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Recensione a “La saggezza dei corpi” di Martina Campi, L’arcolaio editore 2015

 

Aprire il libro di Martina è esattamente come aprire una porta: si afferra la maniglia, si fa un bel respiro, la porta è quella di un reparto in ospedale, allora si fanno due respiri pieni, si guarda attraverso la finestrella di vetro, si spinge forte. Lo scatto delle imposte e subito dopo la luce dei corridoi, i colori pastello e l’odore di disinfettante. Il libro è scandito in sette giorni, perché sette sono i giorni di un ricovero “standard”, perché nel numero sette tutti loro oltre il vetro, i medici e i parenti affannati, credono di trovare l’origine, il nucleo del disequilibrio. Lo fanno, quotidianamente, con una trivellazione sottile di aghi e bianco ovunque, dalle pareti alle lenzuola. Martina ce lo dice, anzi ce lo ripete spesso che già al giorno II° “il cuore è bianco, il cervello/ bianco, bianco il soffitto e nelle mani,/ tra le gambe, sui piedi/ bianco che dilaga bianco”. Il ritmo dei versi di Martina segue a livello millimetrico tutto l’universo sensoriale del corpo nel suo viaggio, dal primo giorno in cui la versificazione è stretta, acuti i versi e i respiri brevi fino al secondo giorno dove già la parola è apertura, dove da una dimensione in cui corpo e mente sono affanno in mezzo al vortice del mondo, si passa alla regola  del finito e del compreso, dove tutto è contenuto nella certezza di mura bianche, le stanze e i corridoi, lo stesso numero di lenzuola e posate per tutti. Con la sicurezza del luogo ci si può permettere qualche lusso come “ho smarrito gli occhi stamattina, sai/ e forse sono rimasti per disattenzione/ tra le grinze del lenzuolo ed il bianco/ perché c’era molto molto caldo, stamattina”. Martina attraverso i suoi testi ci fa riappropriare anche del nostro corpo, improvvisamente ci chiediamo dove ci siano rimasti gli occhi, se li portiamo ancora interi negli scavi cranici, se anche a noi capita che “un giorno qui e ci siamo/ già stranieri/ alle ore nostre appese/ sfaldate calde perse”. Il libro di Martina è un libro di guarigione, sua e nostra, dove possiamo davvero compiere un passo dopo l’altro nei suoi versi, dove “le grida notturne sono voci/ nella paura, sgraziate, nomi/ invocati nomi dalle certezze aguzze/ del passato, giorni dell’amore che sostiene”. Esiste però un dissidio, una divisione di forze che si manifesta dopo che l’effetto della novità di un luogo nuovo si è tradotto già in abitudine, bastano tre giorni e compare così la nostalgia delle emozioni certe, delle persone care “come le cose, o le case, cui sappiamo/  essere appartenuti (e tutte le foglie insieme)”. I versi cominciano a scindersi tra un dentro bianco “con l’aria condizionata che s’impone” e un fuori “fuori è fresco, ora/ la lepre s’accuccia tra i vasi”, ed è questa tensione che smuove la vita e la fa fluire nel sangue, sotto le vestaglie uguali. Perché infatti “quando parliamo/ (o le sento sussurrare)/ so che siamo ancora vive/ che non ci siamo mosse da qui”, e da una fase di riconoscimento del proprio corpo scomposto in singoli arti si arriva al riconoscimento tra esseri umani, vivi e pulsanti oltre al bianco che invade tutto. È la potenza della comunità, riconoscersi simili, mentre chi ci fa visita diviene altro da noi perché “le scarpe li tradiscono/ da sotto, mentre parlano tra loro”. Mentre i giorni passano tra queste pareti immobili il nucleo magmatico che sentiamo dentro, potete chiamarlo anima o io profondo, chiede la salvezza, la resistenza per la vita e la luce: “tracciare scie di lenzuola/ sul pavimento/ come zattere che (ci) salvano/ il mattino”. Ogni giorno è ritrovarsi gli organi al loro posto, chiedere alla compagna di stanza di toccarci per sapere se siamo vivi davvero, se ci siamo salvati, se “c’è anche il perdono, vero che c’è?”, perché non ci si può fermare quando “qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina” e non senti il confine; allora ridere è la porta per l’uscita, “scampate di brutto alle glaciazioni” tutto è possibile, anche “è normale avere paura”. Siamo alla fine di questo libro e di questo percorso, ci si prepara all’apertura delle porte, all’aria nuova e “in certi momenti si pensa/ solo al ritorno e quello che c’è/ sono vacillamenti/ sono muscoli che si allenano al bene”. Ma aprire la porta dell’uscita è anche chiudere dietro le persone e le cose, “e so che dovrò andare anch’io/ per diverse stanze, corridoi”. Poi di nuovo la spinta, questa volta al contrario, si torna alla luce ”solo/la luce/ gli alberi coi rami” e ancora “troppo il sole/ in una volta” .

Leggere il libro di Martina è stato, per me poi che lavoro in ospedale, come spostarmi dall’altra parte del vetro, dalla parte di chi non sa quali sono le prassi, quali gli aghi da scegliere, quanti i pasti condivisi. Scivolare nell’argine umano, senza l’obbligo del muro e del distacco, dove tutto si mischia.

 

 

Clery Celeste