“Storie” di Damiano Sinfonico.
DA GOLDEN BLOG, un articolo scritto dal gestore LUCA MINOLA.
Le “Storie” di Damiano Sinfonico ci riguardano, riflettono il quotidiano di ognuno. Opera prima pubblicata da “L’arcolaio”, dell’editore Gianfranco Fabbri e introdotta dalla partecipe prefazione di Massimo Gezzi. Nell’introdurre il libro Gezzi, parla del “verso-frase” che compone le poesie di Sinfonico. Versi interi che costituiscono le fondamenta di un racconto continuo, che si dischiude in particelle di precisione, dove la memoria si rispecchia nelle inadeguatezze umane: “MI hai telefonato mentre pensavo a Costanza D’Altavilla./ Mi hai investito di parole che qualcuno era morto./ Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente./ Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore./ Mi hai colto tra miniature medioevali./ Invischiato in faccende che non mi riguardavano”. Sfruttando una vena discorsiva fitta di candore, Damiano Sinfonico marchia una quotidianità misurata e accessibile. Nulla in queste poesie sembra prendere il sopravvento, dalla vita può solo arrivare altra vita. Nemmeno gli episodi più gravi e toccanti o le singole sintesi di istanti sono vissuti come ricerca assoluta o ascesi. In queste poesie si respira la verità di un vivere sincero e comune. L’amore è toccato in attimi di semplice gioia e dolore, fra ritorni, abbandoni o il vivere ragionato di una colazione parigina. Questi versi costruiscono una realtà feconda di riferimenti e motivi. Il linguaggio sempre efficace e genuino distingue l’opera da assurde ricerche letterarie prive di fondamento. La scioltezza di Damiano Sinfonico impone l’amore come tema costante e unitario all’interno del libro, un sentimento che è anche un abbraccio di freddo e paura: “quanti abbracci freddi sulle tele/ ci dev’essere freddo dentro la cornice/ o la neve appena fuori/ lo sguardo si gela, le mani si fanno pure aguzze/ se ti abbraccio, non aver paura/ c’è freddo anche dentro l’amore”. Le inquadrature che Sinfonico impone si dissolvono nel tormento non dichiarato, taciuto nelle righe di un frammento mentre quello che ci assedia/circonda rimane in circolo, ascoltato e ripagato. I nostri gesti pubblici o privati rimangono, precisi e fermi come fissati, per essere raccontati e descritti: “Non distinguevi l’acciuga dal caffè./ Rispondevi ai telefoni pubblici quando squillavano./ Affrontavi la notte con una sciarpa e un ombrello rosso./ Toglievi la suoneria quando volevi piangere./ Nell’aria come vento ti sei dissolto”. La solitudine di Sinfonico è la solitudine di uno scrivere in versi costante e vero, che spazia e trascina la vita alle latitudini più accattivanti.
Luca Minola
da (prime)
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Storie di Damiano Sinfonico,
Casa editrice L’arcolaio 2015,
recensione di
DAL BLOG VERSANTE RIPIDO Stefano Iori:
istantanea-mente.
La poesia racconta Storie. Di città che si avvistano tra loro o che abbracciano chi viaggia (ripetuta catacresi, ché borghi o metropoli non hanno occhi né mani), di ripensamenti nella Parigi di Victor Hugo (una danza, una ballata? – quest’ultima parola mi riporta al titolo di una raccolta poetica di Hugo stesso: Odes et ballades, 1826), di congetture lasciate sospese e di sorprese, a Palazzo Spinola o nei sogni che potrebbero prendere vita in quella Zlotogrod ambìta ne La cripta dei cappuccini di Joseph Roth.
Spesso puntuale, alla prima o seconda riga, l’ambientazione, ovvero la definizione della scena: un ponte, l’acquario, un ospedale, Aquileia, Bratislava. Luoghi, oppure nomi che corrispondono a noccioli di pensiero, come quello di Cartesio, con le sue Meditazioni metafisiche. E se la scena si tratteggia in prima battuta, ecco che subito il racconto prende pieghe inattese che lasciano scivolare chi legge ben oltre lo spazio ipotizzabile in esordio.
In ogni componimento di Damiano Sinfonico c’è una sottile punta di stupore, come sovente accade in un racconto o in una novella. Penso soprattutto al “classico” finale delle prose brevi: chiuse che spiazzano, alludendo a rivoltamenti o accogliendo svelamento. Sono d’altro canto prose-poesie quelle del giovane autore. Della poesia c’è il segreto, della prosa l’intreccio, trama scarna e svelta, fatta di ricordi e sogni. Istantanee scattate dentro la mente.
Frequenti gli elementi del viaggio, come mappe o bussole, ma ci sono pure oggetti che collegano, che pongono in relazione. Telefoni e lettere, mezzi che si utilizzano quando si è lontani o quando si sceglie una comunicazione per propria natura distaccata (diplomatica). Anche la morte fa capolino: il viaggio estremo, l’ultimo per quel che ne sappiamo, il più grande. E poi quadri, altre scene dentro la scena principale, a delineare la possibilità di invenzioni a spirale che rendono superfluo il limite del rigo, inutile margine, peraltro, quando senza eccessivo sforzo di può andare oltre. E mi ricollego qui al secondo capoverso.
Che altro dire? Solo leggendo e rileggendo le poesie-Storie-viaggi traspare la risposta, fatta della non-materia immaginifica che il lettore libera in controcanto di verso in verso (di riga in riga). E dopo l’ennesimo confronto mi convinco che Sinfonico vuole viaggiare proprio con me, anche se non è chiara la meta. Naturalmente l’invito sarà rivolto a chiunque altro si imbatta in questa breve silloge. E allora lasciamoci trascinare. Andiamo con l’incoscienza di una postuma adolescenza. Alla ricerca, con passo spontaneo, della farfalla della perspicacia. Prontezza d’intuito, acutezza nell’intendere ciò che è velato. L’inconnu è d’altronde a portata di mano. Nella verità di ogni giorno vissuto con la grazia del pensiero.
Ripenso infine al primo componimento della raccolta. Proprio il primo, dove appare il nome di Costanza d’Altavilla, donna-ingranaggio della medievale macchina del potere che per tutta la vita reagì agli eventi storici piuttosto che governarli.
Chissà perché la Gran Costanza di dantesca memoria? Mi chiesi di primo acchito.
L’autore la nomina narrando di una telefonata: Mi hai telefonato mentre pensavo a Costanza d’Altavilla. / Mi hai investito di parole che qualcuno era morto. / Nelle tue rare pause, facevo scivolare dei monosillabi nella corrente. / Capisci, non è stato per indifferenza o durezza di cuore.
E poi la chiusa: Mi hai colto tra miniature medievali / Invischiato in faccende che non mi riguardavano.
Nessun coinvolgimento con le affascinanti icone di fine 1100, effetti da noncuranza alle parole dell’interlocutore (che pur dicevano di un evento grave), le postume scuse in poesia (anzi, solo la pretesa di auspicata comprensione) a chi parlava dall’altro capo del filo. E il fantasma di Costanza.
Trionfo del pensiero distratto (debole) proprio in avvio.
Un chiaro segnale. Un buon motivo per rileggere Vattimo e Rovatti.
STEFANO IORI
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