Dalla rivista POESIA – n. 339 – mese Luglio/Agosto 2018-07-09
Stefano Verdino recensisce “Lingualuce”, di Damiano Sinfonico
Un’indicazione preziosa la offre la citazione in exergo da una poesia di Ermanno Krumm: «Solo quando basta perché batta / la lingua-mano nuove tenere parole». Al di là della matrice titolo (“lingua-mano e lingualuce) metterei in rilievo “nuove tenere parole” e “Solo quanto basta”; sono termini ben sufficienti a indicare la strategia di questo secondo, ricco ed essenziale libro di Damiano Sinfonico. In Storie (2015) avevamo già bene apprezzato la sobrietà del dettato e i felici innesti di una affabulazione; ora quel “solo quanto basta” si connota con un deciso orientamento dove le “nuove tenere parole”non debbono trarci in inganno, non inducono a una tenerezza dal sapore di idillio o di espansività, ma vanno intese nel loro germinare, nel loro nuovo annodarsi sulla pagina, Tenero appunto in quanto primizia, apertura, lingua luce. Le tre sezioni che compongono il lieve libro offrono tre prospettive di queste germinazioni: in Tornanti, la prima serie, l’affabulazione disegna situazioni e racconti in cui si accampa sempre uno spaesamento: la località non raggiunta, la risposta depistante tra le “squadre”, “l’altro aspetto” della “professoressa in pensione”, “la risposta che non contemplavo” degli studenti, il professore che “dolcemente si confessa” dormiente davanti al film di culto fino alla “strana e accecante” “tua frase recente”. Nel frattempo abbiamo visto trapelare un po’ di contesti, decisamenti ordinari: più volte la scuola, il bus, transiti presso vetrine, in auto, tutto insomma a basso voltaggio, ma proprio perché a basso voltaggio più rilevanti sono i vari soprassalti che il testo istituisce, come gli spaesamenti di cui sopra, l’esibizione di oggetti-senhal (la cordicella degli occhiali della prof., la propria “scatola cubica”) e i calibratissimi rilievi metaforici (“un fiocco di stupore”, “come a bordo vasca / le nostre ombre friggevano sul piatto”). Come si dice allinea testi propriamente meta-poetici, ma decisamente sciolti da ogni dottrinarismo e concretati nel vivo di un quotidiano interrogarsi. Dalla nota finale sappiamo che molti di questi testi sono nati a Granada, in Spagna, e hanno vissuto quindi, implicitamente, di una relazione tra lingue (l’italiano e lo spagnolo) che spiega anche il titolo Come si dice e si precisa: «vorremmo sapere / nonostante i silenzi / tutto questo che ci parla». È in campo la partita tra «l’opaco / che s’incrosta sulla lingualuce», una partita aperta, a tornanti anch’essa non priva di deficit, tra lingua e vita come ci insegna un testo davvero fulminante e memorabile: «’la sua vita non ha lasciato tracce’ / stavo per scrivere in un articolo. / Poi ci ho ripensato. / Non si può scrivere una cosa più crudele. / La vita non si scioglie come neve». Infine Case ci porta a una serie di habitat, dalla casa vera e propria, al luogo turistico (nel caso dell’Alhambra), di nuovo al bus, dove un dato quanto mai occasionale e comune riverbera un che di salvifico. «Quando l’autobus sobbalza, tu spunti. / Come un’arca di Noè, tra le onde, / la tua testa mette in salvo / qualcosa di me, di te, sobbalzando». Forse si sarà notato nelle citazioni fatte l’insistere dell’uso della similitudine di un “come”, che spesso costituisce l’apertura, l’alea, o anche la ferma sigla del testo; a volte i margini della similitudine sono semplici, altre volte aggregano notevoli soluzioni di intensità espressiva, del tipo «come vedere oltre un vetro / e non poter portare quella cosa di qua», ovvero «come un paese bianco dell’Andalusia / sospeso fra colline sempre uguali». Né manca il graffio, che ci appare ancora più acuto, proprio perché scatta in un contesto d’apparente normalità e ben si incide al lettore, come nel congedo dell’ultima poesia: «La sera non è un idillio. / In cucina irrompono i rumori dei vicini, / la radio rimescola le notizie, / impercettibilmente la luce si ritira / come lo splendore da una civiltà».
STEFANO VERDINO
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