Accogliamo quest’oggi Marilena Renda, l’autrice di valida solidità che viene a depositare nella collana phi la sua “Fate morgane“, una serie di testi di grande ferinità, abbondanti nel respiro e nel verso. Un’opera, insomma, arcaica come i sassi e dura come la vita che si rivolta nelle budella dei panorami del nostro sud. Un libro di grande icasticità – un progetto sospeso tra enormi paesaggi e crescite problematiche. Gianluca D’Andrea ha stilato la nota editoriale, puntuale e acuta, che qui sotto riproponiamo per una completa decodificazione del libro.

Buona lettura!

Gianfranco.

Nota editoriale di Gianluca D’Andrea:

Illusione e reale: nell’intercapedine tra visione e aderenza a un mondo in fuga perenne, in un «terreno per fate morgane e inganni perfetti», si muove la più recente poesia di Marilena Renda. Fate morgane, appunto, i miraggi dei luoghi e dei ricordi, di una Sicilia contemporaneamente fruttifera e morente, con la conseguente necessità di trasfigurare le relazioni in mythos, in una lontananza che attenui il dolore di un’origine per sempre perduta. L’impressione suscitata dalla lettura dei testi, nonostante la nominazione precisa di persone e luoghi, è quella espressa da Vincenzo Consolo in Le pietre di Pantalica: «Mi par di ritrovarmi in tempi remotissimi, e che l’uomo non esista più o, meglio, che non sia mai esistito», effetto paradosso che bene si attaglia al “disorientamento” suscitato, e così ritorniamo al titolo, all’illusione, alle «nuvole / che curvandosi all’impossibile / poggiano su terre che non si vedono». Eppure da questi miraggi, per mezzo della loro forza immaginifica, soprattutto nella seconda sezione, emergono vite concrete: la nascente (la figlia) e la rinnovata (la madre). E se «le foglie hanno cambiato forma» e «il mondo fa le prove di un altro mondo», allora si capisce come gli ultimissimi testi preannuncino un ulteriore spostamento in direzione di una pietas civile sempre presente nella poetica dell’autrice.

Gianluca D’Andrea

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Alcuni testi tratti da “Fate morgane“:

III.

Se consideriamo che tra isole lontane

troviamo a volte molte somiglianze,

mentre isole vicine sono spesso assai diverse,

si spiegano allora molte cose dell’infanzia:

non capivo mia madre, mio padre, mai,

amavo il profumo di mia nonna nel letto

e desideravo i loro abbracci a dismisura,

ma quando si è trattato di far cantare il mondo

ho assoldato soldati di ventura, stupidi e spregiudicati,

che di notte mi insegnavano mostruose filastrocche.

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VIII.

A Siracusa Freud vede delle piccole statue

di madri e fanciulle, alcune con neonati,

colte nell’atto di sorridere, o camminare.

Qui ho visto il femminile, scrive a Jung,

ma non entra nei dettagli e non condivide

la scoperta nemmeno con Ferenczi,

che in viaggio si rivela esigente e molesto.

Tiene per sé la visione, scovata o no per caso,

vale un intero viaggio, ma non trova le parole,

forse l’ha desiderata troppo a lungo,

e forse è inutile addobbare la verità di dettagli.

Scrive alla moglie, impossibile l’anno prossimo,

troppo costoso venirci in tre, in cinque, in undici,

dovrei mettermi a fabbricare fibbie e fiammiferi,

tengo la Sicilia per me, nessuno me ne voglia.

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Dalla sezione “Le madri

I.

Non avevo mai visto una casa,

quindi la trovai spaventosa.

Venivamo da una tana,

conoscevo solo tane.

Mia madre non aveva più lo sguardo del terremoto,

la gonna sgualcita e lo sguardo verso il basso

di quelli che provano a fare ordine nel terrore.

Le madri sono buone, buone come la terra

e la terra è buona anche quando non lo è affatto.

Il loro regno è potente e silenzioso

e nel sangue hanno la quiete della morte.

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VI.

Le illustrazioni della mandragora la rappresentano

alta cinque centimetri, in forma di uomo

o di bambino che dorme dentro la terra.

Prima o poi nasce, dopo uno strano parto,

e si ritiene che, essendo figlia di madre potente,

possa ribaltare le leggi di natura, donare l’amore,

chiudere la bocca al male e far nascere altri bambini.

Qualcuno addirittura ha visto una mandragora e un bambino

abbracciati, intagliati nella stessa sostanza vegetale, seppelliti nella simbiosi e perduti agli sguardi

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Dalla sezione “I bambini salvati dal mare

I.

Ti dico le parole che ti piacciono, forse le imparerai volentieri

sei triste, vorrei chiederti, arrabbiata col linguaggio

non ti piace più l’aereo, e nemmeno l’elefante

lo sai che i bambini non rinunciano facilmente

alla gioia, in Siria, appallottolano le foglie

per fare una palla, e anche se dormono per terra,

dove capita, protetti solo dal fiato degli alberi,

fermi come escrescenze, come totem toccati dal sacro,

non dimenticano le parole, le aspettano di nascosto,

aspettano che tornino, silenziose, dalle tane.

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II.

Una nigeriana, a Palermo, in via Juvara

ha gettato in un sacco ciò che resta di un bambino.

La sua morte fino a ieri sarebbe stata solo un pericolo scampato,

uno di quelli di cui si nutre con divertimento

la nostra storia di adulti, con le cadute dalle scale

gli incidenti stradali e i danni ai denti.

Quante cose non vedono i santi che proteggono,

tutta la violenza al centro di questo amore.