“Come un bottone tutto d’oro”. Ravenna secondo il poeta Nevio Spadoni
Giovedì 30 Giugno 2016
DAL GIORNALE “RAVENNA NOTIZIE”
Du ciacri col poeta romagnolo Nevio Spadoni sulla sua ultima fatica, “Ravèna”, ritratto-guida di una città in brevi bozzetti poetici, fresco di stampa per i tipi
de L’arcolaio
I versi di Nevio Spadoni non mentono, almeno per quanto riguarda casa sua. “A me u m’è toch ‘na ca ch’l’è znina d’pösta | a e malapèna u s’i sta in du”, scrive nel suo ultimo libro il poeta di San Pietro in Vincoli. Davvero si tratta di “una casa piccola del tutto, che a malapena ci sta in due”, lunga e stretta come un viso smunto, quasi un antitesi ironica del florido Spadoni.
Ma per quanto piccola, è ben fornita di quello che Apollinaire richiedeva a una casa per essere vivibile: una buona libreria e qualche gatto sparso. Una delle due gatte di Nevio dorme nella penombra del patio che dà sulla strada, in quest’ora calda e sonnolenta del mattino; mentre, in piedi nel suo pensatoio carico di foto e premi letterari, Spadoni attende le domande.
L’eloquio di Spadoni è morbido, a differenza del suo dialetto; ma come il suo dialetto sa di antico. Molcisce piacevolmente le “c”, è costellato di quegli intercalari-lucciola che stanno diventando sempre più rari. Ma nonostante questo controllo, e soprattutto quando si fa più concitato, emergono in qua e in là nel suo discorso guizzi di romagnolo verace, zeta inconfondibili e inorgoglite; così come orgoglioso e fiero, Spadoni s’accalora nel raccontarmi dei suoi premi, dell’amicizia con grandi poeti, di una carriera degna di un fine poeta laureato. raccolta spontanea?
“L’idea è partita un anno fa, o poco più, su proposta del pittore Onorio Bravi per la rivista di Marisa Zattini, dove alcune liriche su Ravenna dovevano in un qualche modo accompagnare i quadri e i lavori di Onorio. La mostra è stata inaugurata lo scorso ottobre alla Manica Lunga della Classense, e comprendeva dieci poesie. Poi, dopo questi primi esperimenti, ho pensato che, se avessi continuato, avrei potuto sviluppare un libretto su Ravenna.”
Un lavoro maturato col tempo, quindi. Quali sono le prime poesie che hai scritto?
“Esatto, è un lavoro che è andato crescendo in seguito a questo spunto. Le poesie più vecchie sono le prime dieci in ordine di disposizione della raccolta. Le altre sono venute in conseguenza, nel giro di un anno o poco più. E poi, alla fine, si sono aggiunti anche due graditi interventi di amici studiosi, Alberto Giorgio Cassani e Giovanni Gardini, che arricchiscono la raccolta.”
Nella premessa al libro dici che “l’impiego del dialetto vuole marcare un’identità che costituiva, oggi non più, un tutt’uno col territorio e con la vita quotidiana del popolo ravegnano”. Voglio concentrarmi su questo “ora non più”. L’uso del dialetto, nel 2016, secondo Nevio Spadoni, che senso ha?
“Prima il dialetto costituiva un’identità perché era la lingua dell’oralità, del parlare quotidiano. Nella realtà contadina, soprattutto. Oggi è diventato un idioletto. Si prenda il caso di Raffaello Baldini e della sua poesia: è un dialetto mescolato con altre gergalità. Lo stesso Nadiani e altri ancora hanno seguito questa strada. Insomma, il dialetto non ha più la stessa purezza, quella arcaicità, quella originalità che aveva un tempo. Ma il senso dello scrivere in dialetto, oggi, non si esaurisce in un sentimento nostalgico. Per me significa scrivere nella lingua che mi è più propria, la lingua che mi ha dato l’imprinting. La lingua che è stata la mia prima lingua, appresa dai genitori, nella mia campagna nella quale ho abitato per 30 anni. Mi sono sempre sentito un archeologo della parola, alla ricerca di quel linguaggio legnoso che oggi è perduto, o va scomparendo. Ma non vivo mica fuori dal mondo: mi rendo conto che in una realtà multi-etnica, multi-linguistica e multi-razziale, ormai il dialetto lo parlano pochi. Alcuni lo capiscono, pochi lo parlano, e quasi nessuno lo scrive più. È diventata da lingua popolare lingua elitaria, scritta prevalentemente nell’uso alto, lirico.”
