dicembre 1938 – 3 dicembre 2018. Per Antonia Pozzi
Gli anniversari sono sempre ambivalenti: momenti di celebrazione capaci di trasformarsi in un passo falso, vittime di un tranello ben celato. Il fatto, però, che un volume di scritti dedicati ad Antonia Pozzi sia uscito a ridosso di un anniversario importante come gli ottant’anni dalla sua prematura e volontaria scomparsa è solo un evento che va accolto in modo assolutamente positivo. Nessun intento celebrativo; solo il desiderio di affrontare la giovane poeta in modo libero, autorevole, scientifico e scevro da letture stereotipate, dogmatiche, che da anni si ripetono raccontando una favola bella che, evidentemente, qualcuno ancora illude.
La novità forse più evidente di questo volume corposo (oltre 500 pagine), curato da Fabio Guidali e Matteo M. Vecchio, sta nello sguardo ampio e argomentato rivolto alla figura di Antonia Pozzi; sta nell’evocazione della «singolare generazione» cresciuta attorno alla figura del professore Antonio Banfi e soffocata dai tragici eventi storici che modificarono la fisionomia dell’Italia, culminando proprio nel 1938 con l’emanazione delle leggi razziali. Non che i legami tra Antonia Pozzi e la cerchia banfiana non fossero già stati in precedenza indagati, ma è la prima volta che in un volume intenzionalmente si danno il giusto rilievo e il degno riconoscimento alle possibili influenze esterne, agli apporti esterni, facendo dialogare tra di loro i singoli risultati delle indagini per trarne un quadro di insieme nuovo, nonché foriero di future esplorazioni (rapidamente penso ai due contributi di Davide Assael – La lezione di Giovanni Emanuele Barié nel percorso formativo di Antonia Pozzi, e Da Piero Martinetti ad Antonio Banfi. L’Università di Milano negli anni Trenta -; nonché l’affine contributo di Marcello Gisondi, Un giovane maestro: Antonio Banfi teoretico; oppure all’affresco ‘topografico’ di Francesca D’Alessandro, Occasioni di lettura. Vittorio Sereni e la topografia poetica del suo tempo; fino al ‘dittico’ di Matteo M. Vecchio, Notizia su Piera Badoni e Nella Berthier, che tratteggia un quadro di relazioni dirette e indirette con l’universo pozziano).
Ma si dà voce pure al lato negativo della cerchia banfiana, dalla quale in una certa misura Antonia si è sempre sentita esclusa, e che non le risparmierà delusioni cocenti, come il giudizio negativo sulla propria poesia espresso dal professor Banfi, e che porterà la giovane Antonia a ipotizzare la via del romanzo per dare corpo alla sua scrittura.
L’intenzione dei curatori è quella di sottrarre la vita e l’opera di Antonia Pozzi da quella dimensione attuale che l’ha resa un caso letterario, per riconsegnarle – vita e opera – alla «complessità del loro tempo», come viene detto nell’agile ed efficace introduzione, sottraendola da uno «svilimento, che trae origine proprio dal contesto di prima lettura e pubblicazione delle sue Parole»; e nel fare ciò, sia chiaro, non si disconosce la storia anche critica, bensì si parte proprio da questa per contestarne certi esiti (vedi il “non incolpevole” Vincenzo Errante) e, di contro, ribadire la centralità di altri (vedi l’ancora autorevole contributo di Eugenio Montale). Consegnare Antonia ad Antonia stessa, anche con l’aiuto degli strumenti della psicanalisi applicati alla lettura delle poesie, come avviene nel contributo firmato da Matteo De Simone, Sostare in riva alla vita. Note sulla poesia di Antonia Pozzi, al quale va riconosciuto il merito di mettere all’angolo parte della vulgata critica, quella parte per la quale è sembrato «essere difficile riconoscere, anche post mortem, ad Antonia la sua personale storia, costituita da malinconie e angosce ma anche da desideri e speranze.»
Sintomatico dell’atmosfera che si respira nel volume è il primo vero contributo, a firma di Fabio Guidali – Antifascismo cum figuris. Arte e politica nella Milano di Antonia Pozzi – nel quale si interroga proprio l’antifascismo sui generis della Pozzi in rapporto all’ambiente in cui si trovò a crescere, una delle molteplici “questioni aperte” mai realmente affrontate in precedenza; un’indagine condotta sia sui documenti sopravvissuti e perciò conservati della poeta, sia attraverso un inedito confronto con l’arte. Se di un vero e proprio antifascismo manifesto non si può parlare, per penuria di documenti, e forse anche per censura, visto che non si deve mai dimenticare l’azione nefasta del padre sugli scritti della figlia, il confronto con l’ambiente di origine e con quello della crescita intellettuale offrono a Guidali argomenti interessanti che mostrano come nella Pozzi il regime sia stato sulle prime accolto con una certa indifferenza, sulla scorta dell’adesione paterna, per poi essere implicitamente osteggiato nel non allinearsi al disegno intellettuale del regime, mostrando in ciò un atteggiamento più affine alla figura del professor Banfi. L’accostamento inoltre alla figura di Gabriele Mucchi, in verità mai frequentato direttamente da Antonia, ma sicuramente a lei non sconosciuto per frequentazioni comuni, permette a Guidali di parlare di «un’opposizione non aperta, non armata, silenziosa, ma corrosiva per le basi del regime, e, come per molti allievi di Banfi, culturale», dove è proprio «il tipo di cultura stessa apprezzata nella cerchia di Banfi e tra i sodali di Mucchi a essere implicitamente antifascista, perché per entrambi i gruppi, che parzialmente si sovrapponevano, l’arte e la cultura rappresentavano un approccio morale alla realtà.»
Inoltre è proprio questo silenzio di Antonia Pozzi sul regime a essere letto come «attenzione ad altro», ossia al problema estetico del rapporto tra arte e vita che si lega inevitabilmente a ogni questione etica, e in esse la salvaguardia stessa dell’esistenza. Insomma si spinge ulteriormente in avanti l’analisi della vita di Antonia Pozzi con lo Zeitgeist. Il limite, come ho già detto, di questa lettura sta proprio nella qualità dei documenti pozziani, che non permettono l’individuazione di netti giudizi, né tantomeno di piccoli indizi. Ma qui io mi spingo più in là di Guidali e, sulla scorta del dolore manifestato negli ultimi tempi, gli ultimi anni della propria esistenza dalla Pozzi, non nascondo che anche le ragioni della scelta estrema del suicidio vadano ricercate nel suo non sentirsi più parte del mondo in cui si ritrovava a vivere, e non per motivi individuali, personali, ma proprio più ampiamente universalmente storici: il mondo del 1938 non era più quel mondo osservato con dolce sofferenza nelle poesie degli anni precedenti. Certo il silenzio sull’esilio volontario dei fratelli Treves a causa delle leggi razziali è un silenzio che parla; ma potrebbe anche parlare dell’alterazione subita dalle carte pozziane, come il famoso testamento riscritto a memoria dal padre (sullo stato delle carte pozziane è incentrato il contributo di Elena Borsa, I testimoni manoscritti del lavoro poetico di Antonia Pozzi; contributo notevole perché, pur prendendo le mosse dalle note descrizioni di Onorina Dino, offre un’immagine più nitida nelle manomissioni post mortem, mettendo in discussione in alcuni casi l’autografia in precedenza data per certa).
© Fabio Michieli
Chi mi parla non sa | che io ho vissuto un’altra vita. Antonia Pozzi e la «singolare generazione», a cura di Fabio Guidali e Matteo M. Vecchio, L’arcolaio, 2018
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