La dimensione della parola. Su Dire di Fabio Michieli
di Davide Zizza.
Un antico proverbio turco dice che scrivere è “scavare un pozzo con un ago”. Ce lo ricorda Orhan Pamuk nel suo librettino intitolato La valigia di mio padre. Se da una parte questo paragone prefigura il duro lavorio dello scrittore, narratore o poeta che sia, dall’altra presuppone che scrivere diventi pure un atto di chiarificazione stilistico-tematica capace di riportare alla superficie del testo una dimensione coerente di parola e significato, eliminando ciò che di questo scavo non serve. Ancor più in poesia l’opera di scavo può manifestare un senso di una più profonda essenzialità in quanto la parola poetica – per quanto possiamo fornire definizioni importanti derivanti dalla tradizione letteraria – rappresenta nella sua costituzione testuale un’arte del levare. Se lo scrittore filtra, il poeta distilla.
Così scopriamo la raccolta Dire di Fabio Michieli, pubblicata nel 2008 (L’arcolaio editore): un vero e proprio distillato in cui l’autore ha riversato non solo la sua visione, ma anche l’esperienza di scrittura come purificazione, scrittura come estrazione della verità. Il momento poetico del “dire” – declinato non come un dire della purezza ma come una purezza del dire – manifesta una sostanza verbale che vuole fondersi con la pagina stessa, quindi parola e foglio assorbiti vicendevolmente per creare “un libro chiaro […] una pagina bianca quasi pura” dove quel quasi rappresenta lo sguardo dell’autore, sguardo non soltanto soggettivo, ma capace di catturare con attenzione i segnali intorno a lui.
lieve, un respiro lontano si fa
eco e mistero: voce che s’innerva
se un cuore esangue dorme tra le mani
Augusto De Molo, nelle sue impressioni di lettura, ci restituisce una pregnante definizione di relazione del poeta con la propria città nel senso figurato di un Orfeo contemporaneo e la sua Venezia-Euridice che il poeta guarda negli occhi, non per perderla come nel mito tradizionale, ma per comprenderla a fondo.
Credo che un motivo ulteriore vada a legare – filo invisibile ma resistente – ogni verso componente la raccolta, un oltre che ritroviamo nel desiderio di chiarire un tema, un’immagine o un argomento, ma anche di superarlo. È l’idea di poesia quale osservazione della realtà che diventa a sua volta occasione di poesia, del dire. Pertanto non solo l’immagine in sé, assorbita, fortemente interiorizzata nella sostanza della parola, ma immagine superata nella sua stessa definizione poetica e di conseguenza osservazione che va a definire o a ridefinire un significato costituitosi nel tempo, per es. in questi versi dedicati al mito orfico:
(Euridice a Orfeo)
voltati e guardami! sei tu: sono io:
m’interroga il silenzio sceso come una nube
a cingermi e salvarmi dall’intorno vociante –
ora voltati e guardami! ti supplico:
spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto!
annientami: dissolvimi: esaudiscimi: annullami
Qui non riscopriamo la rivisitazione del mito fine a se stessa ma un superamento del tema per ricavarne un’occasione montaliana di riflessione, di ciò che rappresenta. In altre parole, prestandoci le parole dalla prefazione di Fortini alle poesie di Rilke tradotte da Giaime Pintor, la scrittura di Michieli è “poesia che è occasione di poesia” e pertanto non obbedisce necessariamente ad una interpretazione ‘ideologica’, ma diventa motivo poetico di espressione. Una poesia il cui titolo ha rievocazione oraziana, vestigia terrent, è – in linea con il tema dell’occasione – un mettersi in ascolto del senso che il tempo e i giorni assumono per l’autore:
ma le ceneri che ho nere sul capo
le ha posate il vento che ancora sparge
reliquie di chi arse ieri sul rogo,
nell’ultimo scorcio di Carnevale.
A queste ceneri che preannunciano il periodo quaresimale il poeta preferisce “l’azzurro che invade il giorno sereno”, un azzurro “tutto cielo o tutto mare” il cui colore sottintende un ideale di uniformità fra parola e senso, facendoci così riscoprire la finalità di una scrittura che ritagli una sua dimensione sulla carta. Dimensione umana che non nasconde le ferite del tempo (“così non ho diritto alle illusioni!”) o la ragione di un dolore (“fu […] /il ricordo a disperdere sul volto/due rivoli di noia”) o ancora il senso dell’attesa (“già s’agghiaccia l’attesa se al ritorno/sul volto squamerà/la fiamma che arde nuova una passione”), dimensione che si presta ad una funzione simbolica e significativa:
(di quel che resta avvolto nella carta non lo diresti mazzo
ma l’idea che di esso ci si può fare […]
non lo diresti un mazzo quel che resta)
Fabio Michieli nel suo Dire riesce a delineare uno spazio di parola in un movimento essenziale che distilla nel fondo della pagina un sentire profondo e autentico.
