Dire di Fabio Michieli: un io che sfugge a sé stesso

Articolo DI LUCA CENACCHI tratto dal blog LA TORRE DI CARTA

Fabio Michieli ha pubblicato due anni fa una nuova edizione rivista della raccolta poetica d’esordio intitolata Dire. In questo articolo si cercherà di mostrare l’impalcatura filosofica che regge la raccolta e di come essa si innesti nel definire la scena sulla quale si muove un’identità mai definita e in continuo divenire.

Genesi: la prospettiva filosofica

La riedizione di Dire è una raccolta contraddistinta da una spiccata maturità e una struttura estetico-filosofica di fondo precisa, che viene innestata all’interno di elementi figurali e stilistici i cui punti estremi della parabola sono di matrice traklian-penniana, seguiti poi da altri di varia natura. Lo stile conseguente a questi elementi è un ermetismo linguisticamente moderato, ma capace di raggiungere una complessità figurale notevole.

ritrovo il tempo andato tra la cenere[1]

se mi consuma il fuoco –

costringe a camminare su roventi

in equilibrio lamine

la luna non vedo alta se le nuvole

me ne celano il corpo –

ma l’argento si spande

a chiarire il pensiero

mentre il volto si accende

di ardente rossa fiamma –

(ritrovo il tempo andato tra la cenere

se mi consuma il fuoco)

Appartenendo alla prima sezione della raccolta, nominata non a caso Genesi, il distico principale definisce subito una marca filosofica di riferimento e una stilistica: la riflessione sul tempo proustiana. Essendo ripetuta in apertura e chiusura del componimento, il rimando al tempo ritrovato non solo è funzionale a dare un moto ciclico al componimento, ma accostato alla cenere rivela anche la tendenza di Michieli all’ossimoro come marca stilististica filo-barocca capace di avvicinare due antipodi: vita e morte, innestati, come si vedrà, in un’identità concepita in divenire, quasi liquida.

Il secondo elemento fondamentale del pensiero che Michieli inserisce all’interno della raccolta emerge poche pagine dopo:

so quanto tempo ho perso per scovarmi[2]

e non so quante altre scoperte furono

quelle che mi passarono col ferro

il fianco che a fiotti sputava sangue –

fu quando scelsi al ramo l’acre rosa:

mi punsi e tinsi del mio stesso sangue

quella mano: tinsi nuovo anche il volto –

fu quando persi la rosa di mano:

un colpo sparpagliò la sua corona –

al suolo avidi i petali raccolsero

nel mio sangue l’orgoglio violato.

Lo svelamento heiddegeriano della verità è qui messo al servizio della presa di coscienza della propria identità, la quale si rivela principalmente attraverso una serie di avvicendamenti figurali ordinati in un percorso attenuativo e, in un certo senso astraente, perché gradualmente sfuma l’esperienza privata in figurazione letteraria. Infatti, se la seconda strofa riporta gli esiti di un’esperienza vissuta, quelle successive inscenano un processo di presa di coscienza della propria condizione proprio grazie alla scelta della rosa; e nelle ultime parti della poesia la perdita della rosa riprende in modo attenuato la violenza subita nella seconda strofa. La scelta della rosa come coscienza della propria identità tradisce una complessa stratificazione e rielaborazione di fonti letterarie da parte del veneziano la cui estensione si radica tra Poliziano-Tasso e Marino. Se Poliziano e Tasso ripropongono il topos tradizionale del collige virgo rosas come invito a coglier amore e giovinezza, nell’Adone la rosa è a un tempo la causa indiretta del’innamoramento di Venere e, sempre nel canto III, tratto costitutivo dell’Adone femminilizzato. Dunque Michieli cogliendo la rosa coglie/svela se stesso, portando a galla una natura duplice da intendere come, forse, compresenza di tratti virili e femminili; natura che altri – qui siamo nella strofa di chiusura – vogliono negare sparpagliandone i petali con un colpo: lo svelamento della propria identità è pagato col sangue versato nella lotta/guerra per la propria auto-affermazione, che caratterizza un’altra declinazione del tratto virile, ovvero le armi nel contesto dei poemi tradizionali.

Queste prime poesie sono rappresentative di una figuralità che piega verso la concretezza, marca tipicamente penniana; quelle successive alle presenti tendono gradualmente a innestare in tale concretezza un’espressività progressivamente astrattiva e il prototipo di questa tendenza è la poesia finale che chiude la sezione:

svelami ora il mistero

di questi suoni, di queste parole

– «je dirai quelque jour vos naissances latentes…» –

l’incanto di una musica

che mai fu mia se non in neri abbagli

(eppure vorrei che il sole sciogliesse

in un sorriso un risveglio già tardo)

