Michele Miccia, ormai lo avrete compreso, è alle prese con un’opera di dimensioni ragguardevoli, “Il ciclo dell’acqua“, che di volta in volta acquista un’appendice diversa in coda al titolo primario. L’esordio di questo progetto avvenne alcuni anni fa con “Il ciclo dell’acqua – Parte di sotto” che l’autore ebbe l’occasione di pubblicare con le Tipografie Donati. I volumi seguenti – quelli che già sono stati editi – glieli ha curati e diffusi la casa L’arcolaio, il cui direttore, quando stipulò con Miccia il primo contratto, ritenne ragionevole credere che questa ampia serie di capitoli meritasse di essere trasformata in numerosi, eleganti volumetti. Per i posteri, sì. Fabbri non ha voluto esagerare: crediamo che il nostro Michele meriti in un domani più o meno lontano un’attestazione di merito che lo accolga tra i poeti delle prossime generazioni. Fabbri si è quindi impegnato a realizzare, con il tempo, tutta la serie di libri che l’opera prevede. Di tanto in tanto è bello (temerario, anche?) avere delle certezze.

Questo che oggi esce dalla culla editoriale è il “sesto pulcino” del progetto. Il titolo, come già avrete avuto modo di leggere dai titoli e dalla copertina sopra riprodotta, è “Il ciclo dell’acqua – Parte di sopra“.

Traiamo dalla prefazione di Paolo Briganti alcuni piccoli passi esaustivi.

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(…)

“Se fosse – com’è del resto – una voce, si tratterebbe d’una voce interna, pacata e trattenuta. Anche solo magari un mor­morio tra sé e sé. Un monologo interiore. Un sussurrato quasi senza labiale; addirittura da rendersi – in teatro ad esempio – tramite una mormorante voce fuori campo. Qualcuno che pensa e, pensando, dice. Già: ma “chi” dice? Chi è il locutore? Non è certo interrogativo da poco. Si suppone intanto – au­tomaticamente, provvisoriamente – l’io dell’Autore stesso: la cosa più naturale. Avanti così per ora. (Poi si vedrà).

Esce dunque, incipitariamente, dalle pastoie e compres­sioni e costrizioni telluriche e carsiche del precedente lungo viaggio (le cinque “parti” del Ciclo, di cui si diceva sopra) l’“io” – che pensa, che significa esprimendo parole, e, significando, si autodetermina – si dilata spontaneamente verso l’alto, senza più limiti di forma: un’espansione connaturata al gassoso spi­rito vitale. L’entità egotica – chiamiamola così – prende a de­finirsi, a riconoscersi anzitutto in un’istintiva immediata con­tesa/scambio con Dio («Non mi basta un Dio che / mi ob­bliga alla fedeltà mi lascia / orfano appena lo tradisco, un Dio unico»…), lo moltiplica («ne pretendo / uno in ogni bivio che appaghi / il flusso delle mie intenzioni»…): «Cerco la forma che mi dia giustizia / contenente quell’aria che / m’induca a lievitare». È in realtà un corpo-a-corpo dentro l’entità stessa, dentro l’io-Dio che si autodetermina: «Ho dentro un Dio / emano una legge / che lo spiega»… Tramite «il movimento io Dio» l’entità inventa «un Dio / per porre un argine» alla sua forma «sempre in divenire».

La poesia del non-poeta Miccia volge e riavvolge spinte e spire di pensiero auto-creante. Gorghi anche di dubbi: se l’io provenga da qualche parte («almeno da un ammasso di / fango in un angolo di spazio / ancora inesplorato); se l’uni­verso sia magari solo una infinitesimale cellula divina («Chi mi dice che l’universo / intero non sia invece / solo una cellula di Dio»); se la missione-istinto sia quella di manifestarsi crea­tivamente in energia vitale («votato alla trasmutazione / del sangue in energia»)… È insomma, questo, un poema (l’intero di sei parti, ma anche, nella fattispecie, quest’ultima parte d’esso: finale? Mi si dice di no) di grande impegno “auto-co­smogonico”, e di respiro “religioso”… Ma io lo so che, defi­nendolo così, rischio almeno in parte il fraintendimento. Di­ciamo allora che è un supremo sforzo di conoscenza, uno sforzo prometeico (per l’intensità e per il fine), come si coglie anche esplicitamente: «Sono riuscito a distillare / dal mio fe­gato eroso dai rapaci / il fuoco che ho consegnato / prima a me stesso per provarne / l’efficacia poi agli uomini». Uno sforzo di auto-riconoscimento di sé come “io cosmico” dell’uomo-Dio…

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Alcuni brani poetici.

 

Anche le diramazioni dell’acqua

soggiacciono al caso che è sempre l’ordine

del cuore. Da questo ultimo

vincolo terreno libero il resto

del mio corpo che già

volteggia verso l’alto

grazie a un cielo che mi giunge in aiuto

in un momento di sfondato

cristallino, vengo attirato

nella pace di un vortice

protetto mentre tutto si distrugge,

nemmeno una forma mi tiene a bada

uguale in ogni punto dello

spazio sono indifferenziato.

 

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Tutto muta per non morire

restare uguale a se stesso, non so

quanto peso debbano sostenere

le mie spalle per innescare

una scintilla d’assoluto

accumulando le scorie di corpi

che si strofinano tra loro.

Questa notte il cielo è tenuto

più in alto dal mio silenzio, ancora

mi contiene, intinge in me i suoi

villi, scrive parole

che mi chiedono sangue

da innestare nelle sue zone

d’ombra, basta il mio corpo

con le sue parti più volatili

a spiegare il mondo o a occultarlo.

 

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Tra tutte le ossa sparse

nel tempo a far bella figura

di un’epoca felice

i denti sono quelle

che mostrano più versatilità,

strumenti che lacerano

strappano ricompongono

diatribe, anche nella mia morte sono

modelli per bocche da ricostruire

verso una riabilitazione

al cibo solido, tritati

incorporati al vomere in

polvere diamantata arrossano

terra e cielo, diventano

subito seme di Dio in ogni affondo.

 

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Questo suono prova fossile del

mondo che mi spiaggia davanti

che mi dà il cambio per

proseguire nella mia voce

mi fa vibrare esce dalle mie labbra,

non so da dove giunga

da dentro o da fuori oppure è il senso

della loro fusione. Non

perdo tensione l’atmosfera

non mi rallenta mi attraversa,

anche il mio corpo si diffonde

con questo verso che mi riempie

la bocca, lo rilancio

ancora più lontano

a scuotere le mie vite passate

dal loro torpore iniziate

in altri luoghi per

rifluire sotto lo stesso cielo.