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LA MATITA E IL MARE, di Luciano Benini Sforza, Edizioni L’Arcolaio, dirette da Gianfranco Fabbri. Considero Luciano, ravennate, uomo appartato, gentile, di una sensibiltà armonica, amante del Genius Loci (al pari mio), una delle voci poetiche più interessanti che oggi abbiamo nella mia terra e in Italia. Egli dà continuità, in questo suo ultimo libro, alla ricerca, che lo caratterizza da sempre, riguardo un paesaggio -tema (la sua terra rivierasca e romagnola). Il suo appare come un mondo estraneo ai rumori frenetici della contemporaneità in cui la memoria, le radici e i piccoli riti umani assumo dimensioni di un lirismo altissimo, infatti sempre delicato e sfumato è l’andare del verso. Poesia sentita e “seria”, quella di Benini Sforza, come serio e liturgico deve sempre essere il rapporto con l’Opera. Scrive Gualtiero De Santi nell’introduzione al libro: “Da questa attitudine per così dire universale e sovratemporale, ecco l’abbandono alle cose del mare e di ciò che gli sta vicino: il sentirsi onda, conchiglia, sabbia, cefalo; il volersi trasportati da un’acqua che si sa contigua al corpo dell’interlocutore e ad esso si riconduce. Tutto ciò in quel modo secondo cui quanto costituisce un punto fermo affiorante dal mare o dal nulla (le isole e le sponde lungo le quali va a allungarsi il respiro poetico) rinvia costantemente ad una identità. In primo luogo quella dell’autore («sono un insegnante con gli occhiali e ricordi o idee sulla fronte», Intorno) e poi delle persone conosciute da sempre: gli abitanti del paese, i propri alunni, i familiari nell’ultima toccante sezione della raccolta.

GIAN RUGGERO MANZONI