michele Bordoni ed Emanuele Franceschetti. Il dettato di Oddo è classico novecentesco, pulito e teso come una corda di violino. Un dettato elegante che sarà di esempio a chi vorrà mantenere il verso italiano nel suo giusto valore.

Ma dirà meglio di noi Mirella Vercelli, l’autrice della bella prefazione al libro.

Seguiranno poi alcuni testi.

Buona lettura.

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Oddo Mantovani: certo uno sconosciuto ai più, nella magmatica attualità letteraria del nostro paese, ma non per chi ha avuto la ventura di leggere qualcuno dei suoi precedenti lavori: 

Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, I Sette, Personae, e per i pochi amici che hanno condiviso negli anni la frequentazione dei suoi versi. Indifferente alle dinamiche editoriali, scevro da ammiccamenti o esplicite adesioni alle varie mode letterarie, raccolto anzi in una difesa attenta della propria unicità, intimo di pochi. Figlio della provincia sa però maturare frutti di universale dolcezza e consistenza.

Questa è la prima raccolta poetica che l’autore si e ci con-cede, dopo che assaggi di giovanili composizioni erano stati ospitati in riviste prestigiose, come La Fiera Letteraria, nel 1965 e, per interessamento di Pier Paolo Pasolini in Nuovi Argomenti, nel 1968. Si tratta quindi di un amore coltivato in tutte le stagioni della vita. Ne sarebbe potuto derivare un volume ben più corposo, ecco invece una raccolta sobria, forse eccessivamente esigua, pulita nel dettato, sincera nel dire.  In questi versi la vita si è venuta dipanando all’interno di una esperienza personale e umana acquisita con estrema consapevolezza, narrata senza enfasi o compiacimenti. L’ordine dei componimenti non è strettamente cronologico, pur compresi in un arco dai primissimi anni Sessanta sino al 1986, ma asseconda il volgere del processo esistenziale. I temi affrontati sono quelli su cui si interroga l’uomo, e con maggiore puntiglio il poeta, dall’alba della Storia: la solitudine: “Ogni nuovo mattino/mi risveglio so-lo”;  l’amore, in versi di luce abbaglianti : “Presto affonderò nel mare del tuo corpo”, “Abito giorni di luce e sono cieco”, “Sempre mi sei sospiro nelle sere”;  il trascorrere inesorabile del tempo, che consuma stagioni;  “il disperso andare” del ragazzo che non sa “nulla del cielo” e pure lungo il “sentiero celeste” che forse è la terra riesce a vivere istanti di pienezza di “grazia”, “di tranquillo vigore”. Ma quando si arriva al punto che “anche la primavera sa di autunno”, ecco affacciarsi il pensiero della morte, nascosta dietro ad “ogni incantamento”; la parola, forse rivolta male, al Dio cui si chiede perché “non scese, non scende/senza darsi la croce, né darla”. Il compito del poeta è tutto nel porre le domande essenziali, non nel fornire risposte: l’autore si arrende al dubbio che la parola non sappia procedere oltre “il guscio delle cose”, la vita rimane in definitiva “inesplorata” e benché ne insegua una definizione nei libri “tutto resta ignoto”.

I libri: i libri sono stati il sostegno intorno a cui si è avviluppato il giovane stelo del poeta, studente nella capitale, e l’elemento da cui hanno tratto linfa in seguito il professore di ginnasio e liceo, e l’uomo: “Per definirmi fuggo coi libri”. Spesso si tratta di classici: Marco Aurelio, o l’amata Iliade, più e più volte visitati, negli snodi cruciali dello smarrimento del vivere, e ripresi nel tempo in cui ci si scopre orfani di parole, di fronte alla “vita che scorre e tutto passa: “ho sempre saputo, ma altrove volgevo…”. Un atto di dolore al cospetto del tempo, che come naturale chiede i suoi conti, così duri da spingere il poeta ad esclamare: “Ci sarebbe da morire prima ancora/di scoprire che si nasce per morire”. E forse è naturale che in questo frangente dell’esistenza, il lettore appassionato e colto, lo studioso, l’uomo di lettere, si rivolga alla poesia per definire i suoi pensieri, come all’arte che, sfrondata la vicenda umana di ogni inutile orpello, la restituisce nella sua scarna, essenziale ossatura. Il verso è misurato, esatto, “classico” nel solco della tradizione che nella nostra letteratura si usa far risalire al Petrarca; procede “per rivelazioni”, per successive acquisizioni, con una perentorietà, a volte, quasi epigrammatica. Si ravvisano echi montaliani: “Tu non sai che sovente t’immergi”, e leopardiani, in slarghi dove pur nell’amarezza di una rivelazione si apre il cuore: “senza paura guardi la fanciulla/che alla campagna lieve danza accenna/con la chioma che scende che la culla”. E con emozione si affaccia alla mente un altro grande marchigiano, Francesco Scarabicchi: entrambi accomunati dagli endecasillabi perfetti, dalla malinconica vaghezza, da un essere accorati senza disperazione: “come dire che tutto è trasparenze/si va per l’aria e non si ha figura”.

