NOTA DI LETTURA DI GIOVANNI PERRI A “CROCEVIA DEL FUTURO” DI

CARLO CIPPARRONE.

Nella copiosa e variegata attuale produzione poetica, alimentata dalla rete e dalla favorevole predisposizione di certa editoria a pubblicare testi talora inadeguati quando non addirittura indegni, può capitare d’imbattersi in autori ancorché sconosciuti vieppiù meritevoli d’attenzione. L’appetito è chiaramente rivolto alla critica militante, la quale opera ormai dichiaratamente una sua silenziosa eclissi, determinata forse dalla sproporzionata produzione vigente, o dal presupposto che forse un autore già noto – e dunque pubblicato con un grande editore -, offra migliori garanzie. Quali siano codeste garanzie, e se abbiano a che fare con la qualità del testo resta l’interrogativo affatto anodino per il quale sarebbe giusto spendersi in riflessioni più ampie, tali da abbracciare il fenomeno nella sua più ampia gamma di relazioni e di identificazioni, non solo culturali ovvero letterarie, ma anche sociali, economiche, frutto spesso di una politica atta a favorire il vizioso perpetuarsi di élites minoritarie perse nell’officio del proprio intramontabile culto.

Quando Saverio Bafaro mi ha contattato per propormi la lettura di una sua curatela a un autore purtroppo scomparso (e considerato tra i dimenticati), al punto da riunire per lui, post-mortem, in una pubblicazione affidata a “L’arcolaio l’ultima produzione rimastagli inedita, ho accolto con entusiasmo non solo per il pregio che riconosco a Saverio d’essere poeta di valore, ma per la sensibilità che gli attribuisco d’essere attento, come lettore e critico, ai richiami dell’autentica poesia.

Non conoscevo Cipparrone e ho subito scoperto l’amicizia che intanto intercorreva tra lui e Saverio, incanalata in progetti stimolanti come la collaborazione alla rivista “Capoverso” fondata dallo stesso Cipparrone e mantenuta viva da un ininterrotto scambio d’idee e riflessioni sulla poesia in cui letteratura e vita finivano per interagire in un reciproco scambio arricchente.

Il libro postumo di Cipparrone, a cui Bafaro ha dato organica forma, è un piccolo grande dono che i poeti si sono fatti, ed è una giustizia resa alla poesia alla luce di una identità riconoscibile sin dalle prime righe in cui il poeta dichiara la propria adesione alla sua misteriosa natura come luogo di attraversamento dal dolore fin dentro il corpo fatato di una possibile felicità: “Come misteriosa conchiglia che in sé racchiude / l’immensità del mare in risonanze d’onde, / ho costruito un guscio al mio dolore. / Ho saputo inventarmi questa sola felicità.”

È resa dunque subito esplicita la formula d’una poetica a cui ci si approssima per sublimazione, senza però tradire il passaggio al poiein originario e fecondo, guscio in cui risuona l’ombra della propria vita a suon di versi. E sono resi, questi, in tutta la loro grazia musicale, ben levigati e legati in un tornello d’acqua sorgiva da cui esce, esplicitato nel suo nascondiglio di parola, il senso: “La speranza è cieca, / immagina piena la vuota sciabica”. “Di notte, tra zigomo e fronte, / l’orbita ridiventa un’umida cavità / tra palpebre avvizzite. / L’occhio finto, rimosso, / confida al bicchiere il suo segreto: /come un pesce esanime / nella boccia di vetro / fissa dal comodino il soffitto. / Di notte anche le protesi / dopo le fatiche del giorno riposano: / le dentiere escono dalle bocche / che svuotandosi si ritraggono, / le gambe artificiali riposte / occupano le sedie accanto ai letti, / le mani di plastica smettono d’agitarsi / allo sportello dell’ufficio invalidi,”

Una poesia dunque mistificatoria, ma come avvolta nel nitore di una inossidabile rivelazione, una sequenza di percezioni in cui aggirarsi sprofondando per cognizioni di cause segrete in cui l’indecifrabile s’apprende dentro una lente luminosa. Ecco il soggetto di questa poesia: uno sguardo lucido sulle cose irraggiungibili, il riconoscimento di un fantasma a cui è dato il peso di un intero dramma tenuto in serbo, la consapevolezza di una resistenza alla vita fatta vibrare nel luogo del disincanto: “Preferendo andare a piedi / usai poco le ali, / che divennero un peso”. Cipparrone mescola sapientemente l’elegia e l’aforisma, dispiega l’ordito in accordi filosofici, capovolge il verso nel breve fotogramma d’un distico in cui la realtà appare spaventata da un piccolo frammento di luce e fonda una speranza in cui riconoscersi, anche provenisse da una disfatta. L’assioma diventa il punto di fuga di una spianata narrazione dentro cui coinvolgere il lettore. E vi partecipa la terra, nella sua gravità fenomenologica, e gli uomini tutti, proiettati, che vi si incagliano: luce dunque come esplosione d’un frammento di verità nel (del) tempo: “Dopo troppe notti senza luna / l’alba stenta a farsi luce. / Non è ancora giorno/ quando, graffiando la nebbia, / le gru riprendono a roteare e intorno / crescono piloni, tralicci, antenne. // Assediata da tutti i lati, / la collina si sgretola. / Nuovi mostri violentano / la placida innocenza della campagna; /tenere groppe cedono / all’assalto delle benne. // Al crocevia sfrecciano veloci i motori, / percorrono viadotti audaci, attraversano / tunnel lunghissimi, vanno / verso un tempo smemorato.”

Da questo crocevia occorre partire per individuare l’elemento forse più seducente di questa poesia: la compresenza, talora disarmante, di una memoria e di un oblio colti come elementi di raccordo e di svolta della poesia stessa intesa come ripiegamento in una peculiare etica: l’indicazione, cioè, di una condotta che pertiene alla poesia in quanto creazione umana e motivo di speranza.

A margine di una sintassi colloquiale, tutta giocata in rimandi metaforici, il respiro dei versi affonda in una gravità che ha la chiarezza delle cose reali, elencabili ma anche smarrenti, come provenienti dalla pellicola di un sogno.

Cipparrone pensa se stesso nel cuore della poesia, e con delicatezza e con umiltà parla di noi, del nostro stare nel tempo ma come sospesi in un approdo che non si compie mai, in un andare che di continuo ci interroga, si apposta, svetta, sguscia, incede, si smarrisce. Si è sempre nell’illusione (sincera e forse anche vana) di cogliere il segreto sfuggente: come il poeta che dimora nella boscaglia dei versi: lui “cacciatore / che tenta di catturare la selvaggina /seguendone le tracce, quando incalza / si dà alla fuga o spicca il volo.”

È il giogo della poesia che si dà per inganni e inveramenti, slittamenti di senso e svolte continue del pensiero.

Con questa poesia, si potrebbe dire, l’uomo ritrova il motivo perduto o solamente immaginato del suo stare al mondo, della vita sente, infine, solo l’indizio di un allontanamento.

Giovanni Perri