Gli archetipi del quotidiano. Per Luciano Benini Sforza
E IL SUO “LA MATITA E IL MARE”
Articolo di Matteo Veronesi
La matita e il mare, l’ultima raccolta poetica di Luciano Benini Sforza pubblicata da L’arcolaio nel 2016, evoca fin dal titolo alcuni di quelli che paiono essere i punti di riferimento dell’autore: Penna, con il suo “bianco taccuino sotto il sole”; Sbarbaro, con la sua immagine della sottile e labile “scia della nave” che divide “acqua da acqua”, così come ciò che fu per davvero si distingue appena da ciò che fu solo possibile o sognato; forse anche il “lapis” di Marino Moretti, per la poesia del piccolo e del quotidiano, che però, in questo caso, non è intinta di amara ironia o di svigorito grigiore, ma è, piuttosto, immersa in una sabiana o betocchiana luce di accettazione, quasi di sereno entusiasmo, di sapiente candore, in un vivo e cordiale calore di incontri, ricordi, attese.
E ci sono anche, nel libro, un rapporto, una tensione quasi luziani fra tempo ed eterno, divino ed umano, cielo e terra (usando queste parole, ancora così comuni e vive, nel senso dantesco di un viaggio che va dall’umano al divino, all’eterno dal tempo, di una parola alla quale “pongono mano cielo e terra”), alto e basso, poli che si toccano e si contaminano l’uno dell’altro, fin quasi a capovolgersi, con la purezza della luce e della neve che si macchia dell’oscurità della terra, e nel contempo cerca di diradarla e di redimerla.
“Il cielo scende sulla terra e la terra sporca ogni luce”. È come l’insistita “pura luce” di Dante e di Pasolini, alla quale fanno velo la resistenza, l’opacità di ciò che è terreno e temporale – eppure, proprio per questo, umano e vitale.
Ma, insieme all’evidenza quasi diaristica dell’esperienza, del vissuto, insieme a questa “arte dell’incontro” in cui, dicevano Ungaretti e de Moraes, consiste in fondo la vita, c’è anche la consapevolezza della fugacità, del perpetuo sfumare, della nostra natura e del nostro destino di ombre labili, del montaliano svanire che è infine “la ventura delle venture”. Una consapevolezza che, però, non si fa grido tragico o sospiro elegiaco, ma, piuttosto (ed è forse questa la nota essenziale e più caratteristica del poeta), ulteriore accettazione, ulteriore abbraccio proteso alla pienezza del vivere.
I giorni possono apparire, come in una sorta di Ade in cui il tempo è eternamente confinato, con ossessiva ripetizione, “ombre senza senso, senza terra”. Eppure essi possono ancora allacciarsi in una catena protesa verso un’alterità più umana che metafisica – una perennità fatta carne.
Non a caso, i due penetranti scritti (di Gualtiero De Santi ed Emanuele Palli) che incorniciano la raccolta si richiamano, in modi diversi, ai Princìpi, alle Archái, ai grandi e profondi archetipi della natura e dell’essere – il mare “nuovo ad ogni istante” di Valéry, una “atmosfera presocratica” in cui “le pagine brillano di luce propria come neonati astri”.
I “punti fermi” a cui tornare, i pilastri che sorreggono il senso della vita, “affiorano dall’acqua o dal nulla, e sono isole e sponde in cui respiro”. Non si tratta tanto di epifanie repentine, enigmatiche e spesso irrisolte come quelle che popolano tanta letteratura del Novecento; ma, piuttosto, di emersioni e lampeggiamenti improvvisi che aprono spiragli sul sostrato ontologico, sul fondo esistenziale che sorregge i nostri percorsi e i nostri destini.
Siamo insomma di fronte ad un altro prezioso tassello del vasto e paziente mosaico, variegato e screziato come la vita, che il poeta va componendo da decenni.
Matteo Veronesi
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