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 DI BARBARA HERZOG PRESENTIAMO QUI ALCUNI TESTI, DOPO AVERE RIPRESO LA BELLA PREFAZIONE DI FRANCESCA SERRAGNOLI. LA SCRITTURA DELLA NOSTRA NUOVA AMICA E’ ANALITICA, A TRATTI DURA – ANCHE ASPRA -, MA ANCHE ICASTICA E LARGAMENTE CONDIVISIBILE NEI CONTENUTI E NELLA POETICA!

BENVENUTA TRA NOI, CARA E BRAVA POETESSA!

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Riportiamo adesso la prefazione della brava Francesca Serragnoli, che ringraziamo per la preziosa collaborazione!

“C’è una chiarezza nel mondo, senza confini, chiamata sofferenza. Vicina o lontana che sia, ne siamo impastati nel corpo e nello spirito dalle origini del mondo. Franco Loi in una sua poesia, cito a memoria, scriveva: “ogni volta che mangio, qualcuno muore”. Immagino si riferisse alle notizie del telegiornale. Ecco, questo libro non sono le news di prima pagina raccontate con gli occhi della poesia. Non è un libro furbo che ha trovato un argomento “commerciale” (l’esagerazione non politicamente corretta è per capirsi). Certo, il primo commento, buttato lì, è quello che il dolore che il libro tocca (con mano) è quello che percorre un fiume sotterraneo, parallelo: i migranti, i futuri rifugiati, i derelitti. Noi lo vediamo alla televisione e, come gli operatori, ci mettiamo i guanti di gomma. Ma non è questo, ripetiamo, il commentino che può torturare la mente e la pancia. Lo scontro principale è su “cos’è umano” e la chiave di lettura, credo, sia “non si assomigliano/ se non nel silenzio”. I clienti sono i volti, dovrebbero esserlo sempre, e i volti indicano una strada indimenticabile, insostituibile, unica. Siamo umani perché soffriamo? Siamo simili nella sofferenza quindi siamo umani? Barbara ha avuto la forza di non isolare il dolore come ultimo pungiglione (sotto teca) che definisce quello che è una persona. Il pungiglione sono i volti, con i loro orizzonti vasti come quelli dei grandi paesaggi collinari che ci circondano. Non si tratta di contenere la sfilata di profughi che entrano nelle nostre città, di contare, di classificare, qui c’è una grande similitudine che sorregge tutte le nostre poesie: la migrazione in questo mondo, senza confini, dolorosa, turbata, il grande viaggio della vita spinto dal desiderio di stare meglio, cioè della felicità. Si potrebbe dire che noi occidentali vendiamo felicità a buon prezzo, ma quando si tratta di vita o di morte, la felicità che uno cerca non è solo il benessere, ma una specie di salvezza dal male. Lo stare meglio può coincidere con la liberazione dal male, ma credo che per queste piaghe non bastino cerotti, soldi e case a riempire i vuoti. Allora cosa rimargina le ferite? Un amico mi ricordava in una mail una frase di Leon Bloy: “soffrire passa, ma avere sofferto non passa mai”. Occorre una consolazione immensa, profonda come è fondo il dolore. Barbara intravede qualcosa di più del carcere dei fatti accaduti, del curriculum tremendo. Una signora, compagna di stanza di mia madre in ospedale, parlando delle pesche, diceva che suo marito decideva che erano da raccogliere quando “i ha fat è vulton”. Non si riesce a tradurre e io non voglio nemmeno capire di meno di questa frase che per me ha a che vedere con il volto, il sole, l’attesa fiduciosa, la bellezza, la pazienza. Si potrebbe dire che una pesca non è un uomo. Verissimo. Ma siamo tutti appesi a un ramo che non è il nostro. E vulton è desiderabile e basta. “Non si somigliano/ se non nel silenzio”, dicevamo, la chiave di lettura di questi testi. La somiglianza è quello che permette di guardarci in faccia e riconoscerci, senza che un colpo di macete ci divida. Non parleremo certo del modo di aiutare queste persone, ma del perché. In Amarcord, ad un certo punto, nella scena della grande nebbia, il nonno esce di casa e si perde. Sente poi arrivare una carrozza e grida “Ferma! C’è un uomo qui!”. Ogni volta che in ospedale, per la strada, in un ufficio, in una sala d’aspetto si ravvisa questa somiglianza, non dico che ci sia salvezza o garanzia di non essere colpiti con un pugno, ma ci si allarga come laghi, ci si senti in fondo in buone mani, la pasta di cui siamo fatti è buona. E in quella bontà siamo fatti nuovi, vestiti come con il vestito della domenica. “C’è un uomo qui!” basta e avanza. Non c’è nulla che ci sfami e disseti come un gesto umano che è quasi divino. Questo è lo specchio che ci fa belli, il belvedere. La poesia, anche quella civile, contro le guerre, non salva (la vita), Barbara lo sa. Ma allora a che serve un libro di poesie? È un volto come gli altri, sperduto, che dai barconi ci guarda e lava i disperati come lavasse se stesso. È retorica poetica questa? Retorica sulla poesia? Sicuramente lo è, ma occorreva compensare la mancanza di retorica di queste poesie.”

