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Antonio PibiriChiaro di terraL’Arcolaio, 2016

 

Nel precedente lavoro di Antonio Pibiri, Le matite di Henze (Lampi di stampa, 2015, v. QUI), avevo brevemente accennato ad un suo utilizzo dell’indizio, di oggetti, luoghi e fatti da cui far derivare una soggettiva, uno sguardo ascendente o discendente verso altri livelli, verso considerazioni, conclusioni, spesso non necessariamente correlati, come di un pensiero che vaga, che non procede tanto per associazioni o metafore o idee che poi verbalizza, ma che talvolta lega l’espressione a un suggerimento che viene direttamente dal linguaggio e dalla parola, da una intravista possibilità di percorrerli ad libitum, scegliendo di volta in volta ad ogni bivio. In questo Pibiri mostrava un certo talento, nel riconoscere alla scrittura una capacità di “farsi”, di trovare da sé strade inaspettate, e alla parola, a volte con qualche eccesso, quella di svuotarsi di senso e riempirsi di suono o di un senso diverso e distante, se non di una particolare insensatezza.

In questo libro questo stile sembra riproporsi, tanto che Davide Zizza nella postfazione parla di kènosi, ovvero di “«svuotamento» della parola per riproporla in un lucore slegato dalla pura referenzialità” ma con l’intenzione di superare le due categorie di sostanza e forma, a cui tradizionalmente un poeta è legato, e di recuperare una “vibrazione sonora e tersa” dell’enunciato. In effetti al termine di una prima lettura di molti dei testi di Pibiri non sempre si afferra immediatamente il senso o meglio la funzione per così dire narrativa (o fàtica) che essi hanno. Eppure, al di là di un certo innamoramento della parola che a volte emerge dai testi, bisogna poi almeno riconoscere una qualità impressionistica di questi testi, come se l’utilizzo del linguaggio fosse più che altro rivolto a rendere le percezioni dello sguardo, le impressioni appunto, il valore iconico della realtà, non tanto il suo senso, o il mero riflesso delle cose, ma una referenzialità altra e diversa. Non è certo un caso che nel libro si citino diversi fotografi (Adams, Freed. Cornell Capa, Arbus) ma anche i pittori, il Doganiere o Henri Michaux ad es., ma anche la fotografia non è, non deve essere necessariamente, immediatamente significativa o documentale, almeno da quando ha assunto valore di arte (lsi leggano Benjamin, Sontag, altri) uscendo dalla registrazione sociologica. E non casuale il riferirsi alla luce, ai chiaroscuri, ai colori (anche rovesciandone l’apporto: “se nero su sangue è coccinella”), alle penombre che avvolgono i corpi, alle linee che talvolta non solo danno una forma su cui sostare con lo sguardo ma anche diventano direttrici dello sguardo stesso (v. come esempio Due studi sul corpo inclinato). In altre occasioni invece, dove necessaria, spunta una scrittura orgogliosamente assertiva, come in Fragmentation, interessante assemblaggio di versi fatti quasi tutti di frasi compiute, una specie di décollage alla Mimmo Rotella.

Al di là di queste brevi considerazioni, tuttavia poi a un’idea del mondo la poesia deve corrispondere, anche nel più ostico dei testi, generalmente parlando. Una strada è seguire i riferimenti culturali (quelli fotografici e pittorici lo sono in relazione all’approccio descrittivo alla realtà di Antonio), come ad esempio in Cos’è Antigone, cosa non lo è in cui la evocazione del personaggio sofocleo restituisce il senso a un testo apparentemente inopinato fin nel finale ma carico di senso etico. L’idea del mondo (usiamo questo termine) di Pibiri è per certi versi sur-reale, anche se in definitiva la sua è una poesia che viaggia quanto meno su due piani, uno che potremmo chiamare sensibile, in cui la realtà oggettuale è centrale, in cui si afferma una vena lirico-elegiaca (v. ad es. Talismani, tonalismi – e l’accenno ad una tecnica pittorico/musicale ha anche qui il suo senso) che parla delle ripercussioni dei fenomeni della realtà sulla esperienza del poeta; l’altro che potrebbe essere definito come ricerca di una metafisica della parola, di una sua fluidità semantica, di quella “vibrazione” di cui parla Zizza, un suono, non necessariamente subito assimilabile, che proviene dalle cose e dai fatti, ma che comunque punta a quella “altra faccia” che il titolo suggerisce. Una ricerca c’è ed è evidente, in questo libro senz’altro più unitario e maturo, ma è di quelle che comportano una certa difficoltà e un notevole senso di responsabilità affinchè la parola non si svuoti troppo, precipitando in una kènosi acuta. L’imperativo è, come scrive lo stesso Antonio, fare in modo “che la parola non sia foglia / a coprire il tuo sesso”, non sia una foglia di fico, un mascheramento, un’omissione, una reticenza del dire.

 

                                                                                              GIACOMO CERRAI