

Marco Molinari recensisce “Monade” l’ultima raccolta di Alessandro Bellasio. Collana L’arcolaio Rossa.
Si intitola “Monade”, editrice L’arcolaio, la seconda raccolta di A. Bellasio, poeta milanese, uscita quattro anni dopo la precedente prova. Riportiamo, perché significativa, l’epigrafe che apre il libro: “In principio i libri della Genesi, e poi l’istante in cui la vita si percepisce soltanto nel cervello”, citazione dal poeta tedesco Gottfried Benn. Una dichiarazione che contiene un mondo e che Bellasio ha fatto sua in questo lavoro, che oscilla dalla considerazione di un Dio creatore, fondamento delle cose, a una mente che nel suo incessante movimento di pensiero, assume il peso di una frana di un crollo che incombe nell’esistenza. Come si può intuire da questi brevi cenni, la poesia di questo autore è fortemente intrisa di pensiero filosofico e trova i suoi riferimenti poetici negli espressionisti di lingua tedesca, nel loro sguardo in bianco e nero, sotto una luce fredda che non commenta e non abbellisce, ma reagisce col rigore di un cronista dello spirito. I titoli delle sezioni iniziali sono “Creatura” e “Incubatrice”; ci pare di assistere alla ricerca di un principio fondante, dell’elemento primo a cui ci possiamo ancorare per affrontare questo mondo squassato dal dolore. È una esplorazione che non avviene in vitro, ma si cala nelle brutture del nostro tempo, affianca le donne e gli uomini che disperatamente combattono le proprie battaglie dentro l’ombra della solitudine: “… il vero vuoto / di ogni ora, il regno / illividito / delle nostre vite / asciutte e incamminate – questo estremo / di sabato posato, nudamente, / sulla terra. (…). E proprio nei due poemetti che compongono l’ultima sezione, si raccolgono tutte le voci straziate di cui sentiamo un’eco nelle strade, nelle case, nei palazzi delle nostre città. Qui si snodano i racconti in prima persona, lucidi e dolenti, di una ragazza e un ragazzo, le cui urla, attutite dalle pareti della mente, provengono dalle finestre di un ospedale. Lei ricoverata in un reparto psichiatrico, forse perché ha tentato di togliersi la vita; lui in un centro di disintossicazione dalle droghe, anche questo un tentativo di suicidio diluito nei giorni. Sono monologhi interiori, flussi di coscienza, implorazioni ad essere accettati per quello che sono, che fondono il realismo duro, sporco, doloroso della malattia, con tratti allucinanti, come se fossero le medicine stesse a indurre obnubilamento dei sensi, che spezza la spietata ricostruzione delle loro vite, che i due pazienti hanno avviato in quelle condizioni estreme. Ed è un esercizio di massimo ascolto quello che mette in campo Bellasio, perché le parole che rimbombano nella testa dei due giovani sembrano davvero raccolte dal capezzale dei loro letti, con un’immedesimazione che lascia ammirati, nel constatare come la poesia possa essere il linguaggio che interpreta con maggiore fedeltà il flusso di dolore che si alza dai luoghi di cura. Lì, secondo l’autore, l’individuo è completamente solo, i sanitari sono presenze anonime che non hanno nessun contatto con chi giace con la sua pena, estranei come i farmaci che entrano nei corpi ma non raggiungono l’anima; “… l’infermiere che mi porta questa vita / impastata nel vassoio del purè… / vorrei dirgli / che ho rotto gli argini, che sono esondata da questo manicomio. / Anche adesso, mentre mi legate / e mi dimeno inghiottendo serenase / voi non troverete / porte per quest’anima, spiragli / per il plotone che mitraglia questo spirito. / Sono sparita in un vero buio. / Non ho sofferto. (…) .
Marco Molinari
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