Annunciamo con estremo piacere il ritorno di Mauro Germani in Casa Arcolaio. Vi ritorna con un libro di aforismi, di frasi brevi ma non troppo che racchiudono flash esistenziali su se stesso o su altri scrittori. Il titolo è “La parola e l’abbandono” costituito da dettati che raccontano i costumi e i pensieri di molteplici autori -frasi icastiche che, nella loro brevità, riescono a dipingere la temperie di un carattere umano o quello di stagioni letterarie e filosofiche ormai perdute nel flussi del tempo -. Per queste ragioni, il libro di Germani assume ai miei occhi una solennità e un silenzio impeccabili. La storia dell’umanità, in fondo, potrebbe essere composta anche secondo queste dinamiche, al di sopra delle passioni contingenti dell’uomo.
(gf)
Alcuni testi:
Ho vissuto fino ai cinque anni dentro la ditta “Moretti”, che fabbricava tende. Era molto grande, c’erano tre cortili, gli uffici, la confezione, il laboratorio chimico… Un mondo chiuso alla periferia della periferia. Pieno di gatti…
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Quante volte nei sogni compaiono mostri, creature orribili, che sono il risultato di paurose metamorfosi del corpo… Improvvisamente una persona sognata, magari un nostro amico o addirittura un nostro familiare, si trasforma in un essere spaventoso che ci minaccia e ci aggredisce, attentando alla nostra vita. Allora ci si domanda: qual è la verità?
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In Perturbamento del grande Thomas Bernhard, la voce di sperata del principe Saurau (una delle figure davvero indi- menticabili della letteratura) rivela una furia della parola che attesta, al contempo, la vanità della parola stessa, in una coazione a ripetere sempre più malata e mortale. Il suo inarrestabile e folle monologo trasmette paradossalmente una tremenda volontà di autodistruzione, che Bernhard riesce a comunicarci in modo ineguagliabile, con una potenza verbale e martellante da togliere il respiro… Bisognerebbe rileggere spesso Thomas Bernhard per capire, una volta per tutte, che cosa significa una scrittura che non è semplice esercizio di stile, ma espressione drammatica dell’esistenza.
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Alberto Giacometti, come artista e come uomo, consumava e si consumava. Una dépense continua e febbrile, vitale – a modo suo. Un corpo a corpo con l’esistenza ed il suo abisso.
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Maurice Blanchot ha scritto che «la poesia non è data al poeta come una verità e una certezza a cui accostarsi: egli non sa se è poeta, ma non sa neanche che cosa è la poesia, e neppure se essa è; essa dipende da lui, dalle sue ricerche, dipendenza che tuttavia non lo rende padrone di ciò che egli cerca, ma lo rende incerto di sé stesso e come inesistente». Non ho trovato finora un pensiero sulla poesia più completo e convincente di questo.
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Nel Sonetto della desolazione, Corazzini si sdoppia, sa che la propria anima è irraggiungibile, perduta in «solitudini malate / vedove di partenze e di ritorni / simili a stazioni abbandonate», laddove ogni transito di vita si è spento ed anche il dolore sembra appartenere ad uno spazio muto, chiuso nella sua remota desolazione.
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A Livorno odiavo andare al mare, in spiaggia. Avevo orrore di quell’ambiente, la gente in costume, le cabine, gli ombrelloni, la sabbia… Mi faceva tutto schifo. Il mare, però, mi piaceva, soprattutto in lontananza, senza nessuno. Anzi, pensavo che chi andava in spiaggia in realtà non lo rispettava. «Il mare non scherza», mi dicevo…
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Chi raccoglierà le parole abbandonate della poesia, questi strani doni tra la vita e la morte, questi singhiozzi solitari? Le parole aspettano nell’ombra, escono dalle loro tombe di car- ta, vogliono risorgere per un po’, sconfinare, prima di sparire per sempre nell’oblio.
Mauro Germani – La parola e l’abbandono – pagg. 87 – L’arcolaio, Forlimpopoli, 2019 – Collana L’arcolaio
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