Raffaello Baldini diceva che ci sono delle cose che succedono solo in dialetto. Queste cose succedono ancora?
“No, le cose non succedono più in dialetto. Però, se vai in certe osterie particolari, in certi bar frequentati soprattutto da persone anziane dialettofone, vedrai ancora modi di fare, di comportarsi, modi di essere e anche di esprimersi che sono peculiari di un mondo passato. Ma ormai sono delle mosche rare. Anche perché questi santuari privilegiati sono luoghi un po’ rifatti, vecchie stalle un po’ rimodernate. Ma esistono ancora luoghi isolati, realtà sperdute, dove le cose succedono in dialetto, dove il vissuto diventa un tutt’uno con l’espresso. Ho insegnato tanti anni nelle scuole, nei licei ravennati ad esempio, e mi sono reso conto di come il dialetto ormai sia una lingua destinata alla morte. Alla requiem aeternam, come il latino. Ma allora cosa vuol dire? Vuol dire che devo tenere in vita questo morto? No. Ma è il mio modo di scrivere. Una forma di fedeltà a me stesso, alla mia natura.”
In che senso?
Ti faccio un esempio. Quando mi telefona mio fratello (e ne ho tre), se qualcuno mi parla in italiano, io capisco che con lui ci sono altre persone. Se mi parla in dialetto significa che siamo da soli, io e lui. Questo te la dice lunga su quello che succede con la lingua e col dialetto.”
In una poesia della raccolta, quella dedicata alla “radici ravegnane” di Pasolini, dici: “una cosa abbiamo in comune, o forse due | Parlo dei nostri dialetti | che fanno rivivere i morti”. Per lui era il dialetto di Casarsa, per te è il romagnolo. Da una lingua di realtà, il diletto è diventato una lingua dell’elegia e del ricordo.
“Ho avuto modo di leggere le sue poesie con il cugino, Nico Naldini, durante un convegno molti anni fa. E abbiamo parlato a lungo di Pasolini. Mi è dispiaciuto non avere avuto la fortuna di incontrarlo personalmente… Sì, in un certo senso quello che dici è vero: la lingua diventa uno strumento per poter parlare dei ricordi e, nel caso di questa raccolta, anche di descrizioni. Ma una volta non era così, era un tutt’uno con la realtà. Proprio Pasolini diceva che il primo linguaggio l’aveva imparato dalle cose: anche io. Quando ero bambino e l’estate la trascorrevamo a piedi scalzi lungo la carraia, ci arrampicavamo sugli alberi e scoprivamo la vita… ecco, il primo linguaggio ci è venuto da lì, nei riti, nei detti. Ci sono cose che potrei dire solo in dialetto.”
Esiste secondo lei uno Sprachgeist del dialetto romagnolo, una sua cifra peculiare, un suo stile che lo distingue dagli altri dialetti? Leggendo i poeti del Circal de’ giudeizi, o anche lo stesso Olindo Guerrini, il romagnolo mi pare essere una lingua molto dolce, predisposta all’elegismo, tutto il contrario di quello che sostiene Gianfranco Contini, ad esempio, quando parla di una lingua “ispida” e “irsuta”, quasi barbarica.
