Riflessioni su L’arresto
La lettura accattivante di questo tragico intenso canto mi ha riproposto riflessioni sul trascorrere e trasformarsi inevitabile della realtà, quel “panta rei” (tutto scorre) di memoria eraclitea e “l’essere-per-la-morte” di Heidegger, con l’angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della finitudine di ogni cosa, anche dell’amore – “[…] quel boia / che ciascuno reca in sé […]” –, e di quella bellezza che “[…] non si stringe non si possiede: / si contempla si contiene si lascia […]”. L’approdo e il naufragio nel nulla stride tuttavia con quell’anelito e quel continuo tendere che bene i romantici seppero indicare col termine “streben”, tanto che parafrasando Goethe: “Solo colui che perennemente si affatica in un continuo tendere all’assoluto, potrà essere redento.” Ma qui, non c’è alcun assoluto, nessuna redenzione, e la nientificazione pare avere il sopravvento sull’illusione dell’essere o “esserci”. Più precisamente si dovrebbe dire che tutto diventa altro, nel fluire del tempo e nell’inarrestabile imponenza crudele della vita che ci scaglia tra le cose e sembra farsi beffa della nostra hybris e del linguaggio: “[…] e nessuna parola piú / da pronunziare; solo / un rintocco languido, /lento, fino all’arresto: «Tu sei libera».” Se tutto è destinato al naufragio, perché ancora scrivere, quando anche la parola è destituita del suo significato? Se si vuole che il mondo riprincipi nuovamente, occorreranno sempre parole nuove in ossequio a quella natura (physis) che ci abbraccia e sovrasta, qui e ora, nell’attesa che l’io diventi noi nella parola: “Io sarò voi / i morti, tutti, / noi, voi / dopo di me, / quando / solo, soffierò / lo sguardo, / da ciascuno / di voi tutti / su ognuno / di me.”
Nevio Spadoni
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