Dire di Fabio Micheli – Nota critica di Francesco Filia
Scrivere del libro di Fabio Michieli non è impresa facile per almeno due ragioni: 1) perché si manifesta come un lavoro in corso, in quanto pubblicato in prima edizione alla fine del 2008, è tutt’ora oggetto di un’ampia e sofferta riscrittura che dovrebbe portare a una seconda edizione nei prossimi mesi. Questa riscrittura, a cui il sottoscritto ha avuto accesso, è essa stessa un libro nel libro e amplifica, potenziandoli, molti temi centrali della prima edizione, basti pensare al tema della memoria che diventa, in una nuova sezione dedicata alla figura paterna, un vero e proprio dialogo con le ombre, un corpo a corpo con il senso dell’esistenza; 2) perché, paradossalmente, proprio per essere un lavoro soggetto a una potente riscrittura, è un libro che aspira a una compiutezza estrema, a una limpidezza cristallina, ottenuta con un lavoro di sottrazione e cesello certosino, che respinge qualsiasi sovrabbondanza interpretativa e si presenta come un tentativo estremo di espressione di purezza, in cui il verso fa tutt’uno con il bianco, con la pagina bianca da cui sorge (volevo un libro chiaro per noi due:/ una pagina bianca quasi pura).
Dire – L’arcolaio, 2008, con nota di lettura di Augusto De Molo e foto di Anna Toscano –, dunque, è un libro radicale, nel senso etimologico del termine, sin dal titolo, si confronta con la radice del poetare, con la sua espressione primigenia, il ‘dire’ appunto e lo fa riuscendoci in maniera originale, grazie al continuo confronto con la tradizione poetica italiana e classica. Questa necessità di scavo e di confronto con gli archetipi della nostra cultura, che non ha nulla della pedanteria archeologica o pseudosperimentale di tanta poesia contemporanea, emerge dalla presenza di tante figure del nostro immaginario letterario – San Sebastiano, l’Ulisse di Dante, le Muse – ma anche e soprattutto dalle due poesie dedicate esplicitamente al mito di Orfeo ed Euridice, in cui si sviluppa un dialogo breve e intensissimo, un botta e risposta serrato che definisce il perimetro del quadrilatero vita, parola, amore e morte che fonda il libro di Michieli. In questo perimetro si muovono tutti i testi, guidati in un invisibile filo comune dalla memoria, che non è una semplice memoria personale di luoghi (Venezia su tutti), eventi, persone, ma è una vera e propria memoria pensante che attraversa e fa riemergere immagine archetipiche sedimentate nel profondo. Il dialogo tra Orfeo ed Euridice, in cui lui parla nella prima poesia e lei risponde nella seconda, nella sua drammatica brevità, mostra il rapporto tragico tra canto, amore e morte. Come sottolinea De Molo nella sua nota di lettura, l’originalità del dialogo è data dalla risposta di Euridice. Ella sa, a differenza di Orfeo, che il canto non può salvare dalla morte, che essa è un limite invalicabile e che riattraversare il Lete non è dato ai mortali, ma invece può eternare l’oggetto del canto e dell’amore, proprio annullandolo come principium individuationis, attraverso una trasfigurazione che trasforma il corpo, la carne in parola. Una trasfigurazione che permette di riconoscere il niente che siamo per aprire la via al tentativo di eternarsi della poesia. Solo riconoscendo il nostro esser finiti possiamo aprirci all’eternità del canto, la resurrezione è soltanto, ma forse è già tanto, nelle parole e nella memoria, il portato classico ed etico del dettato di Michieli è in questa verità.
