Tra i files inediti dei vari autori della casa editrice L’Arcolaio spunta improvvisamente una serie di annotazioni di Gianfranco, risalenti agli anni ’90; ne è scaturita una miscellanea, composta da memorie, “minima moralia”, riflessioni, una sorta di Zibaldone privato che si presta tuttavia al dipanarsi di un pensiero strutturato e coerente.
Nell’affiorare dei ricordi, espressi con una prosa “lirica” che gli è congeniale, è facile scoprire le tracce della sua attitudine al poetare.
Nella minuziosa attenzione al “fare” letterario della sezione “Il rovello della scrittura” e nella scelta inusuale delle sue letture formative, già si può scorgere “in fieri” la successiva vocazione editoriale.
Stupiscono emozionalmente alcune pagine allusive alla cronaca dell’epoca, (ad esempio, il terremoto di Assisi e la strage di Bologna), in grado di annullare le distanze temporali e dialogare vivamente col presente.
L’alternanza tra armonia e disarmonia del vivere è l’essenza della fibra del “consistere”.
Enza Valpiani
Qualche testo:
dalla sezione “Echi del passato”
Anno di grazia 1958
La solitudine di questi giorni cresce fino a un livello insopportabile.
Ma è inutile crucciarsi, non conta nulla inveire al cielo le ingiustizie patite.
È vero: sono ormai una donna vecchia, non posso guardarmi allo specchio.
Ma c’è il tavolo, davanti a me, grande come un lago. Sopra ci faccio navigare la tazza del caffellatte e i savoiardi. Isole felici, mi dico, quelle molliche più in là. Atolli di un oceano piatto.
Fosti molto urbano, il giorno in cui mi lasciasti. Eri sposato: che te ne saresti fatto di una come me? Una non affascinante, già verso i quaranta e con la vocazione, fortissima, ad essere zitella.
Le ultime volte mi prendevi all’impiedi, di fianco al divano. Dovevi fare in fretta, non avevi più tempo da dedicarmi. Del resto, dovevo capirlo: tua moglie ti dava un figlio dopo l’altro. Tra noi non rimaneva molto da dire.
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Dalla sezione “L’occulto sguardo del presente”
Infine ho pensato a te che mi telefonavi.
Immaginarmi il discorso – non so, un qualcosa di poco im-portante: non fa nulla.
A te che nell’indugio potevi asserire un nuovo dogma, una sciocchezza bell’e buona: quant’altro tu avessi voluto.
Ed io ascoltavo di rimpiatto; come ad esperire cose nuove, dell’amore.
Mi dicevi che ti saresti uccisa, all’indomani.
Ed io, rispondevo che no, che non l’avresti fatto.
Immaginarmi soltanto, senza peccato.
E poi?
Quale coraggio?
Mi sono svegliato male, sudato nel bollore del lenzuolo.
E via di là a bere un goccio d’acqua, a fare un goccio d’acqua. Riprendere l’atto del dormire, senza riuscirvi. Pecora uno, pecora due, pecora tre, …
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Dalla sezione “La suggestione della cultura”
Giovanni Vailati
Ieri sera ho iniziato a leggere, qua e là, il bell’epistolario del filosofo-matematico Giovanni Vailati, grande figura intellettuale vissuta tra la fine del secolo scorso e i primi anni del Novecento. Amico di Croce, di Papini e di Prezzolini. L’uomo che incuriosì anche Serra, con i suoi testi scientifici.
Ebbene, in questo volume sono riportate le lettere scritte a questi ed altri personaggi, e sono lettere perfette nello stile. In una, indirizzata all’amico Orazio Premoli, nel periodo in cui questi decise di prendere i voti religiosi, egli mostra le sue riserve in merito a tale scelta, ma non criticando, bensì im-maginando se stesso nei medesimi frangenti. Era un laico, Vailati, ma sapeva riconoscere alla religione un’energia positiva all’adempimento della buona condotta, della buona tendenza ad operare in modo etico.
Sono rimasto stupito dall’atmosfera di una classe sociale affatto elevata, per quegli anni in cui si credeva l’Italia un paese soltanto piccino, analfabeta e limitato. La biografia di questo personaggio colpisce invece per la raffinata preparazione dei docenti dell’ateneo torinese; per l’aria che si poteva respirare in quelle aule austere; per gli scritti, infine, così intrisi di cultura superiore e di umanità. Il meglio dell’intelligenza nazionale a contatto con lo stile discreto di una confessione su foglio che è, nel contempo, anche un saggio del tutto compiuto, già pronto per i tipi di un editore.