nella luce

tra le mani

un volto che il fragile addio spegne

Richiamata nel terzo verso quasi programmaticamente la celebre lirica di Rimbaud (Voyelles), l’asse figurale che emerge è tipicamente simbolista in cui Michieli parte da motivi tipici del simbolismo francese tradizionali, virando successivamente verso richiami coloristici dai tratti penniani e chiudendo infine col riferimento luziano della luce. Qui troviamo moderato uso di alcuni elementi di stampo ermetico: aggettivazione astrattiva, nell’ultima strofa uso di sintassi nominale contrapposta a quella verbale. Nella terza strofa (eppure vorrei che il sole sciogliesse/ in un sorriso un risveglio già tardo), poi, troviamo la tendenza forse inedita di Michieli a risemantizzare il verbo sciogliere alterandone la struttura argomentale per poter afferire ad altri verbi più astratti. Ad esempio: nel contesto dei versi riportati sciogliere afferisce a trasformare, ovvero mutare qualcosa in qualcos’altro. Tuttavia, proprio questo esempio mostra che la spinta alla concretezza non viene del tutto elisa da quella astrattiva, ma ne fa piuttosto da contrappeso dando quasi la sensazione che l’una fluisca nell’altra costantemente nel giro di una frase.

Il problema tematico posto in questa poesia, messa non a caso alla fine della raccolta, che verrà poi ripreso e approfondito successivamente, è ancora una volta quello dell’identità: se nella poesia della rosa con moto proustiano l’io si riscopriva attraverso la riflessione sulla propria esperienza privata, allora la presente si pone il problema di una latenza carpibile solo attraverso l’intuizione che prefigurerà il successivo moto di un’identità in divenire meglio realizzata nella seconda sezione del libro Primo Tempo.

Un io che sfugge a sé stesso

Nella seconda sezione, primo tempo, caratterizzata dall’ospitare le poesie che hanno costituito il nucleo primo della raccolta, la questione dell’identità, ora connessa esplicitamente al corpo, si complica. Rivolta verso il futuro, messa a confronto col divenire, l’identità va in crisi e comincia un processo di sfaldamento, causato sempre da una violenza, da cui viene lacerata disperdendosi (eppure si è, e si è sempre più/ a brani come su sfatte pareti).[3] Di primo acchito l’immagine complessiva, tratteggiata da poesie come Sebastiano,[4] è quella di un io i cui contorni si sfocano progressivamente poiché si rivolge sempre verso il futuro.

(martire mi affacciavo

al supplizio sdegnoso di ogni ingiuria)

a volte penso di essere un involucro

cavo dove trova rifugio l’uomo

che non sarò ancora

Questa prima generalizzazione, tuttavia, acquista notevole complessità quando viene introdotto più direttamente il discorso amoroso («così non ho diritto alle illusioni!/ non solo neghi il corpo alle mani,/ ma agli occhi al cuore al vivo desiderio/ neghi l’anima, sì che mi domando […]»). La totale negazione d’amore innesca un martirio che riecheggia, con uno stile coloristico debitore certamente a Penna, moti cavalcantiani: «Quando mi vider, tutti con pietanza/ dissermi: – fatto se’ di tal servente/ che mai non dei sperare altro che morte.–»:[5]

è brivido quest’acqua che avvolge

corpo carne ossa e tendini e muscoli:

mi fosse dato stringermi per poco

o corrodermi tanto quanto basta

a spezzare quei nodi che mi tengono

                                                           unito al corpo

mi fosse dato spandermi nell’aria

e confondermi a nuvole di noia

e placare quei mali che divorano

                                                            intero il corpo

mi fosse dato il tempo che è concesso

alla morte per scovare la vittima

della sua bramosia che ne dilacera                

                                                            eterno il corpo

mi fosse dato

Tuttavia se a Cavalcanti, come emerge in questa poesia, Michieli deve principalmente il motivo di un amore dilaniante, il distacco dello spirito dal corpo è ereditato principalmente da Luzi: «Lasciate il vostro peso alla terra/ il nome dentro il nostro cuore/ e volate via,/ quaggiù non è vostro l’amore.»

Questo Martirio d’amore, portando il poeta a disperdere pezzi di sé negli altri e dunque nel mondo, produce un’identità non statica. Questo stato di indefinitezza è dato dal vivere che tende ad influire sulla stabilità dell’io stesso, dovendo essere misurato in relazione con gli altri ed il mondo e anche in relazione alla pressione che il mondo e gli altri esercitano su di esso:

trovare quella parte che ho lasciata [6]

andare tra le spire del suo vento

portatemela intatta come neve

prima che un piede posi tutto il peso

del corpo scomposto di nuova vita – […]

Come negli esiti più importanti dei romanzi tra otto e novecento anche in Michieli l’epopea dell’io è legata a quella del corpo. Nonostante ciò, se in Proust esso fungeva da guida verso una dimensione personale,[7] in Michieli quest’ultima risulta sempre in divenire poiché, almeno in parte, di continuo riplasmata da agenti esterni e, in definitiva, sempre in mutamento. Riaccogliendo particole sparse del proprio corpo e deformate dall’esterno, Michieli accoglie in sé anche qualcosa – in una certa misura – di estraneo, il quale, naturalmente, porta un cambiamento anche a livello identitario: nell’ottica del veneziano, quindi, il corpo è la porta verso una perpetua riscoperta interiore, un continuo svuotarsi e riempirsi dell’io, di perdita e ritrovamento del corpo.