“Non c’è un solo dialetto in Romagna, ce ne sono tanti. Ce ne sono di irsuti, come il mio, quello della zona delle Ville Unite; ce n’è un altro più vellutato, come quello santarcangiolese. Ma ci sono anche tanti poeti diversi, tante sensibilità. Prendiamo i vari Guerrini o Talanti, o anche Neri, i poeti del primo Novecento: erano poeti legati a un certo realismo, a una certa ironia. Nel secondo Novecento è avvenuta una svolta, dovuta soprattutto a Guerra e alla sua raccolta I bu: la fine di un mondo, quello contadino, e l’inizio di un altro, il mondo industriale, freddo; e il poeta si adegua a descrivere questo nuovo mondo, pur con una lingua vecchia, antica.”
Cito queste parole, che sono della Szymborska: “il poeta moderno malvolentieri dichiara al pubblico di essere tale, quasi se ne vergognasse un po’”. Lei sente la vergogna di essere poeta?
“Di primo acchito ti direi assolutamente no. Non sento vergogna per la mia identità. Sento di avere delle cose da dire come altri le hanno, e secondo me la poesia è una ricchezza non solo per me, per il suo valore catartico, ma anche per gli altri, perché una volta scritte, le poesie non ti appartengono più. Poi, perché mai dovrei vergognarmi io? Semmai il mondo dovrebbe vergognarsi con le sue finzioni! Meglio, un certo mondo. La sua de-sentimentalizzazione della vita… Questa è la realtà povera, non quella di chi tenta, come un’antenna – e il poeta per me è un po’ l’antenna della società – di fare riflettere, di aprire la strada. OgnOgnuno ha il suo modo di stare nella vita. Come diceva Franco Scataglini, poeta anconetano: “Per me vita e scritura ene compagne, el sai | tuta scancelatura dopo dolor de sbai”. La scrittura è la mia identità, e non me ne vergogno. Ma chiaramente gli pseudo-valori di tanta gente fanno paura, l’apparenza, il possesso… ci si sente timorosi, si cammina come pecore in mezzo a tanti lupi.”
Ma stiamo divagando, torniamo alla raccolta. Ci sono molti luoghi che racconti e che descrivi, in questi tuoi bozzetti quasi impressionisti. Tanti di questi sono legati ad un turismo istituzionale: le chiese, i siti Unesco, l’eterna Ravenna dorata da cartolina. Mi parso però che le poesie più vibranti fossero quelle che parlano di luoghi personali e meno frequentati, luoghi del tuo passato e del tuo presente. Forse la più bella in assoluto è quella ambientata alla Bassona; ma anche quella sui Giardini Pubblici, sul Giardino delle Erbe Dimenticate, sul Sacrario dei 56 martiri. Sbaglio?
“In parte è così… Ma d’altronde è un po’ un debito che debbo pagare alla città: come non parlare di San Vitale o Sant’Apollinare? Però se noti, anche nella descrizione di questi luoghi il mio io partecipa. Quando parlo di Sant’Apollinare in Classe, ad esempio, scrivo: ‘Vorrei trattenere in una giumella | un po’ della tua passione | una goccia di quel mosaico di paradiso‘… Però sì, forse sono d’accordo con te, le poesie più riuscite e più briose sono quelle più partecipate di io e di vissuto.”
Meno male. La più bella definizione poetica che dai di Ravenna è questa: “in sta zitê che cme ‘na margarita la s’ sërra ad sera dentr’ un pton tot d’ôr”. Fermiamoci un attimo qui: la segretezza di Ravenna, il suo celarsi ed essere celata dai cittadini, è sempre stato un topos letterario fortunato. Poco prima citi Savinio, che conferma questa impressione di segretezza bizantina: per lui la città è “abbottonata fino al gargarozzo nel suo abito di pietra”. Questa particolarità di Ravenna è ancora attuale?