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Dalla sezione “Il rovello della scrittura”
Qui non contano i giorni, il loro avvicendarsi. È importante invece lo stato dei fatti; quell’impercettibile movimento che spesso trascende lo stupore. Si parla tanto di romanzo, in questo finire di secolo; si parla di crisi del romanzo e si fa accenno a una variante delle sue forme. La narrazione quasi sempre ha bisogno di un tempo al passato e di una certa capacità a ritenere: valori, questi, in forte abbattimento; tanto, che è più facile leggere testi scritti “in diretta”, in tempo reale.
Schermo visivo prevalente.
Però l’occhio non accetta una simile responsabilità; l’occhio vede ogni elemento, ma non scorge il pensiero. La sintassi allora muta le sue forme e i suoi oggetti: le forme, intese come legamenti tra un periodo e l’altro del nuovo “sistema comunicante”; e gli oggetti, perché alle parole si sono sostituiti i colori.
I giovani oggi scrivono per tinte, in sintonia col “tempo reale”. Si può dire che per loro Proust sia morto del tutto; infatti essi non scorgono alcun valore nella codifica mnemonica; non contengono il passato: macinano il presente, ignorando il futuro.
L’atto del vivere.
Il piglio più dell’apparire che del “sentirsi”.
Si scrive per gag, per trovate.
Si avanza per organico difetto di direzione e si “fanno le pulci” alla logica dell’impianto.
Lo stile, infine. Esso è ruffiano/orale/molto svelto; senza fronzoli e di veloce lettura.
Ma alla fine, tutto risulta vano.
Ricordate l’adagio di Mengaldo su Govoni?
Bello, ma chi ne ricorda un verso?
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Dalla sezione “Frammenti e aforismi”
L’uomo che si ritira per la contemplazione, che si apparta senza un motivo, è chiamato dal proprio angelo alla simbiosi con lui medesimo.
Lo spirito si riappropria del corpo, ne declama l’amore.
L’uomo che si appresta a morire lascia al suo angelo l’ultima luce degli occhi.
L’uomo, di cui temere l’anima, appartiene comunque al pro prio custode; talvolta infatti lo si coglie con lui in confidenza.
A volte, specie se al buio, mi pare d’essere prossimo ai morti infiniti di tutte le epoche, e anche poi a questi ultimi nostri coevi. Ognuno di essi porta una tunica porporina: c’è chi ha fatto una qualche carriera: altri, invece, non sono che poca cosa; fanno gli sciocchini, giocano a palla; ridono infine di se stessi e anche di qualcun altro, di cui è difficile stabilire la natura.
Però quando mi guardano, non uno escluso, hanno addosso i segni di una presenza sconfinata.
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Accumulazione paratattica per una tragedia
(Due agosto, 1980 – Bologna)
Un’esplosione. Un tonfo immane.
Il bar sul primo binario, il piano di sopra.
La sala d’attesa, l’atrio centrale. Un’iradiddio, la voragine sul pavimento; i vagoni dell’espresso sotto la pensilina numero uno; il primo occhieggiare di certe braccia staccate, l’avvento epifanico delle membra – i corpi fatti a brani – sotto le carrozze, come nella hall e nel piazzale antistante.
Corpi sotto i taxi.
Cadaveri tornati bambini, bianchi di polvere.
Il bus 37 reso furgone funebre.
Lenzuola come tende ai finestrini.
L’occulto diniego della morte.
Il bus 37 corre all’impazzata lungo la via Indipendenza col suo reperto di persone arrese – una macelleria in movimento, al tempo del clacson intermittente.
Grida, bestemmie della folla.
Una fuga di gas?
Non una fuga – la bomba; lo squarcio delle sinapsi; le trombe di Eustachio frantumate.
Sotto l’hotel Milano, la prima postazione RAI; l’attesa della diretta.
Per tutto il giorno, un accorrere di pompieri, di reporter di una Tv locale, degli inservienti d’ospedale; i semplici barellieri, nella loro dinamica umiltà, da sotto le automobili tirano fuori i corpi disarticolati e le loro anime bruciate dallo spostamento d’aria.
E anche a sera, anche a notte fonda, alla mercé di un caldo africano [torvo marrone demoniaco] i gruppi elettrogeni, con le loro luci innaturali, eccoli pronti a fare il terzo grado agli ultimi resti umani.
Più in là, isolata e muta, attonita a se stessa, spicca una scarpa bene calzata al piede orfano della gamba.
Nota dell’autore:
estrapolare i testi da un tipo di progetto come “Il tempo del consistere” toglie al lettore la sensazione che il libro dovrebbe dare: l’idea di un secolo ormai finito. Amputa anche il colore della struttura sociopolitica – l’intendere la vita e il costume. Mi auguro che rimanga, in chi si accinge a una lettura così parziale, almeno un lieve bagliore, un ammiccare timido ed empatico.
Grazie per l’attenzione.
Vostro Gianfranco.
Gen 02, 2017 @ 20:16:06
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