Una vivere incontrollabile

Mentre molti poeti del sottobosco, pur notando le problematiche del presente, si fossilizzano in una nostalgica rievocazione del passato,  Michieli affronta il problema dell’identità immergendo l’io nel divenire del tempo non avendo timore di registrarne le incoerenze ed i limiti anche in rapporto ad una generazione immediatamente precedente. Ed è proprio nell’ultima sezione del libro, Circostanze, che il rapporto generazionale viene interpretato non solo come limite dell’io, ma anche come carattere distintivo:

Non sono stato ciò che aspettavi:[8]

quei figli, quel bastone che reggesse

il tuo corpo oltre il passo dell’età –

Ma non fu per mancanza mia…

                                                      La vita!

Fu lei a lasciarti prima del tuo tempo –

Già il suo tempo— ripeto ora a me stesso:

il tuo tempo come fosse possibile

stabilire ogni tempo, ogni durata

Come fosse possibile ordinare

al tempo, qualsiasi cosa.

Il mito virgiliano viene calato nella dimensione privata dell’autore che di esso propone una versione negativa. Infatti se Enea, facendosi carico di suo padre, la sua gente ed i Penati, sostanzialmente cercava un’occasione per far sopravvivere altrove la propria cultura e attraverso una serie di profezie egli ha la possibilità di sapere in anticipo l’effettiva realizzazione del suo obbiettivo avendo quindi coscienza di poter influenzare gli eventi, allora Michieli sancisce immediatamente non solo l’impossibilità di tali cimenti, ma anche la sua ineliminabile diversità verso un pur amato padre, che è l’inevitabile affermazione di un’identità e quindi di un punto di rottura: questa la vera chiave di volta della raccolta. Tramite la reinterpretazione negativa del mito, non sarà più possibile per Michieli trovare la stessa continuità generazionale ritrovata da Heney («Between my finger and my thumb/ The squat pen rests./I’ll dig with it.»[9]).

Non avere il controllo totale della propria identità, che è sempre assediata dall’esterno; non poter appropriarsi del tempo in senso proustiano perché l’io è immerso ancora nel divenire; non poter avere totale influenza sugli eventi ed, infine, essere cosciente di costituire momento di rottura culturale rispetto alla precedente generazione: questi punti generano la consapevolezza di uno stato di crisi, che nella raccolta viene esplorato senza difese, senza ricovrare nel vagheggiamento del fantasma di un passato prossimo ormai perduto. A differenza del realismo negativo di poeti come Pusterla, che rilevano una crisi  della relazione tra soggetto e oggetti/mondo, data la « rinuncia ad assumere un ruolo ordinatore nei confronti degli eventi»[10], Michieli tratta la crisi dell’io nel territorio della interiorità stessa e qui, mettendo in discussione i punti precedentemente elencati, mette in discussione la capacità stessa dell’ego di autodeterminarsi, poiché sempre costretto a ritrattare la propria identità con l’esterno.

Fabio Michieli, veneziano, nel 2003 ha dato alle stampe l’edizione critica e commentata del racconto storico Il duca d’Atene di Niccolò Tommaseo (Padova, Antenore), autore su cui si è laureato presso Ca’ Foscari. Suoi interventi critici dedicati a Tommaseo sono presenti sia in rivista («Quaderni Veneti», «Giornale storico della letteratura italiana»), sia in volumi miscellanei.

È del 2008 la pubblicazione della raccolta di poesie Dire, per l’Editrice l’arcolaio; per lo stesso editore dirige la collana “Fuori collana”.

Lettore di poesia e di narrativa, sue recensioni sono apparse in rete e in rivista («l’immaginazione», «Italian Poetry Review»).

È, insieme a Gianni Montieri e Anna Maria Curci, caporedattore del litblog Poetarum Silva.

È co-autore di Voce di donna, voce di Goliarda Sapienza con A. Toscano e A. Trevisan, “racconto” portato in tour in tutta Italia.

[1] Fabio Michieli, Dire, Arcolaio, Forlì 2019, p.23

[2] Op. Cit, Arcolaio, Forlì 2019 p.26

[3] Op.cit, Arcolaio, Forlì 2019 p.61

[4] Op. cit., Arcolaio, Forlì 2019 p 52

[5] G. Cavalcanti, R. Rea, G. Inglesi (a cura di),Rime,  Carocci, 2011

[6] Op.Cit., Arcolaio, Forlì 2019 p.57

[7] Cfr. Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2007.

[8] Op.Cit.,Arcolaio, Forlì2019, p.68

[9] S. Heaney,Poesie, Mondadori, Milano, 2016

[10] Dopo la Lirica, poeti italiani 1960-2000, Enrico testa a cura di, Einaudi, Torino 2005

LUCA CENACCHI