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Recensione – “Poesie dopo la festa” di

Alessandro Mantovani (L’Arcolaio, 2015)
articolo di Lorenzo Battaglia

Nella quarta di copertina del libro, scritta dal poeta e docente dell’Università di Bologna Alberto Bertoni, si definisce Mantovani un poeta che “Se vivessimo in un’altra epoca, sarebbe un poeta epico”. A buon ragione, Bertoni sottolinea in un’altra epoca dal momento che Mantovani spesso e volentieri esprime un registro confessionale, monodico, lontanissimo dal mimetismo esaltato di certi accordi, appunto, epici. Come scrisse M. L. Rosenthal, nella fuorviante poesia confessionale si giunge a “una fusione del privato e del culturalmente simbolico”. Non è semplice riuscirci, cioè concedere al privato autobiografico di divenire il soggetto principale della poesia a caratteri chiusi, compresa di stili e confini, “proibizioni” di diffondere quella voce dell’io più puro e istintivo. Eppure Mantovani a tratti ci riesce, diffondendo quella voce che non è solo “poesia-d’accademia”, mixando con compunzione l’esigenza di rievocare una dimensione immaginativo-simbolica (fatta spesso di allegorie mitiche / “estirpate come erbacce bruciate”) che rallenta e ovatta il tempo in una sorta di contemplazione del poeta fuori verso lo spazio aperto, insieme a slang/argot più contemporanei e forme grammaticali distorte che “celebrano” l’assenza di linguaggi poetici nel presente e che, insieme, per antitesi, sembrano consigliarci di ricondursi a quelli. E così, davvero, nella poesia di Mantovani l’esplosione di creatività non si scatena mai, ma (anzi) ogni emotività da cui si è colti implode in una narrazione ragionata dell’io monologante, solitario, testimone di periodi di sperimentazioni esistenziali, di prove ed errori:

“Anche oggi sono stato reduce / della mia vita. / Mi siedo solo, parca mensa: / zuppa densa, pepe e sale / sulla tavola di legno, / il pane di ieri che mi è bastato, / del vino inacidito, un peperone verde, / avanzo avanzato”.

Sembra proprio che qui, in questa raccolta, il giovane poeta cerchi il punto zero di un artista come diceva Arakawa, “La vera condizione [perché] una qualsiasi avventura della mente [ab-bia inzio]”, per farlo diventare “modello mentale” della sua sperimentazione poetica, dove tutto è una curiosa avversione alla ricerca di strade per evitare le trappole, la sua escursione distruttiva (ma, ovviamente, inevitabile) nel mondo reale:

“All’alba ho salito la collina / pochi volatili a chiedermi silenzio / mentre compatto neve sotto i passi. / […] Eppure sono solo passi incavati, / buchi in cui frugare, ricercare / un senso tra i cri-stalli siberiani”.

Alessandro Mantovani nasce a Genova nel 1991. Studia Filologia Classica all’Alma Mater Studiorum di Bologna ed è cofondantore del mensile indipendente di poesia Fischi di Carta, approvato da Enrico Testa. Collabora con diverse testate giornalistiche e, in passato, ha fatto parte della redazione di La Repubblica di Bologna.