Il ballo, il dileggio, di Ézia la ṣgrézia: Roberto Magnani delle Albe nel poema in dialetto di Nevio Spadoni
Articolo tratto dal CORRIERE DI BOLOGNA di Massimo Marino – Controscene
È incantatorio il giambo di Nevio Spadoni, il ritmo prima ancora della lingua, un romagnolo duro, terroso, con folate impetuose di vento di mare. “Al bala al tet / al scösa al bala / al va a spas / al pê ad sas / al s’êlza al ṣbasa / l’è tota masa…”. A leggerlo un po’ si capisce (“Ballan le tette / scuotono e ballano / a spasso vanno / paion di sasso / in alto e basso / è tutto grasso…”: così, senza virgole, punti e virgole, punti). A sentirlo recitare da Roberto Magnani, accompagnato dai suoni materici di Simone Marzocchi, in quel bugigattolo buio, avvolgente, che è il VulKano di San Bartolo di Ravenna, se non sei di quelle parti decifri poche parole isolate. Ma vieni incantato, e spaventato, indignato e rapito dalla storia della donna protagonista di E’ bal, dal fiato del suo avanzare, dagli sguardi di chi la deride, dalle critiche dei paesani, dalle sue risposte di smarrita selvatica ferocia, dal suo continuare continuare continuare a incedere nel dolore, emarginata di paese, di campagna, dal superbo petto esibito come sfida per quanto squarciato da lame taglienti di offese.
Spadoni è l’autore di L’isola di Alcina (2000) e di Luṣ (1995 e 2015), due spettacoli di Marco Martinelli e del Teatro delle Albe portati in scena con perfezione musicale e incrinatura di ribelle sofferenza, introspezione preghiera e bestemmia, da Ermanna Montanari. Il dialetto è lo stesso dell’attrice, quello delle Ville Unite, alcuni borghi come Campiano dove il ravennate (o quello che resta di esso) si è conservato più duro e campagnolo, senza le contaminazioni della città. Per quanto poco ne sappia io di dialetto di quelle zone, mi sembra evidente anche come il poeta lo abbia reinventato, anche solo conservandone la sua patina più ostica, antica, atavica, trasformandolo in lingua dell’anima, in orizzonte per dissodare arcaici dolori, ancora attuali, e rituali di sacrificio ed espulsione del diverso. Alcina è un’abbandonata, Bêlda, la protagonista di Luṣ, è una veggente contadina, considerata una strega e da tutti sfuggita di giorno e ricercata in segreto, con quella cattiveria che nei paesi può azzannare senza edulcorazioni.
Roberto Magnani anche lui viene da quei luoghi. Lui, a metà strada tra i trenta e i quaranta anni, non è dialettofono, anche se afferma di aver sentito parlare in casa in vernacolo. Lui è cresciuto alla scuola delle Albe. Anzi: ha iniziato quando era studente a fare teatro alla non-scuola, poi è diventato “palotino” (uno dei giovani protagonisti del coro dei Polacchi di Marco Martinelli dall’Ubu di Jarry, 1998), infine è entrato a pieno diritto in compagnia e ha provato anche, qualche anno fa, un primo assolo in romagnolo, Odiséa. Lettura selvatica di Tonino Guerra. Ora la maturazione appare completa, nel garbo insinuante, nell’ironia appassionata e metallica, un po’ tenera un po’ sarcastica, deliberatamente sforzata, con cui porge i versi di Spadoni, con la metamorfosi che subisce quando da narratore diventa voci dei paesani malevoli e quella ancora più travolgente di quando, illuminato dal basso, incarna la protagonista, che il poeta definisce subito, con un gioco di parole devastante: “la s’ciâma Ézia / mo pr e’ paéṣ / a capirì / l’è sól ‘na ṣgrézia”, una disgrazia, una ṣgr-ézia (Ezia e il contrario di Ezia, tradurrei, essere, individuo, e nulla sociale). Nei panni della donna la voce s’incavernisce o va negli acuti, il volto diventa maschera, con un bagliore luciferino in più, gli occhi si allargano, il viso si deforma, e in ciò senti il peso delle parole di piombo e letame che chi la circonda le scaglia contro, e tutta la sua violenta, ribelle reazione.
Ezia, a trentasei anni, è stata abbandonata dall’uomo con cui stava da anni. E non si rassegna, e non si chiude nella sofferenza: incede con le tette dure, con un passo che sembra balli, come un cavaliere dell’apocalisse, un vendicatore o semplicemente una che vorrebbe strappare la gioia alla vita. E non se ne importa se non si sa chi sia suo padre, se le malelingue la dicono nata dal prete e da una madre puttana, se l’accusano di sembrare una cagna in calore. Lei non se ne cale, e va avanti, avanti, andrà avanti facendosi largo fra quelle voci, fra fischi e lazzi, con ritmo da filastrocca, per anni e anni, fino a che, senza accorgercene, la ritroviamo con i capelli bianchi, la pancia gonfia, i denti cadenti… Sempre in cerca di un altro moroso, che lei non trova, perché ormai “al dôrma al tet”, dormon le tette, e intorno a lei, dopo il dileggio, si fa il vuoto, viene scacciata, e a furia di camminare un giorno muore. E allora diventa, per il paese, una donna santa. Sarà
il Signore, che pure si prende con lei la libertà di qualche scherzo di troppo, a darle pace, a offrirle in premio solo un consiglio per un’altra volta che torna in vita: non dare retta, pensa a mangiare, a bere pensa, e quei coglioni manda a cagare!
Magnani racconta stretto in un abitino elegante alquanto striminzito, camicia con i volant e un cravattino da cantante di liscio del dopoguerra, da presentatore di tombola paesana, col ciuffo ben pettinato e la voce che va suadente, sull’onda dei versi di Spadoni, e poi affonda nel lazzo tagliente o sprofonda nel dolore trattenuto, ributtato in faccia ai fetenti, nel tormento dell’emarginazione che non si arrende e sfida e lotta. Lo accompagna una melodia incalzante di tromba di Simone Marzocchi, che poi nell’ombra produce suoni stridenti, metallici, rugginosi, e i loro doppi elettronici. Sono il vento, la bufera prodotta dal pedale di una vecchia Singer, i denti di una sega, una lama di metallo rugginosa sfregata, suonata con un chiodo, parete che chiude come ombra minacciosa la scena, come eco, come fantasma della donna offesa.
Lo spettacolo è breve e bello. Chi non conosce il dialetto poco capisce, ma entra nel giro, nel ritmo, nel vortice, nel gioco delle orride parti, nella ribellione di questa umiliata resistente. Un solo appunto: come ha fatto Montanari in Luṣ avremmo gustato di più questa suite danzante con sovratitoli in italiano. E sarebbe davvero un bel secondo (o primo) tempo a Luṣ, in un dittico di questo poeta, Spadoni, che ci consegna ogni volta ritratti di donne commoventi, esaltanti, umanissimi, grondanti dolore, immaginazione, dignità, voglia di orizzonti oltre mura soffocanti.
E’ bal si può leggere, con traduzione a fronte, nel volumetto pubblicato dalla casa editrice L’arcolaio di Forlì nella collana “L’altra lingua”.
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