“Sì. Questa chiaramente è una mia nota polemica. Perché non vedo una grande apertura nei ravennati… Anche perché i ravennati in senso stretto sono ben pochi. Siamo tutte persone che sono venute dalle campagne, da destra e sinistra, di qua di là… E ci permettiamo di essere anche campanilisti. Una malattia che detesto… Secondo il mio punto di vista è una città che rimane sempre un pochino bizantina, in tutti i suoi aspetti, pro e contro. Ma pensa adesso al turismo: la nostra è una città chiusa, non è ospitale! Lo si evince da tante cose: i negozi e i bar che chiudono presto alla sera. E allora viene da dirti: ma ‘sta gente perché lavora? Solo per il proprio baiocco, o per la funzione sociale che svolge, come dovrebbe essere? Credo che possiamo migliorare ancora molto.”
Quindi questo vestito di Savinio bisognerebbe sbottonarlo un po’?
“Sì, sbottoniamoci un pochino. Questo oro rendiamolo a tutti.”
C’è una sezione della raccolta dedicata ad altri poeti e artisti, che hanno visitato Ravenna e che hanno contribuito a creare il suo idealtipo. Perché hai sentito il bisogno di chiamare in causa altri artisti, portando la loro visione?
“Volevo unirmi al sentire poetico di altri poeti su questa città, in una coralità di voci. Questo ho inteso fare, caratterizzandoli alla mia maniera, col mio occhio. Di Byron e Teresa aveva gia scritto per il Ravenna Festival, in un lavoro interpretato da Elena Bucci e Chiara Muti, avevo avuto modi di approfondire la vicenda umana e il passaggio di Byron. Anche per Oscar Wilde nutro grande simpatia. L’ho definito ‘palandron’: me lo immagino proprio ‘sto arnese grande che arriva a Ravenna sul suo cavallo… (Ride)”
Ho trovato molto affetto anche nei confronti di Giovanni Pascoli, ad esempio.
“Pascoli è un po’ il nostro padre. Lontano, è vero, ma è lui che ha aperto la strada alla poesia della modernità. Non soltanto in dialetto, ovviamente, ma anche per la lingua italiana, pur essendoci qualcosa che ha scritto che non mi piace affatto. Ma forse, questa simpatia, ce l’ho istintivamente per tutti quelli che hanno vissuto una vita piena di tragedie, per una forma di compartecipazione.”
La sofferenza aiuta la poesia?
“Assolutamente sì. A volte mi sembra di scrivere come in uno stato di sospensione, in cui devi riflettere su tutta la sofferenza che hai incamerato. Tanta della mia poesia è nata in seguito a forti e cocenti delusioni amorose. Non nel momento immediato, ma in quello in cui si rielabora il lutto, come si dice, lentamente. Il senso della perdita è molto forte: a sedici anni ho perso il padre – è stato più o meno il periodo durante il quale ho cominciato a scrivere – e ho avuto anche un’esperienza all’Ospedale Psichiatrico di Modena, a 19 anni, per un forte esaurimento e crisi depressive. E poi la mia vita sospesa, passata soprattutto fuori casa, sbattuto in qua e in là per mantenermi: ad Ancona, il servizio militare in Friuli, a insegnare a Como. Un periodo ramingo… la vita l’ho imparata per le strade e con la gente, sbattendo il muso. La poesia nasce qui, dalla tua carne, dalla tua sofferenza.”
C’è una frase di Ivan Simonini che mi è rimasta molto impressa, quando dice che non ci sono tanti ravegnani illustri nella storia perché in pochi hanno avuto la forza di rescindere le catene d’amore che li legavano alla loro città. Sei d’accordo con lui?
“Io credo che per crescere bisogna uccidere il padre, tutti quanti. E se c’era una cosa che mi sconfortava e mi stupiva era vedere tanti giovani nelle nostre biblioteche per anni e anni, lì, sempre lì: non si staccavano, non rompevano il cordone ombelicale, preferendo rimanere studenti fino a 35-40 anni. Si può amare la propria città anche percorrendo il proprio cammino e la propria storia… Ma Simonini ne dice tante. Dice anche che io sono il più grande poeta dialettale vivente in Romagna, quindi…”
a cura di Iacopo Gardelli
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