Anche nei versi del Mantovani si esprime lirismo mai ammiccante al sentimentalismo, ricerca estrema di purezza, trasparenza non solo dello stile ma dell’umano esistere; cri-stallina consapevolezza dell’essere, delle sue forme e dei limiti, percorsi con humanitas da una mano che non teme la ruvidezza dei labbri della ferita sotto le dita. In queste note va riconosciuta la “classicità” dello stile, le “buone cose” che nella loro lunga, alta tradizione sembrano nei versi dell’autore vestire abiti nuovi: accantonate come desuete da certe tendenze al modernismo esasperato le parole riacquistano la freschezza di un vocabolario al quale non si era più abituati. Questa è anche la ragione di esistere e proporsi di questi versi, nel mare magnum della produzione attuale, timbro di una voce che non senza titubanze si è finalmente accordata al coro della Poesia universale. Noi, che ne ascoltiamo la vibrazione da sempre, ringraziamo l’Editore per averla accolta, randagia, e la scrivente, in particolare, rin-grazia senza fine l’autore che l’ha voluta, senza che ne avesse alcun titolo, madrina di questo battesimo.

Mirella Vercelli

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Io so che sotterra il poeta
sarà un bruco che ritrova i suoi sogni,
l’avvertita chimera che divise
il sole dalle croci, ed anche
il privato natale, allora sfuggente
con le stelle filanti di tutti
quei lumi senza eternità.

so pure la scintilla che riporta
al teschio il mirabile occhio
che un tempo posava sui greti
del cuore i sogni di velluto.

e so che le ossa arse e discese
accanto a radici frementi
avranno gemiti amati dal dio.

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Pietà

Ogni nuovo mattino

mi risveglio solo

ed il giorno eguale

lo scopro con lo stesso

amaro e dolce rito

Leggo una poesia

pensando a mia madre che mi guarda

con la tristezza che si ha per chi

si perde in vane cose

Vado nelle vie

con gli amici o con la donna al fianco

promessa in un domani –

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Presto affonderò nel mare del tuo corpo

e come Nettuno col tridente

soffierò tempeste e stenderò la calma:

e tu con lieta scia

andrai e verrai placando l’onde sulla mia riva.

Ascolterò il frusciar dell’acqua:

sarà una carezza, un tuo sospiro,

e sotto il sole, nel tuo profondo chiaro,

agile guizzerò come un pesce d’oro.

Tu gorgoglierai, acqua salata,

e il tuo rabbrividir in superficie

farà salire tante bolle azzurre.

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Se a ciascuno il dio fosse Dio,

perché in codesto confuso

pianeta di anime irrise, irridenti,

non scese, non scende

senza darsi la croce, né darla?

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Ho ripreso in mano Marco Aurelio.

Quante volte ho letto i suoi pensieri

e ogni volta mi son visto nulla

e poi, più forte, ho creduto in me.

Non so che dire, e sono vecchio,

di questa vita che scorre e tutto passa.

Di me so solo che mi volevo buono,

ma venne vanità e il cuore ebbe

vani sussulti e orizzonti bassi.

Mi dico che anch’io ho dato amore,

ma n’ebbi troppo immeritato in dono:

alla mia anima ho dato un nutrimento

diverso da quello che sognavo;

della giovinezza che ho vissuto

restano fogli tristi d’ambizione,

e non consola dare a quell’errore

il riparo degli anni inconsapevoli.

Da adulto ho continuato a riempire

fogli su fogli d’inchiostro creduto

la voce d’un dio, d’una musa segreta,

e andavano gli anni e i cassetti ricolmi

in me li sognavo forzieri preziosi.

Se a volte una voce diceva: Sii buono

le rispondevo Perché non lo sono?

Ho sempre saputo, ma altrove volgevo…

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Nota bio-bibliografica.

Oddo Mantovani è nato nel 1942 a Montegranaro, una cittadina delle Marche non lontana dal mare e non lontana dai monti; abita lì da sempre. Ha insegnato italiano, latino e greco nei licei. Ha scritto versi sin dagli anni del collegio, abitudine mai del tutto abbandonata. Ha osato anche la prosa: I sette, Lettera di classe, La morte di Amleto, Dopo cena, Personae. Affronta la vecchiaia con la lettura, sempre nella speranza che serva.