L’intera opera, come una partitura che riprende di volta in volta i temi e i leitmotiv del dettato poetico, è attraversata da una musicalità sommessa ma costante che, reggendosi sull’architrave endecasillabica, crea un melodioso andante che è il tessuto sonoro di tutte le composizioni, un sottofondo di armoniosa lira, per rifarci ancora una volta all’archetipo di Orfeo, che però alcune volte assume le note di un malinconico tango che dalle strade del ‘900 e della contemporaneità dialoga con la musica degli antichi e delle sfere celesti. La poesia è mèlos e dire, unione inscindibile, totalità che scaturisce dalla visione dall’immagine, per tradurre il titolo della poesia Das Bild. La poesia è un tradurre l’immagine, la visione in parola e in quanto immagine e parola essa si fa forma (Gestalt) e informa di sé l’intero dettato, come unione inscindibile di musica e senso, parola che suona e che dice e dà vita a un tutto che è maggiore della somma delle pari che lo compongono.
L’aspirazione del poeta è di scorgere, di aver visione del tutto che ci comprende, ma il vedere è anche e soprattutto un esser visti dalla forma e l’esser visti, scorti, frugati è un esser riconsegnati alla nostra finitudine, essere consegnati alla nostra fine costitutiva. Il tema della fine è strettamente connesso a quello di limite, il limite è ciò che ci definisce appunto, che separando dà forma, la sottrazione crea la forma in cui emerge un senso che ci ha preceduto e che ci sopravviverà, un macrocosmo a cui far corrispondere il microcosmo che l’io lirico è. Ma questo nesso nei versi di Michieli ha poco o nulla di rassicurante, la forma e l’immagine da cui scaturisce il senso del limite sono percepiti come problematici, come qualcosa che non è dato naturaliter ma che è una conquista. L’esser forma, nell’esistenza di ognuno di noi, può darsi non come pienezza ma come vuoto per l’io lirico che non sa chi è. Il pericolo insito nel vivere e nel dire è diventare una sagoma a cui non corrisponde niente e che mette in evidenza in maniera plastica il contrasto irrisolto dell’esistenza, come mostra perfettamente la poesia Sebastiano (A volte penso di essere un involucro/ cavo dove trova rifugio l’uomo/ che non sono ancora). Imparare a finire è una conquista esistenziale e morale, che spesso risulta irraggiungibile, bisogna attraversare il negativo che abita l’esistenza, l’inganno che ci vive, nella consapevolezza che nessuna sapienza è data una volta e per sempre (e non so mai quando è giusto finire).
In questa prospettiva il testo Epigramma assume un valore paradigmatico, sia per l’utilizzo di una forma classica, sia per il richiamo alla tradizione novecentesca con Montale citato in epigrafe, sia, soprattutto, perché la parola, in questa poesia, è presa direttamente dalle Muse che rispondono alla domanda del poeta, l’unica forse che i poeti hanno sempre posto: chiedere versi. La risposta delle Muse non è evasiva, le Muse inviano versi ma a determinate condizioni, loro presiedono all’ispirazione che unisce i poeti e gli dei, inviano parole sotto forma di versi canticchiati, come usava un tempo, i versi volano di bocca in bocca per giungere al poeta che deve saper porre ascolto, la parola poetica non si concede a chiunque ma solo a chi ne comprende il codice, la struttura che la rende quel che è, la forma: attento a non dimenticare/ che la rima chiude il tema iniziale. La poesia, in quanto forma e canto, chiede compiutezza, è un circolo che si chiude e in cui il poeta è un semplice punto della circonferenza. La poesia è dunque un ritorno all’origine di cui il canto del singolo poeta è solo un infinitesimo segmento, ma che aspira ad essere un punto decisivo e inaggirabile. Il ritorno all’origine, che ogni dire poetico è, mostra la propria originalità nel percorso, nel segmento di cammino che la singola voce poetica intraprende. Il tratto originale del percorso di Michieli si manifesta chiaramente nell’ultima poesia della raccolta, in cui il rapporto tra parola e vita viene sintetizzato nella figura dell’Ulisse dantesco che però si moltiplica nei tanti Ulisse quotidiani, anonimi alle prese con le loro personali odissee. Il senso dei versi danteschi subisce un rovesciamento epocale, la consapevolezza che non fummo e quindi del nostro dover essere oltre il mero dato dell’esistenza si trasforma nell’ineluttabilità di essere sempre più a brani su sfatte pareti alle prese con la sconfitta delle nostre esistenze, alle prese tragicamente con la nostra pesta dignità. La poesia è dunque non salvezza ma luce e consapevolezza estrema dell’unione drammatica dell’esistenza con le forze antiche che ci attraversano ed è il cercare di tenerle insieme, di dirle di chiuderle in forme che abbiano il sigillo dell’irripetibilità.
Francesco Filia
Gen 29, 2017 @ 06:37:51
L’ha ribloggato su asSaggi critici.