GIANNI MONTIERI SI SOFFERMA SULL’ULTIMO LIBRO DI VITO BONITO:
“DI NON SAPERE INFINE A MEMORIA”
NELLA COLLANA PHI DIRETTA DA GIANLUCA D’ANDREA E DIEGO CONTICELLO.
ARTICOLO PUBBLICATO SUL BLOG MINIMA & MORALIA, PER LA RUBRICA “I CORDONI DELLA POESIA”.
Come si porta la memoria collettiva dentro un testo poetico? Come si può offrire una visione nuova a una narrazione storica e centrale per la vita del nostro paese? Probabilmente lo si può fare solo ridistribuendo il fatto andato e storicizzato sotto una nuova luce che fa parlare le voci che in quel fatto stavano. Lo si può fare soltanto attraverso la sottrazione, lo scarto minimo che la poesia del bravissimo Vito Bonito sempre concede. La sua scrittura sta sempre tra il sospeso e la fiaba, tra l’accaduto e il divenire, viene da un tempo (e da un mondo capovolto) che non può essere raccontato in frammenti regolari perché regolare non è, e allora pure la memoria, addirittura la cronaca, vanno reinventate in un non luogo, un non spazio di voci sovrapposte, nei quali il poeta conserva lo sguardo del bambino che prova a disegnare su un foglio seduto nei banchi di scuola.
Bonito ha un talento eccezionale, ha fantasia, manovra la regola, ma – esattamente come Bordini – sa come rinunciarvi. Le poesie del suo libro più recente Di non saper infine a memoria (L’Arcolaio 2021) inventano un mondo di fantasmi e stupore per scavare in un biennio quello che va dal 1978 al 1980, due anni che hanno segnato le sorti dell’Italia, due anni che sono cominciati con il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro e della sua scorta e che si chiudono con l’omicidio di Walter Tobagi. Come lo metti il cadavere di Moro in una poesia? Come ce li metti i suoi rapitori? Ce li metti vivi e come da dentro un sogno li fai parlare e sovrapporre. Bonito non pretende la cronologia, la cronaca, non s’arroga il diritto di far memoria fedele, solo quello di fare poesia, mettendo a volte a fuoco e altre fuori fuoco due eventi che, come spiega in una nota al libro, gli tornano sempre in mente nei momenti più disparati. Nel libro ci sono dei testi in corsivo, quelle sono le voci di Moro e Tobagi. Una poesia significativa e che mi piace molto dice:
ogni cosa è finita
di andarsene è l’ora
la vittima è luminosa
il nuovo
non è mai arrivato
Il testo lo leggiamo nella prima parte della raccolta, è preparatorio al resto, è preliminare agli scambi tra Moro e i brigatisti, alla voce di Walter Tobagi, ma è importante perché mostra con chiarezza il lavoro pulitissimo e delicato di Bonito, il suo stare dentro la storia e decidere di osservarla da ogni punto di vista. Questo gli consente, con la preveggenza della poesia di andare a vedere nella progettualità dei terroristi gli albori del fallimento e il suo concretizzarsi nel nuovo che non è mai arrivato, perché forse non poteva, non era nemmeno nuovo, fatto sta che in questi pochi versi, solo una cosa è luminosa: la vittima. A quel punto non è più una vittima ma una conseguenza che risplende e oscura il disegno delle brigate rosse.
La poesia può tanto e può poco, qui pur non volendo fare storia, né distribuire giudizi, ma ricostruire un tempo bambino andato e perduto, un tempo in cui il ricordo di una partita di pallone compare con la stessa frequenza del cadavere di Moro, tenero e piccolissimo nel bagagliaio dell’auto. La poesia può illuminarci e porci davanti a una cosa vecchia con in mano una lampada nuova. Perciò, leggendo, ci pare di ritrovarci nel covo delle BR tra i rapitori e Moro, i loro volti che si sovrappongono, i dialoghi che sono colmi di dubbi, leggere nelle parole degli uni e dell’altro la speranza che svanisce, che scema, ci pare di sentire la voce di Walter Tobagi, o vediamo solo il ricordo di nostro padre che ce lo racconta. Ci pare, infine, perché è il segreto della poesia di Bonito, di vedere molte altre cose che hanno a che fare con la nostra infanzia, perché è bene non dimenticarlo, mentre ammazzavano Moro noi stavamo giocando, quel giorno, il giorno dopo, le settimane successive.
GIANNI MONTIERI
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