“Il disegno pieno” della vita
Pubblicato su blog di rai news 24, diretto da Luigia Sorrentino
di Eleonora Rimolo
Ciò che Domenico Cipriano intende ricercare, all’interno del percorso del suo nuovo libro, L’origine, non è semplicemente il principio di tutte le cose: l’autore, infatti, sa perfettamente che questo è inconoscibile, irraggiungibile. È il primo testo ad indicarci una preliminare possibilità: “Io sono/tutte le terre che ho visitato […] e sono tanti i segni sul mio corpo”. È quindi nel proprio passato, nella ricostruzione dei luoghi e delle proprie esperienze emotive, che va cercato il senso originario; è à rebours che bisogna procedere per quella necessità spasmodica di ripercorrere le tappe di un viaggio antico, odissiaco, che ci condurrà infine ad “un intimo inizio” – come da titolo della prima sezione. Ogni tappa di questa ricerca tutta interiore ma nello stesso tempo completamente proiettata verso l’esterno e le sue “soste” (“cercando altre soste/oltre la memoria conosciuta/dove un’origine smarrita ci appartiene”) si rivela atto fondativo della poesia dell’autore, il quale nella sua estrema onestà e nella sua totale apertura verso l’Altro ci avverte che “assumiamo il profilo della terra incolta/se non ricominciamo”. Il poeta, che è anche e prima di tutto l’uomo che sente di dover fare un bilancio, di dover scavare fino alle proprie radici – come l’Ulisse de L’ultimo viaggio di Pascoli – viene attanagliato dall’angoscia di esserci stato fino a quel momento senza alcuna ragione determinata, dopo aver preso freddamente atto della propria piccolezza al cospetto dell’infinità del cosmo. E così i versi si avvicinano ai dettagli, li raccontano, li indagano, rimestando nella cenere dopo che le braci si sono consumate: “Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile -/che compensa l’angoscia/la distanza sconfinata dalle stelle”.
Lo scontro tra aridità del reale e possibilità del pensiero produce testi di intensa tenuta lirica ma nello stesso tempo di tenace presa narrativa: “è tutto reale/nulla da consegnare alla surreale immagine del pensiero”. Cipriano non riesce, nemmeno nei particolari che tanto rapiscono la sua attenzione e che sono così ben descritti, a individuare un aspetto della realtà che soddisfi la sete di alterità e di trascendenza che immalinconisce il suo animo inquieto, a cui si contrappone spesso la ragione, nemica indiscussa di qualunque astrazione. È per questo che il poeta alterna momenti del passato, immagini del suo paesaggio e personaggi più o meno conosciuti delle sue scene cittadine, a riflessioni intime che penetrano nell’interiorità dell’inconscio: “e il ricordo è un resoconto porcellanato /da presentare agli ospiti /insieme a un passato camuffato /con impressioni araldiche. / È questa la strada (ripercorsa negli anni /dalle gambe storte dei vecchi)”. Man mano che si avanza nella lettura ci si rende conto che probabilmente è proprio questo continuo incontro tra pulsione di conoscenza e lento scorrere del tempo inerme la chiave per ricongiungersi con l’origine di se stessi e del proprio Essere: “ma voglio credere/che restare attaccati ai gesti di un rituale/sia parte di una vita, /infallibile ma onesta, tra gli odori sfuggiti alla cucina.” Il sussurrato chiacchiericcio della vita, in cui siamo immersi senza averlo chiesto e da cui ci allontaneremo senza volerlo, ci suggerisce che l’origine è in fondo comune per tutti ed è perfino immutabile: nascere dall’amore e rimanere vivi in suo nome, accettando tutto quanto ci tormenterà spingendoci sull’orlo di una disperata incoscienza (“Si accetta la vita ricevendo il latte/e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo/oggi con altri volti/ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione”). La raccolta di Domenico Cipriano si chiude con questa dolce corrispondenza dei versi alla propria visione, che si è fatta più nitida e più sincera dopo questo cammino lungo i tortuosi sentieri del proprio Io: ciò che in definitiva, tra sogno e risveglio dal sogno, restituisce il senso alla propria origine e ricuce la frattura, è specchiarsi nel volto di chi amiamo, custodendolo e proteggendolo, innamorandosi allo stesso tempo ogni giorno della possibilità della perdita, affinché pure da essa possa nascere una nuova identità e generarsi un’altra verità (“Ritrovarci negli occhi di chi abbandona le radici/le mura della casa/ci ripaga dalle sconfitte accumulate”).
È per rinascere che siamo nati.
(P. Neruda)
Io sono
tutte le terre che ho visitato
anche se da una sola
ho preso vita.
Lì
è rimasta ferma una ferita
per ogni passo
trascinato stanco
per ogni sguardo
che non mi riconosce.
E sono tanti i segni sul mio corpo
che ha tracciato la poesia
di chi
non ha più un luogo
e chiede asilo.
*
Si accetta la vita ricevendo il latte
e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo
oggi con altri volti
ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.
Non si scordano le rose
a essere distanti giorni dalla propria lingua
se la gente accoglie ripara e nutre.
Tutte le forme e i colori
hanno valore. Il bianco che scorre dal seno nudo
mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità.
Di ogni gesto di delicatezza o gemito
scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.
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Da “L’Origine” di Mimmo Cipriano (L’Arcolaio, 2017)
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