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Leggendo Chiaro di terra di Antonio Pibiri (L’arcolaio 2016)

Articolo scritto da Giampaolo De Pietro, tratto da inni in vani

 

 

 

settembre 29, 2016

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“Levigato a oro”: tutto il libro, il suo cercare, forse proprio “un’inedita narrazione”. Questo libro, Chiaro di terra, ultimo di Antonio Pibiri, ha la luce di una forte “esposizione” al visivo – s’intende l’arte visiva, nella fattispecie – al mondo di una fotografia – la fotografia. È una ricerca che passa, per l’appunto e inevitabilmente, per l’immagine, un cammino di parola attraverso.

(…)

o del come fosse

finzione il temporale e gioco la ferita.

(…)

(pag. 11)

 .

Il titolo della raccolta originariamente era un altro, con riferimento alle madri e al deserto. Chiaro di terra, il titolo poi scelto, sembra prendere in considerazione tutti e due gli “elementi di partenza” e in più, s’è possibile, il padre – allora l’impressione, o il suggerimento (la suggestione), potrebbe essere che ciascuna “fase” di questo cammino parta da una forma di sintesi; sintesi che avrebbe per sottotitolo l’originale titolo. L’attraversamento che compie lo sguardo ha anche chiari riferimenti alle tecniche e ai materiali della pittura: in Due epiloghi su tela, diversamente s’è dentro a un’opera di Bruegel, coi sensi di chi legge e i nessi di chi guarda  – “due con l’ombra, due lacune” –  Le poesie di Chiaro di terra sembrano puntate, episodi o tratte e tratti di una strada maturata da un biografo-poeta che “saldo sui gomiti/annota dal ciglio l’infanzia di fili d’erba:/valuta i traumi sensibili, il gioco/sottilmente coi pari, la buona stella,/l’esposizione alla luce smorta e/diretta del lampione.//Più sotto – dal calpestio dei passanti -/solleva l’alluce e sente tra le dita/il trifoglio raggiargli la terra,/divarica i secoli muti. (pag. 15)

(…)

Il filo del racconto chiude per sé

ogni vita in consegna.

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(…) [pag. 27 La serie mancante: tra questi versi vi è anche una chiara (ritorna spesso questo aggettivo, o sentimento, e sempre preso in prestito dal titolo)] presa di posizione (coscienza), in chiusura alla poesia, entrando in mare:

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Ma più avanti entrando in mare

– ora puoi anche non scrivere –

il pontile slaccia il suo impalco

rifonda lo spazio tra le dita

che qui ritorna.

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Lo spazio, qui, ritorna – come rifondato, tra le dita – “simbolico”. Spazio nello/dello spazio: meta-scrittura?

E il tempo? Un grande senso di sospensione. In questo “gioco del mentre”, “tra vento e palpebra”. E alla domanda: “Come si costituisce una parentela?”, come rispondere? Forse con “ora puoi anche non scrivere”. Ma questo è solo un gioco tra le parti riconosciute di una mappa.

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L’ultima sezione del libro, “Le mani per terra” s’inaugura con Ida Travi, ascoltando la voce del padre, inseguendo quella della madre e con Borges procede e s’avvia: “Scriveva Borges che l’oblio è una forma del perdono”.

A parole impronunciabili, orfane (ricopio qui l’intera poesia di pag. 60):

L’orfanotrofio di tante parole:

dicono di smettere, incattivite col tempo.

Non dicono, puntano gomiti e piedi

quando serve, indocili

non si lasciano da alcunché trascinare.

Si precipitano di corsa alla finestra

ogni volta che inservienti spalancano le tende

al mattino (stanze appena fatte, tesi i letti)

e il giardino fuori si solleva fino ai vetri

crepita i suoi verdi come metallo

che percuote le inferriate.

Queste parole arroccate

sono nude sotto i camicioni

si protendono sulle dita

tacciono di muta gioia.

Ma tu non le puoi pronunciare.

 –

 .

Il tempo di questo libro è coniugato al presente, poi all’imperfetto, anche all’infinito, vi è spesso il mare (inconiugabile, se non all’infinito?), vi è la Grecia, orientamento d’isola. Le stagioni, in pensiero. Ancora la terra, un effettivo “sostegno-supporto” da toccare, riscrivere. Tra simboli, un delicato sonno, e ancora un’effettiva “sostanza” di sogno, riconciliati col meno (a mio avviso “parte fondante” della poesia)

Ho bisogno che la neve resti dov’è

i suoi adagi, ai laghi, non per la sete.

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Ho bisogno che la sete resti in gola

con la neve, riconciliati col meno.

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Presentimento della nuda roccia

riavuta. È la parte da riscrivere.

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GIAMPAOLO DE PIETRO