Francesca Serragnoli

Alcuni testi:

 

Voglio sapere. Addentrarmi.
Nuotare nel dolore.
Sprofondare negli occhi iniettati di sangue rappreso da un anno.
Svuotati. Dalla fiducia nell’anima umana.
Cos’è umano.
Parlare con la voce afona che non ha più nulla da esprimere.
Ascoltare il tremendo silenzio.
Non c’è fine. Continuerò malamente ad incollare frantumi.
Continueranno a frantumare.
Voglio essere invasa dal tonfo sordo che batte ribatte
nella testa china per comprendere.
Comprendere è il primo passo verso la guarigione?
Dal gelo nelle vene dei torturatori.

**

Mio figlio aveva tre anni. L’avevo nascosto con la famiglia di mia madre. Ma mi avevano seguito. È stato un attimo. Un colpo di pistola in fronte, e il mio bimbo non c’era più.
Hanno avuto la grazia di non usare il machete. Come invece usavo fare io. Quando facevo parte dei vigilantes del governo. Eravamo un’istituzione ufficiale. Con tanto di mandato. Di trovare, giudicare e giustiziare. Nessun rallentamento giudiziale. Nessuna intromissione della polizia. Veloce ed efficace.
Bisognava tenere le strade pulite e il vicinato sicuro. Ci pensavamo noi.
Era un buon lavoro. Per un buon cristiano come me. Io sono cristiano pentecostale. Avrei dovuto prendere il posto di mio padre alla sua morte. Era il capo spirituale. Gli hanno tolto il cuore e me l’hanno appoggiato in mano. Era la consegna. Ma io non sono mica come loro. Quello era il lavoro di mio padre. Sarebbe toccato a me, gli altri fratelli non andavano bene. Il primogenito sono io. Con le femmine ancora tutte da sposare. Io sono un buon cristiano, come mia madre. E facevo un buon lavoro.
Aiutavo il governo. Liberavo il vicinato dai criminali.
Ma poi il governo ha sciolto il nostro gruppo.
E tante persone erano risentite contro di noi.
Hanno sfondato un bar con quattro macchine perché sapevano che io e i miei amici eravamo dentro. Ho visto due amici morire. Davanti a me. Quella volta sono riuscito a scappare. Sono scappato oltre il confine del paese.
Ma là c’erano comunità di gente del mio paese. E sapevano del mio lavoro. Non c’era tregua. Mi hanno assalito di nuovo, con bastoni e tirapugni e machete. Ho le ferite che lo provano.
C’era sangue dappertutto. Ma sono riuscito a scappare ancora. In un altro paese ancora.
Poi mi sono imbarcato per venire qui.
Chiedo a questo Stato protezione, perché a casa mia non posso tornare.

**

Ho sbattuto il Corano per terra. Così hanno detto.
Da anni pagavano sì e no la metà dello stipendio concordato. Mio figlio si era ammalato. Ho chiesto per la prima volta i soldi che mi spettavano. La signora si è arrabbiata tanto. Ho continuato a pulire la casa. Mi è arrivata addosso con una scarpa in mano, picchiando mentre lanciava improperi. Urlava minacce che mi hanno spinta a scappare.
Mentre ero dallo zio sono arrivati a casa mia in cinque a chiedere di me. Soprattutto con i miei figli, perché le grida di dolore attirano la mamma. Ma io non c’ero. E loro non hanno detto niente.

Riusciamo ad andare a messa a casa di qualcuno di noi una volta al mese. Senza dare nell’occhio. Vivo in un paese a quattro ore di macchina dalla città più vicina. Non c’è la polizia. Quella c’è in città. Ed è mussulmana. Anche la famiglia per cui lavoro è mussulmana. Le appartiene il paese e i terreni da esso coltivati.
Hanno detto che ho sbattuto il Corano per terra.

Mio zio mi ha portata di notte nel cofano della macchina in città, da un altro parente. Ma loro hanno chiesto di me.
Mi hanno messa su un treno verso una grande città. Un uomo mi ha fatta salire su un camion. Abbiamo viaggiato per cinque settimane. Non so se abbiamo attraversato altri paesi oltre il mio. Scendevo al buio per i miei bisogni, e bevevo e mangiavo quando mi davano qualcosa. Non facevo domande.
Sapevo soltanto che mio marito aveva il braccio rotto. Forse i miei figli no.

Non so leggere né scrivere. Ma un giorno, sbirciando tra le assi, capivo che i segni scritti sui cartelli erano diversi. Mi hanno spostata dal camion ad una nave. È stata una lunghissima notte, prima di salire di nuovo sulla terra.

I miei figli hanno sette e nove anni. So che sono scappati. Ma non ho un telefono. O qualcuno a cui chiedere.
Ho freddo. So che faccio cattivo odore. Il viaggio è stato lungo.
Una tazza di tè caldo con tanto zucchero?
Tikka, volentieri.

**

Concime per i pesci
nell’atto di tenere giù
le teste
scrostare mani
aggrappate
già la frase sulle labbra
un barcone
un milione
vivo o morto

non è che le notizie
non tornino
il mulino
è crollato
da quel po’

ma a scegliere
tra morte e morte
scegli comunque
quella più lenta